il vecchio biglietto d’autobus

Ne I quarantanove racconti di  Hemingway ho trovato un pezzo della mia vita che viene da lontano.
Ce l’ho qui, accanto a me, sul divano, è insieme a un pacchetto di Camel Light, un portacenere di un bel vetro, dai colori sgargianti, la solita bottiglietta di acqua minerale gasata.
E’ qui, ora.

Sto riordinando la libreria. Nell’altra stanza, la mia stanza, piccola come una cella ma dà sul giardino e non c’è niente che non sia mio, nell’altra stanza, dicevo, tanti libri son per terra.
Son riuscito a dividere i classici, gli italiani da un lato e gli stranieri dall’altro, poi ho fatto il blocco dedicato al giallo, quello alla poesia, quello alla psicanalisi, quello dedicato al teatro.
Poi mi son detto: Fatti un ripiano degli stranieri che piacciono a te.
Ho fatto in fretta: Oz, Boll, Montalban, Steinbeck, Remarque.
Ci verrà del tempo, comunque. A sistemare (tra i gialli ho visto che l’87° distretto è vicino Danila Comastri Montanari) e a scegliere cosa buttare e cosa no (Impara a suonare la chitarra facilmente, acquistato inutilmente quando avevo quindici anni lo butto o le tengo? E Come si fa una tesi di laurea di Eco?… infondo mi è servito).

Comunque.
Spostando i libri degli “americani” vedo che dai quarantanove racconti di Hemingway cade qualcosa.
Un vecchio biglietto d’autobus.
Io non prendo l’autobus, ho pensato, e questo libro, lo ricordo bene, lo acquistai nuovo nuovo, ché mi piaceva Hemingway quand’ero ragazzo.
Ragazzo?, mi son detto guardando il biglietto d’autobus.
Tac, ecco il flash back, mi sono rivisto.
L’autobus che porta in fabbrica. Impiegava lo stesso tempo che ci avrei messo andando in bicicletta, ma alle cinque del mattino, con la nebbia e il freddo era meglio l’autobus.
Dormire non potevo, c’era un cicalar ininterrotto di donne, così fumavo (allora si fumava dappertutto) e leggevo anche solo dieci minuti, ecco che mi son ricordato…

IL BIGLIETTO E’ PERSONALE E NON CEDIBILE.
VA CONSERVATO FINO ALLA DISCESA A TERRA,
eccetera, fino a
IL VIAGGIATORE SPROVVISTO, CON BIGLIETTO NON REGOLARMENTE OBLITERATO O SCADUTO IN ORARIO, SARA’ SOGGETTO A SANZIONE AMMINISTRATIVA DI L: 10.000 (L.R. 6-4-78 n. 16 art. 7).
Era il 1981.
Avevo 25 anni e prima di alzarmi salutavo mia figlia Sonia, che dormiva e che allora di anni ne aveva uno.
Il biglietto, color pesca, è rimasto per 28 anni nei 49 racconti.
Vado a metterlo nel cassetto dei ricordi, ora; badando a non inciampare sui libri.

scrivere, pubblicare, vendere: e sensazioni mie

Eventounico, in un commento sui manoscritti, ha scritto:
a mio avviso, un aspirante forse dovrebbe puntare più in basso. Perché una casa editrice blasonata dovrebbe scegliere un esordiente ? Perché fa vendere ? Ecco questa potrebbe essere una argomentazione convincente, ma cos’è che fa vendere ?

Allora, io non so rispondere.
Ci son tanti luoghi comuni, ci son tante mezze verità.
E’ comunque vero che lo scrittore che non ha mai pubblicato o che è poco noto è più facile che venga prima letto e poi pubblicato da un piccolo editore, ma ci son casi di esordienti pubblicati anche da Mondadori.
A un piccolo, ma… come dire, blasonato (mi sembra un giusto termine, sì: blasonato) editore (uno che scopre sconosciuti che poi passano alla grande editoria) un giorno domandai: qual è la tua linea editoriale, quali sono i libri che scegli?
La sua risposta fu secca, immediata.
Quelli che piacciono a me.
Dopo un attimo di stupore (pensai: tutto qui?) passai alla seconda domanda.
Chiesi (col sospetto che stavo per domandare qualcosa di poco furbo).
Ma pensi anche alle vendite quando scegli di pubblicare un manoscritto?
Anche qui. Secca, immediata e breve, anzi brevissima risposta.
Certo, devo vivere anche io.
La differenza tra il grande e il piccolo editore, alla fin fine, sta solo nel fatto che il grande lavora, appunto, con logiche da grande, lasciando la passione chiusa da qualche parte.
Il piccolo (visto io, toccato con mano anche io) no: lavora con passione.

Come scelgono i manoscritti gli editori grandi e piccoli?
Saperlo.
Poi. Chi legge i manoscritti?
Ecco, mi spiace non trovare il link, ma tempo fa lessi un’intervista interessante, a un addetto ai lavori.
Diceva. La grande contraddizione della grande editoria è che magari chi legge un manoscritto è giovane ed inesperto e magari poco pagato, così è portato a giudicare bene quello che lui conosce; se però dovesse arrivargli tra le mani un buon libro che lui non capisce, o che non è nelle sue corde, chiaro, lo boccia.
Ecco forse la differenza tra grandi e piccoli.
Mondadori boccia L’elenco telefonico di Atlantide di Avoledo, Sironi pubblica L’elenco telefonico di Atlante, il libro va bene e vende, Einaudi (del gruppo Mondadori) acquisisce i diritti (pagando, quindi) di un libro che il gruppo non aveva notato.
Resto a Sironi, che è uno degli editori che ho seguito con maggiore interesse.
Allora, tra i luoghi comuni più diffusi ci son questi due.
Uno, gli editori preferