aquattromani: 25

PARADISO PERDUTO

Il sole non si è ancora alzato, dentro la fabbrica c’è buio pesto. Antonio continua a rigirarsi sulla branda senza riuscire a riprendere sonno. L’aria è immobile. Questi ultimi giorni di luglio sono tremendi.
“Sei sveglio?” chiede, con un filo di voce.
Corrado non risponde. Allora Antonio si alza sui gomiti e con l’accendino illumina il viso del compagno. Per alcuni secondi, ne osserva le palpebre chiuse, i movimenti degli occhi sotto la pelle.
Più tardi mi racconterà le meraviglie con Maria, pensa, ormai posso vederne anche i sogni.
Poi, cercando di non fare rumore, si mette dritto e si dirige a tentoni verso il reparto tessitura. Va a sbattere su un telaio, ma riesce, ugualmente, a trovare il fornellino da campo. Lo accende e ci sistema sopra la caffettiera che ha preparato la sera prima.
Sorride, Antonio, al pensiero della semplicità del suo amico.  Si conoscono da tanto di quel tempo che i venti giorni di occupazione hanno aggiunto ben poco alla loro amicizia. Hanno lavorato per quasi trent’anni in quella fabbrica, un telaio affianco all’altro. Negli ultimi tempi, con le macchine spente, hanno parlato un po’ di più, soprattutto la notte, sulle brande. Ma non si sono confidati niente di nuovo. Niente che già non sapessero l’uno dell’altro.

Il caffè viene su con un gorgoglìo più forte del solito. Anche il profumo sembra più intenso. L’oscurità e la quiete amplificano i sensi.
Dopo aver vuotato la tazzina, Antonio si arrotola una sigaretta e con la prima aspirata guarda verso una vetrata del capannone. Un raggio di luce comincia a filtrare.
“Potevi aspettarmi!”.
La voce di Corrado lo coglie di sorpresa.
“E’ ancora caldo, ma se vuoi lo rifaccio”.
“Va bene così”.
“Ci metto un minuto”.
“No, è meglio che mi risvegli subito”.
Antonio rimane in silenzio, finché il compagno non consuma tutta la sua dose di caffè.
“Non c’era Maria anche stanotte? Non siete andati a rotolarvi vicino al fiume?”.
“No” risponde in un grugnito. “Non ho sognato niente. Non mi ricordo niente”.
C’è una luce scura al fondo degli occhi di Corrado che guardano un punto lontano.
“Anche Maria mi ha lasciato…”
Lo sguardo è un sorriso amaro verso Antonio.
“Ma che ti metti a pensare… hai solo dormito male”.
“Non so. Quel niente mi spaventa”.
“Ma se a te non ha mai fatto paura nulla. Su, dai, mettiamoci al lavoro. Dobbiamo preparare l’assemblea. Vengono anche i responsabili regionali del sindacato. Ripartiremo con la produzione, andremo in autogestione. Questa volta, vedrai che qualcosa succede”.
Corrado si stringe nelle spalle e scuote leggermente testa, come a voler dire che la presenza dei capi non è affatto una garanzia. Ma non dice niente, non vuole svilire l’ottimismo dell’altro.
Antonio capisce. Lo commuove il riguardo del compagno.
Rimangono così, ognuno immerso nei propri pensieri, riordinando l’angolo di reparto che hanno adibito a cucina e, per tutto il tempo, non si scambiano una parola.
Finché Antonio non decide che è il momento di allestire lo spazio per la riunione.
Nel salone della filatura hanno costruito un palchetto con le casse di legno che servono al trasporto delle rocche. Vi sistemano sopra un tavolo, un megafono e quattro sedie per i relatori. Corrado srotola uno striscione di tela e lo stende per terra. Con un pennarello dà un ultimo ritocco alla scritta.
“E’ una bella frase” dice Antonio.
“Me l’ha suggerita Andrea, il delegato giovane. E’uno in gamba”.
“Sì, è il migliore”.
“Avercene”.

Quando finiscono di attaccare anche l’ultimo lembo di stoffa alla parete, scendono dalle sedie con cauta agilità. Entrambi affondano le mani nelle tasche dei pantaloni e controllano che tutto sia a posto.
“Va bene, mi sembra”.
“Sì, manca solo una bottiglia d’acqua, la mettiamo quando arrivano”.

“Stanno arrivando, ascolta…”.
Un rumore di motori giunge dalla strada, ancora in lontananza. Quando si fa più vicino, Antonio stringe per un polso Corrado.
“Ci siamo”.
Lo sguardo di Corrado è limpido, adesso. Gli occhi, in quel volto antico, sembrano quelli di un ragazzino. Si abbracciano, come due amici che si stanno salutando alla stazione.
Alle otto e cinque minuti, la prima ruspa spinge la benna contro la parete del lato nord. Le altre si accaniscono sul tetto di uno dei capannoni.

E’ pomeriggio inoltrato, quando l’ispettore Rondoni arriva sul posto. Un sole cocente riverbera sbieco sulle macerie della vecchia Texal, la fabbrica chiusa da anni che lascerà finalmente il posto al nuovo centro commerciale. Sporco di polvere e accaldato, arriva a fatica vicino ai corpi senza vita. La Scientifica ha già terminato i rilievi. Rondoni si chiede come mai due persone anziane siano venute propri lì e abbiano scelto quello strano modo di farla finita. Pensa alla depressione, alla solitudine che diventa insopportabile con l’avanzare degli anni, a chissà che gli sarà passato per la testa.

A quello striscione rosso, che parla di operai e di paradiso, non ci vuole proprio pensare. E’ una frase senza senso, una sfida inutile, con il caldo che fa.

Piccolo aggiornamento

Aitan, dunque, non fa più parte della giuria: ha commentato in itinere; anche se non stava scritto da nessuna parte che non dovesse (avete presente il Premio della Giuria di Sanremo?… nessuno chiede di non fare commenti, prima) è stato deciso, da pochi ma è stato deciso, che c’era un vizio di forma.
Allora: se le regole valgono per tutti, e le regole dovrebbero valere per tutti, anche chi ha partecipato, e aveva diritto a esprimere un voto, non avrebbe dovuto commentare.
Poi, altra novità. Diciamo per solidarietà con Aitan, ma non solo, Stefania Mola non fa più parte della giuria.
Resterebbe Gloria Pozzo: e non mi pare il caso.
A questo punto, per me, il gioco finisce così: posto i restanti racconti, alla fine faccio un elenco con titolo e autori, e basta.
Contattare altri giurati, cercare nuove soluzioni?
Devo lavorare fino a martedì, poi da martedì sono in ferie per 12 giorni, vado in Salento. E il pc, certo, me lo porto dietro, ma per la posta elettronica, e post veloci, al mattino. Ho sei libri da leggere, in Salento, e un’ora al giorno (di notte) la dedicherò alla rilettura di un mio manoscritto.
Così è (se vi pare), perché così è andata.
Buona giornata

aquattromani: 24

PASSAGGIO EPOCALE

Seduto sulla tazza del cesso mi arrivano dalla stanza a fianco i toni sempre più alti della voce del Bravo Presentatore. E me li vedo, mio padre, mia madre, i loro amici coi  figli, raccolti intorno al caminetto elettronico.
Sulla parete, a due spanne dal mio naso, seguo con lo sguardo ogni venatura del legno perdersi in circonvoluzioni, fino ad implodere nel buio di un nodo. Così i miei pensieri. Una volta no, una volta le feste, qualsiasi festa, erano la mia festa. Tutto aveva un senso compiuto. Quando mangiare il pollo allo spiedo e le meringhe alla panna, guardare in TV Carloconti ed Antonellaclerici, ricevere i regali, qualsiasi regalo, era tutto ciò che potevo desiderare.
Mi alzo, trascinando la gamba sinistra, intorpidita per la posizione ed avvicino il termosifone elettrico, affinché riscaldi me e, magari, anche questa schifosa serata. Perché io, di tanti anni passati, ricordo solo feste bellissime. Ricordo che riuscivo a desiderare intensamente un certo tipo di modellino Supercar o una particolare confezione di Gormiti fino a ritrovarmeli di fronte il giorno del compleanno. Non ricordo però quando tutto ha iniziato a cambiare. So soltanto che tutti hanno sempre più spesso sbagliato i regali con me, e poi, io non sono più capace di desiderare intensamente qualcosa.
In questo momento potrei, forse, desiderare di essere inghiottito dal turbine dello sciacquone ed essere trasportato a qualche centinaio di chilometri da qui. Qui, dove, nella stanza a fianco, il sonoro del televisore ha raggiunto il suo apice di starnazzamenti e nonostante ciò è sovrastato a tratti dalla voce di mia madre che invoca il mio nome:
– ALESSIO! E’ quasi mezzanotte!
E me li vedo quelli di la’. I timpani oramai perforati da qualche centinaio di decibel, prodotti, in barba alle leggi della fisica, dall’unico altoparlantino da dieci Watt del portatile, che distorce la voce, ormai inutile, di Amadeus. Me li vedo, gli sguardi inebetiti, puntati sull’orologio in sovrimpressione che scandisce il passaggio epocale dal nulla del 2008 al niente del 2009 ed i calici ancora vuoti, ma pronti, nelle mani destre, meno uno, speranzoso, nella mano sinistra di mio padre: il mio.
Qualcuno bussa alla porta. Sentendomi braccato, apro e scavalco la finestra, risalgo la scala esterna dello chalet e rientro dalla finestra della mia camera, dimenticata aperta. Dentro la temperatura, ma finalmente anche il silenzio, si avvicinano a quelli del bosco di fronte a casa.
Cazzo quanto aveva ragione il Bollo a dirmi che una settimana in montagna coi miei mi avrebbe sfrantumato i gemelli e che senza le sue pastigliette miracolose mi sarei trasformato in uno yeti, o diceva uno zombie, insomma in una specie di zombie delle nevi. Recupero le magiche in fondo allo zaino e mi calo uno Scoop mentre mi collego col PC, che in questo inutile paese almeno la chiavetta prende.
Sul monitor l’immagine della farfalla gialla sta roteando attorno ad un asse virtuale e le serie alfanumeriche che la circondano fanno il loro lavoro ipnogeno. Entro nel sito dove potrò ritrovare Elsita con un avatar di tutto rispetto: per il nostro incontro mi presenterò con un magnifico paio di morbide ali blu notte, che mi avvolgono dalle spalle alle caviglie. Chiedo al computer di trovare la sua essenza all’interno del sito, con il comando /whereis Fata_ArtElsa lanciato attraverso il motore di ricerca. Questa volta viene individuata e subito chiedo una conversazione privata con lei. Elsita mi appare come l’ultima volta, circondata come me da un paio di ali che danno l’impressione di due teli di seta gialla. Quanto mi sei mancata. Elsita mi riconosce subito, un sorriso le addolcisce il volto. Quante volte ti ho cercata. Ma non ci diciamo niente, finchè dopo aver volteggiato random un tempo indefinito, le nostre proiezioni virtuali riescono a baciarsi.
Solo pochi secondi ed avverto un cambiamento, dentro di me. L’immagine dell’avatar lentamente si sfoca, assieme alla proiezione visiva di tutto ciò che lo circonda. Le immagini si sgranano, si confondono, con i pixel che si riducono di numero, ingrandendosi. Ma non è solo la vista a tradirmi, in questo momento. Un larsen mi tappa le orecchie e tutto comincia a girarmi intorno. Mi sento stanchissimo, ora. Sarebbe così bello dormire un poco.
Invece qualche fottutissimo essere umano si affaccia nella stanza:
– Alessio sei qui? Stai bene?
– E’ nel letto, si deve essere addormentato davanti al computer.
Benissimo, mia madre si è trascinata su la madre di Giulia. Giusto un po’ di sputtanamento per iniziare bene l’anno.
– Il mio bambino. Non si è neanche goduto i fuochi d’artificio.
– L’anno scorso si erano divertiti così tanto con Giulia e con gli altri.
– E’ da ottobre, da quando va al liceo che si è chiuso così. Sarà una cotta.
– Dai, lasciamolo dormire, andiamo giù che chiedo qualcosa a Giulia.
Apro di scatto un occhio dietro al gomito e incrocio il suo sguardo, che diventa quello di chi ha appena visto un marziano.
Sarebbe cosi bello dormire un poco.

convinto

Giusto, mi avete convinto. Aitan non fa parte della giuria perché camminfacendo ha commentato.
Istanza accolta: c’è un vizio di forma.
Chi fino a oggi ha commentato non vota.
Chi vota?
Io continuo a postare, diventare scemo per i raccontiaquattromani no.

Qualcuno mi chiedesse, Qual è il tuo romanzo preferito?, penso che chiederei, almeno, dieci giorni per rifletterci un po’ su.
Sul racconto più bello, invece, non ho dubbi: Il pescatore e la sua anima, di Oscar Wilde. Letto e riletto e riletto.

la giuria

Gaetano “Aitan” Vergara (www.aitanblog.splinder.com), insegnante di spagnolo, un tempo animatore teatrale, scrive, disegna e suona vari strumenti per diletto. Si occupa anche di nuove tecnologie per alunni e docenti delle scuole di Stato.

Gloria Pozzo, giornalista (La Stampa) è soprattutto una lettrice. E’ stata editor di una grande casa editrice, ha collaborato con un’agenzia letteraria.

Stefania Mola (SqulibriLeggo per trovare domande) è blogger ed editor. In rete ha recensito centinaia di libri e collaborato con diversi siti, letterari, storici, artistici. Lavora nell’editoria, vive di libri insomma.

Ecco i tre giurati. Ognuno di loro darà 6 voti al miglior racconto, 5 al secondo, 4 al terzo, 3 al quarto, 2 al quinto, 1 al sesto.
Nessuno di loro sa chi sono gli autori dei racconti.
Tutti i partecipanti, se lo vorranno, potranno dare 1 voto al miglior racconto.
Il voto sarà espresso pubblicamente, qui, nei commenti.
Il giorno 30, alle ore 21, scade il termine per partecipare. Ma il giorno 30 potrebbe essere che io abbia ancora dei racconti da postare, e quindi comunicherò per tempo quando votare.
A uno dei giurati (Aitan), che parte ad agosto, farò leggere prima, per posta elettronica, gli eventuali raccontiaquattromani in coda. Se non potrà intervenire nei commenti, ripoterò io i suoi voti.
Torno a ripetere: è un gioco serio, ma non prendiamolo troppo sul serio.
Libertà di giudizio, va bene, ma con garbo, se potete.
Grazie.

Racconto epocale
Da padre in figlio
Sempre la solita storia
Un racconto di cui non ho il titolo
Queste è quanto bolle in pentola: ho, per caso, dimenticato qualcuno?

aquattromani: 23

ADULTI SI NASCE

Affrontare impegni, responsabilità. Diventare autosufficienti, maturi, uscire da uno stato di minorità, di perpetua infanzia e poi di adolescenza e poi di post-adolescenza e di post-post-adolescenza. Uscire di casa.
Nell’Italia di oggi un lui e una lei affrontano il problema in maniera diversa…

Ecco, ricomincia. Anselmo si siede sul letto. Sempre la stessa storia. Ormai è da un po’ che ci riflette, tutte le sere, più o meno alla stessa ora, (Anselmo è un tipo preciso e riflessivo). Basta, basta è ora che io prenda una decisione, sono i pensieri e le parole di Anselmo. Devo andare via di casa, devo andare a vivere da solo.
Nella sua immaginazione “andare via di casa” è come una porta che si spalanca su un campo di biondo grano, c’è un cielo azzurro, è primavera, la musica di Rocky; Anselmo corre tra le spighe di grano anche se ogni tanto si deve fermare perché ha il fiatone.
Insomma, gli si è sempre prospettata nel pensiero quest’impresa magnifica, e nelle sue fantasie, attorniata di una luce strana, diversa, una luce un po’ eroica e se vogliamo anche erotica, perché cavolo, vai a vivere da solo e pensa te – così ragiona Anselmo – quali straordinarie avventure possono capitarti, non devi dare giustificazioni a nessuno, sei libero, free as a bird, una donna diversa ogni sera, dopotutto lui è un trentenne dal fascino regolare, gli possono capitare un sacco di cose piacevoli. Certo, l’aria di casa forse i primi tempi gli mancherà (si dice) ma sul piatto della bilancia stanno delle motivazioni più che valide per mettere in atto il suo proposito. Certo, non è mai stato lontano di casa per più di due settimane, due settimane e mezzo al massimo (si dice), ma abituarsi ad essere autonomo e indipendente non dev’essere una cosa così difficile se lo fanno i norvegesi, con tutto il rispetto per i norvegesi ci mancherebbe, si adatterà, che ci vuole. Certo, dovrà imparare ad usare la lavatrice, e così pure a stirarsi la roba, e cucinare, magari i primi tempi andrà a mangiare a casa, anzi no ma che dico (è sempre Anselmo che parla con se stesso) così mantengo una dipendenza, free as a bird, certo che rinunciare alla lasagna sarà dura ma ce la farò, ce la farò si dice Anselmo. E poi la sera metterò la musica a tutto spiano, potrò girare in mutande per casa, mettere i piedi sul tavolo se mi va, quando mi va. Magari troverò pure un lavoro, sarebbe la volta buona, e mi sistemo. E mentre lo dice, è sopraggiunto il sonno, magari domani ci ripenso bene bene e vedo cosa fare e così spegne la luce, la testa sul cuscino, al buio, Anselmo si addormenta.

La cosa complicata fu dire ai suoi che si trasferiva a Roma. A Roma? Da sola? Ma sei sicura? Questo suo padre. Ma come farai? Non avrai tempo per cucinare, pulire, fare la spesa… questa sua madre. E i soldi?, entrambi. Fatta una lista di tutti di dubbi e spuntati uno a uno in un pomeriggio estivo piuttosto estenuante per tutti i tre membri della famiglia, Anselma  iniziò a cercare casa. Dissolvenza. Non si può raccontare che cosa furono quelle tre settimane di vampa estiva durante le quali lei prendeva un trenino la mattina presto e lo riprendeva la sera tardi avendo visitato nell’intervallo quattro o cinque case di quelle dove non avrebbe messo a dormire nemmeno il suo cane Pluto – coi nomi non aveva mai avuto molta fantasia. Con la forza della volontà e, soprattutto, con la promessa di un’integrazione mensile all’affitto da parte di suo padre, riuscì a trovare un bilocale, molto carino e molto lontano dal luogo di lavoro. Calcolando, tra metropolitane e autobus per essere in ufficio alle otto avrebbe dovuto alzarsi alle sei. Ce la poteva fare.
Non ce la faceva, invece,  ad accettare le stoviglie e la biancheria che arrivavano direttamente dai regali del matrimonio di suo padre e sua madre e che, automaticamente, a sentire quest’ ultima, sarebbero dovuti diventare parte del suo corredo. Corredo rimanda a matrimonio, a cose stabili, fisse e durature. Corredo, quello che sua nonna le aveva messo insieme fin da quando lei era piccola, comprando lenzuola ed asciugamani come se, da grande, fosse dovuto andare in sposa ad un principe.
Non ti piacciono le cose che ti voglio regalare? chiedeva sua madre, ansiosa. Oddio!, pensava lei, le tazzine non erano bellissime, però gli anni settanta erano anche tornati di moda e, insomma, non era quello. Il fatto era che Elisa voleva la sua prima casa cominciando da zero, e dentro ci voleva cose che sceglieva lei e solo lei, senza nemmeno il fardello delle tazzine. Ad un certo punto suo padre le fece gentilmente notare che se accettava i soldi poteva anche accettare le tazzine e le lenzuola e la discussione fu chiusa lì.

Insomma, questi due ci hanno provato ad uscire dal loro stato di minorità. Magari con esiti forse non esaltanti. Però, che si siano impegnati: almeno questo glielo dobbiamo riconoscere.
Poi, certo, piacerebbe a tutti che arrivassero dei risultati tangibili, concreti, che la vita…
La vita è una cosa seria.

aquattromani: 22

PACCO A RENDERE

La osservo mettere le bustine di tè nero al bergamotto nella teiera di acqua bollente poi, con il viso sereno quasi sorridente, dispone i biscotti al cioccolato su un piatto: la sola presenza di Cecilia mi infonde tranquillità e sicurezza, da sempre.
“E’ ora di passare al tè freddo” dice sorridendo mentre appoggia sul tavolo le tazze di porcellana con un fiore blu stilizzato e aggiunge: “Allora, com’è andato quest’anno scolastico?”
“Son contenta, è finito” rispondo.
“Elisa, hai terminato anche la specializzazione, vedrai che ora entri in ruolo” dice mettendo sul tavolo teiera e biscotti.
“Già, sono dieci anni che me lo dici” abbozzo un sorriso alzando appena l’angolo destro della bocca e allungo subito una mano per consolarmi con un biscotto ma, un istante prima di addentarlo, le chiedo: “E tu, sei contenta sia finito l’anno?”
“Sì, è stato un anno particolarmente faticoso, pieno di cambiamenti. Ora ci aspetta una meritata vacanza” dice sorridendo.
Mentre mi racconta le ultime novità, giocherella con la collana di perle come se stesse inseguendo altri pensieri.
“Tutto bene?”
“Veramente sono molto preoccupata per Max, il bambino moldavo” risponde corrugando la fronte con l’espressione cupa che ben conosco: è la faccia con cui affronta da sempre le mille sfide della scuola che cambia.
Il bambino moldavo è l’ultimo della sua particolare classe di affetti, prima c’è stato Matteo, poi Riccardo, prima ancora Giuseppe. Tutti con una storia pesante, tutti da salvare.
“Scusa se te lo chiedo, ma ci sei riuscita qualche volta?” butto la domanda d’un fiato.
“A fare che?”
“A salvarli dal loro destino, non è per quello che hai l’espressione così corrucciata?”
“Non l’ho mai scoperto, ma l’ho sperato tanto, come spero con Max.”
“Mi hai accennato qualcosa tempo fa poi non ne hai più fatta parola. Pensavo avessi risolto. T’invidio sai? Io non riesco a gestire la mia vita così precaria, figurati preoccuparmi degli altri!” confesso.
Lei torna per un attimo a sorridere ma di nuovo si perde nei suoi pensieri.

Suona il telefono di casa con uno squillo da perforare i timpani, Cecilia appoggia la tazza al piattino e risponde in tutta fretta: non mi va di origliare ma sento il nome di Viviana, la mediatrice culturale che segue alcuni casi a scuola.
Mentre io verso dell’altro the nella preziosa tazza e prendo l’ennesimo biscotto, lei si sposta nell’altra stanza, alternando frasi brevi come “Davvero…Ma cosa mi racconti!…Cose da non credere” a lunghe pause di silenzio e l’andirivieni dei tacchi sul parquet ha sostituito il più silenzioso gioco con il filo di perle: in tanti anni che la conosco, è la prima volta che la vedo così in apprensione per uno dei suoi bambini da salvare. La mediatrice familiare mi ha descritto Max come uno scricciolo di capelli biondi, occhi scuri e arti come le zampe di un piccolo ragnetto. Dice che ci vuole determinazione e sacrificio per avvicinarlo, ottenerne la fiducia, e lei non lo aveva ancora sfiorato. I genitori adottivi non possono avere figli propri e l’hanno accolto come un dono. Hanno cercato in ogni modo di trovare un punto d’incontro ma lui dorme, dorme sempre e da sveglio aggredisce e morde i compagni, poi la sera scappa per le strade deserte. E’ impensabile avvicinarsi al suo cuore, chiuso dentro lo scrigno di vetro di una sofferenza spalmata fra l’orfanatrofio e la nuova famiglia. Mi ha fatto presente che il suo essere diverso, lontano dalle abitudini della sua nuova casa, rischia di farne un pacco a rendere, da riportare al mittente.

La vedo rientrare sempre più pensierosa, vorrei chiederle se va tutto bene, ma c’è qualche cosa nel suo modo di fare che mi frena.
Si rimette a sorseggiare il tè, e guardandomi negli occhi mi chiede quando mi sposo.
“Seee, sposarsi, sarebbe meraviglioso, ma mancano i soldi”.
Le racconto i mille dubbi che ho, ma lei mi interrompe e sorridendo afferma:
“Rischiare va bene, alla tua età. Hai energia e forza” ma forse sta pensando ancora alla telefonata.
“E tu, fiera neo-divorziata, hai ancora il coraggio di rischiare?” domando.
“Almeno potrò dire di aver vissuto e amato. Non mi pento di nulla” dice Cecilia abbozzando un sorriso. La voce al megafono di un ambulante entra prepotente nella cucina. Cecilia si alza per chiudere la portafinestra spingendo con il piede la porta, gioca un po’ con la maniglia dorata difettosa che non ne vuole sapere di isolarci da quel trambusto.
“Mi chiedo che lavoro avranno questi ombrellai e duplicatori di chiavi in estate!”
Mentre lei si risiede, decido di rischiare e domano a bruciapelo:
“Che succede? La telefonata, tutto bene?”
Sospira e dice: “Ora non potrò fare nulla. Era la Preside: l’ha chiamata Viviana dicendo che Max se ne andrà domani. Lo porteranno al Centro e dopo, forse, in Moldavia”.
“Mi dispiace!” il silenzio che segue è interrotto solo dal tintinnio del cucchiaino.
“Cecilia, allora dove andrai in agosto?” spero di spostare il discorso verso spiagge più tranquille.

aquattromani: 21

CONSEGUENZE NON MEDIATICHE DELLA VISITA UFFICIALE DI MUHAMAR GHEDDAFI IN ITALIA

Italia. Portava quel nome come una fusciacca colorata a coprire i fianchi, e a volte come un’eredità non ricusabile e molesta. Chiamarsi Italia ha un senso diverso se si postano addosso segni e suoni di un battesimo lontano. L’Asmara, 1954. Diversa complessità, chiamarsi Italia: diverso era stato vedere calare i fianchi, appesantirli, sotto quella fusciacca colorata.
Italia sente oggi il peso di quel bambino che ha sentito chiamare Mario, o Neghev da un amico, e in queste notti feroci lo ha sentito tremare di freddo. Non sempre lo vede, l’onda di mani e bocche lo sommerge senza dargli calore, e i parenti che deve avere con sé sono mani e bocche indifferenti fra altre bocche e mani. Mario non aveva mai visto il mare, e anche ora lo guarda solo quando deve consegnargli il fiotto di vomito acido, breve. Vomitare è un lusso riservato a chi mangia.

«Prof posso andare alla macchinetta?». Mara non è stata sicuramente attenta, quando il nutrizionista ha parlato di junk food: non vede l’ora di comprare un po’ di schifezze da sgranocchiare sotto il banco.
«Sto spiegando, nel caso non te ne fossi accorta. Esci al cambio dell’ora, o aspetta la ricreazione».
Mara sbuffa, si risiede e finge di ascoltare quella pallosissima pappardella sullo sbarco dei Mille. Italia… patria… unità… le parole arrivano appena all’ultimo banco, dove le più scafate – o le meno sgamate – riescono a nascondere il filo dell’i-pod.

L’uomo di Asmara è stato in piedi vicino a Neghev – «Mario, mi chiamo Mario» – il ragazzo con la mano alla bocca. L’anziano ha spiegato i venti, i loro nomi, e i misteri delle correnti. Come una bolla di ritmo e saggezza nella corrente, nel fracasso del motore a due tempi, nel dolore.

Dalla Sicilia la marcia dei Mille risale per l’Italia… Napoli… diplomazia… gli Inglesi, Cavour… Aspromonte… Obbedisco…
La spiegazione fiotta stancamente fino alla campana salvifica delle undici. Vaffanculo Garibaldi: bagno, panino, messaggino allo zito.

Questa bonaccia incantesima Italia, Mario e tutti gli altri. Cielo e mare sono lo stesso umido impasto che appiccica i corpi ai vestiti, la braccia alle braccia, pensieri a pensieri. Fradici. Appesantiti.
«Un capitolo intero è pesante, ava’, prof…». L’insegnante di storia segna le pagine sul registro di classe. È stanca e quasi afona. Insieme al pacchetto delle mentine tira fuori dalla borsa il giornale che ha appena scorso prima di entrare in classe, oppressa dal pensiero delle interrogazioni, del programma che s’ha da fare, delle strategie didattiche che valgono quanto quelle militari.
Inizia a leggere la cronaca, quella spicciola e quella politica. Si ferma a ogni capoverso. «Che vuol dire globalizzazione? Sai cos’è il liberismo? Colonizzazione… Mara, delocalizzazione. Intercultura».
Parla di banche. Risparmiatori in rovina. Torna alla storia, alla Banca Romana, alla bancarotta del patriottismo, alla delusione per un’Italia che si sperava diversa e che è venuta quella che è ancora adesso, a pensarsela se la Sicilia è Italia o no, figuriamoci gli extracomunitari. Fuori. Ma fuori da cosa?

Le undici, dappertutto in Italia. Le undici sul ventre di Italia, sulla pelle dei dannati, sulle immagini sacre e i rosari di nove religioni diverse, sul fetore. Le undici in classe significano ancora dieci minuti con la profe di storia, poi fumare baciarsi mangiare rimangiare ribaciarsi e fumare.
Le undici a Roma, sotto la tenda bianca.
Il Ministro si allontana, si finge interessato ai doni di Stato (il cofanetto di cedro cela discreto un coupon, una settimana, due persone, resort Stella della Sirte). L’uomo coi capelli corti si avvicina al tavolo e parla brevemente col suo omologo libico. Il colore di pelle non è importante, se si hanno gli stessi Rayban e identici occhi d’acciaio dietro. Si spartiscono il cuore d’Italia. Servizi, cooperazione, coordinate geografiche, duecentoquindici anime che vomitano bile sulla panza d’Italia, immagine, coordinate geografiche. Candeggina sui giornali del mattino. Alle tre, dappertutto in Italia, Mara e la profe si incrociano da Talelli che è di turno. Gli antibiotici della profe restano quelli sbagliati, e il test di gravidanza continuerà a dare due righe, anche al secondo tentativo. Alle tre e dieci le corvette libiche sono già dirette al porto militare. Silenzio radio e ancora sul mare un’eco di raffiche siluri grida. Certi lavori durano poco ma durano troppo. La mano di Neghev – ma lo chiamo Marco – non ha più una bocca a cui velare il conato. Afferra, mozzata, il seno metallico di Italia – Italia promessa, Italia volontà, Italia 2500 dollari dati via sulla battigia – la lamiera rugginosa orgogliosa di bianco che recita «ITALIA».

aquattromani: 20

IL MORTO DEL MERCOLEDI’

“È il morto di ieri?”
“Sì.”
“Testimoni?”
“Nessuno.”
“Indizi?”
“Una ripresa della telecamera interna. Le solite immagini sgranate. Ombre che si muovono. E non si vede il fatto. Solo l’uomo a terra.”
Rimasero in silenzio. Uno dei due girava alcuni fogli tra le mani; l’altro si avvicinò e sbirciò quelle carte da sopra la sua spalla.
“Nessun documento in tasca. Non sappiamo neppure chi è.”
“Non aveva niente con sé. Nessun documento. Ma si capisce che non è italiano: ha la pelle scura ed è circonciso. Marocco, Tunisia. Un magrebino. O qualcosa del genere.”
“Causa del decesso?”
“Emorragia cerebrale. Perforazione di un polmone. Spappolamento del fegato. Una di queste tre.”
L’altro rimase in silenzio.
“Si sono accaniti. Ha tutte e due gli avambracci spezzati: cercava di proteggersi il volto. Gli hanno tirato calci fino a che gli hanno rotto le braccia e poi gli hanno sfondato la faccia.”
“Ma non era alla fermata della metropolitana? Come è possibile ammazzare di botte qualcuno in una metro?”
“Non lo so, Mauri’. È successo così, come succede tutto in questo paese.”
“E nessuno è intervenuto?”
“Nessuno, Mauri’. Le telecamere interne della metropolitana mostrano solo questo tizio che si trascina a quattro zampe. Poi crolla con un sussulto, vomita, si gira su un fianco. E basta. Morto.”
Silvio si alzò e si avvicinò alla finestra; l’aprì, inspirò un boccone d’aria, guardò giù.
“Ecco, guarda laggiù. Li vedi? Sono tutti rumeni, albanesi e marocchini. Stanno lì a fare niente: fumano e bevono birra. Guardano le ragazze e fanno commenti. Non c’è da meravigliarsi se la gente non interviene quando qualcuno gli mena.” Si girò verso il collega e poi riprese a parlare: “Magari era uno di quelli e sono stati proprio loro a farlo fuori. Un regolamento di conti.”
“Il che significa che possiamo chiudere il fascicolo, portarlo dal magistrato e dirgli che non arriveremo mai ad individuare i colpevoli. E neanche la vittima.”
“Neanche la vittima. Ma non è un problema. Se un cane morde un uomo non fa notizia. Figurati quando i cani si azzannano tra di loro.”
Silvio sbadigliò. Fame. O noia. Maurizio si avvicinò al tavolo, sfogliando i fogli che lo ricoprivano.
“Cosa cerchi?”
“Il CD. Voglio vedere le riprese delle telecamere.”
Silvio si spostò dalla finestra, si sedette e armeggiò sui tasti del portatile. Aprì la cartella Omicidi. E poi il file “metro.mpg”.
“Alza un po’ il volume” disse Maurizio, girando attorno al tavolo per mettersi alle sue spalle.
“Non c’è audio.”
“Non si vede quasi niente.”
“Qui è qualche minuto prima. La gente sta aspettando che arrivi la metro. Qualcuno – ecco, la signora con il vestito bianco – indica nella direzione opposta ai binari.”
“Si stanno agitando.”
“Forse vedevano l’aggressione. Ecco, ora c’è lui che si trascina mentre quelli scappano. Eccolo a terra. Adesso arriva la metro. Guarda la gente che esce: vedi come si biforcano quando escono? Sembra che ci sia una merda per terra, che tutti cercano di non pestare.”
“Eccolo, il nostro morto di ieri! Tenta di alzarsi ma non riesce.”
“Credo che qui sia a malapena cosciente. Sta cercando di scappare, ma non ce la fa. Guarda l’orologio: tra tre minuti smetterà di vivere.”
Maurizio ebbe un brivido, anche se quella creatura barcollante era già morta.
“Arriva gente, ma nessuno si avvicina. Questa ragazza si porta le mani davanti alla bocca. Ma guarda adesso: prende il cellulare e fa una foto!” Silvio sembrò divertito dal particolare.
“Cazzo, nessuno muove un dito!”
“Nessuno, Mauri’. Nessuno.”
Poco dopo, assistettero al crollo, al sussulto, al vomito, all’immobilità. Arrivò un altro convoglio; altra gente uscì evitando il corpo. Quindici secondi dopo, c’era solo il profilo di un uomo disteso a terra, immerso nella penombra. Da questa parte del video, rimasero entrambi in silenzio.
La porta si aprì di colpo, ed entrò Gigliozzi.
“Dotto’, di là c’è la moglie del morto di lunedì. La faccio passare?”
“Ma di che parli, Gigliozzi? Quale moglie del morto?” Silvio reagiva sempre in modo brusco alle interruzioni.
“La moglie di… non so dire il nome, dotto’.”
La faccenda si presentava male e Silvio si stava innervosendo. Maurizio intervenne in soccorso di Gigliozzi.
“Silvio, scusa, è quel marocchino, Nabil Benhaya, che è stato aggredito a piazza Navona. Quello che è morto dopo il ricovero. Frattura cranio, nessun testimone.”
“Come hai detto? Nassir? Bendir? Cazzo, hanno tutti dei nomi impossibili… Ha ragione Gigliozzi: chiamiamoli con il giorno in cui vengono ammazzati. Il morto del lunedì, il morto del martedì ecc ecc.”
Silvio sorrise soddisfatto della soluzione; ma il sorriso si spense per un pensiero improvviso: “Eh, ma se ne uccidono due in un giorno?”
Ci pensò su un istante; poi riprese a sorridere e annuì soddisfatto “… li chiameremo con un numero progressivo: morto del lunedì uno, morto del lunedì due…”.
Altra pausa. Sguardo pensieroso. E poi Silvio riprese: “Che giorno è oggi?”
“Giovedì.”
“Ottimo”, si alzò dalla sedia, prese la cartellina in mano e aggiunse: “e ora, portiamo il “morto del mercoledì” al magistrato.”

Precisazioni (e spedizione manoscritto)

Allora, si prosegue. Termine ultimo per l’invio di un racconto è il 2 di agosto.
Data, questa, che mi consente di postare, poi, con tranqullità i racconti entro il 4 agosto.
Appena avrò la composizione certa della giuria pubblicherò i nomi.
Si tratta di persone che godono della mia stima; persone a cui io darei (e a due di loro “ho dato”) un mio manoscritto da leggere.
Ogni componente della giuria darà (senza consultarsi con me o con gli altri)
6 voti a quello che riterrà il miglior racconto
5 al seondo
4 al terzo
3 al quarto
2 al quinto
1 al sesto.
Ma voteranno – se lo vorranno – anche i singoli partecipanti, dando però un solo voto a quello che riterranno il racconto migliore.
Poi verranno sommati i punteggi, poi pubblicherò i nomi degli autori, poi faremo l’ebook finale dove il miglior racconto sarà impaginato per primmo, il secondo per ultimo, il terzo per secondo, il quarto sarà il penultimo, il quinto e il sesto saranno inseriti a metà.
In funzione dell’ebook.
Dovete rimandarmi TUTTI le vostre biografie, altrimento inserisco solo nome e cognome.
Alle biografie vorrei dare una certa uniformità.
Nome (oppure nick del blog). Età facoltativa, luogo di residenza facoltativo. Indicazioni su ciò che attiene la vostra eventuale attività, di blogger o di scrittori, o entrambe.
Tre righe tre, bastano. Anche due. Quattro son troppe.
Torno a ripetere: è solo un gioco. Serio, ma gioco è. C’è chi ha scritto qualcosa di buono, c’è chi ha sudato, perché magari non conosceva il socio, perché magari ha avuto difficoltà di vario genere. Il fatto di sapere che, spesso, ci fossero state delle difficoltà mi fa dire che, a volte, certi giudizi sono stati eccessivi.
Buon sabato

Poi.
Dopo sei anni, stamattina ho spedito un mio manoscritto una casa editrice, piccola ma molto prestigiosa. Dopo “Dicono di Clelia”, avevo spedito, sempre in formato elettronico, “Lo scommettitore”, “La donna che parlava con i morti”, “Bastardo posto”. Anche di quest’ultimo libro, che ho intitolato “Di bestemmie e folli amori” ho fatto un paio di invii per posta elettronica.
Rispedire un manoscritto dopo averlo stampato mi ha fatto pensare che sono di nuovo al punto di partenza. E non mi spiace, anzi.
Spero di arrivare a ottant’anni e scrivere ancora. Aspettando.

PS Variazione. Termine ultimo per l’invio dei racconti è giovedì 30 luglio alle ore 21.
Poi vedremo il da farsi.

aquattromani: 19

SALUTI DA RIMINI

La strada è un filo che porta a Daniela. Un filo matto che scorre da una spola capricciosa all’orizzonte, rapido e poi lento, teso in rettilineo e ritorto in curve, deviazioni, ponti; ricolorato da ritmi di ombra e luce e nuvole e sottopassaggi. Oggi Beppe è una molecola rossa nei flussi sanguigni delle strade d’Italia. Non – smettere – oraaaa e poi ripete la chitarra con la bocca na na naaaaa, ancora una sigaretta. Mischia come un chimico esperto l’odore di nuovo dell’auto al fumo sbuffato. Si guida a dirotto, per andare a Pescara. Strisce d’arancio le lascia la pioggia battuta dal sole – ideale resistenza auto nuova provo ben gommata la frenata. Pescaraaaa… Beppe è consapevole di ogni momento di contatto fra i dadi del battistrada e l’asfalto, e distingue quei suoni leggeri dal ritmo del motore. Un po’ più veloce. Trecento metri con la marcia calata, il motore che canta più forte, passare i due tir. Ha detto vederci stasera per cena, e ancora vedo la costa. Pelle sedili pelle le sedici valvole e la pellicina trasparente dal video del navigatore. Che matto. La Clio rossa. Dài sbrigati vieni presto. Matto è chiedere i soldi ad Andrea, così almeno la cena l’abbiamo. Matto è passare così la macchina lunga d’argento, farsi suonare dietro. Saperlo fare, ecco, solo saperlo fare.

Mi hanno telefonato. Il filo da loro a me in fibra ottica, veloce, definitivo. “Onda Verde” segnala 12 Km di coda dovuta a quella parola. Quella parola che risuona dura nel mio sterno e non tace.
Avevo prenotato a Fermo, c’era anche il mercatino dell’Antiquariato. Sbaglio i tempi: il mercatino c’è, è lui che è passato. È passato. Come passano i tir.
Agosto freddo che spezza l’Italia in due, quella di sopra e di prima e quella ferma qui, per sempre. Io non so se lo odiavo come odio il rosso delle macchine, o come quello del sangue. Gli avevo detto gli avevo detto tutto, no non gli avevo detto niente. «Mi sento diversa, non so se voglio vederti». Il mare è così calmo che sembra d’asfalto. Alla radio c’è una canzone di Rino Gaetano che dice «cogli la mia rosa di niente».

La strada è un filo che adesso si allarga si allaga e rallenta. Frecce doppie. Paletta rossa. Nel mare d’asfalto, esplosa, la macchina rossa. Donna alta col prendisole le ciabatte rattrappita su un cellulare guarda per terra seria. Molecole in moto. Paletta verde, rosso l’accendisigari di notte. Fuma, Beppe, e mormora na na naaa e pensa saltata la cena – ed ecco già via il rosso strappato la Clio scialacquata all’asfalto – mi sa che ora taglio per Fermo.

Daniela non parla con i morti, ma è lì che guarda Beppe. Lì davanti a lei, senza quella maledetta sigaretta. E anche se fosse vivo, che cosa gli avrebbe detto? Che conoscerlo la sera prima a Rimini era stato come un risveglio, che già il mattino dopo era scappata a casa dandosi dell’irresponsabile, che non si deve fare così, senza pensare se non a correre…
Beppe la guarda, ma attraverso i suoi occhi Daniela tace.

Non è male il ristorante macrobiotico, una volta ogni tanto. Daniela fissa Beppe fumare e ogni intenzione svanisce. Fa fresco a Fermo. Attraverso lo specchio alla parete si annoda un’altra storia fatta di ombre, come in un incubo di morte. Nel locale, in sottofondo c’è una melodia orientale, completamente stonata. Ma i due sono già fuori, sulla terrazza, ad aspettare le stelle cadenti.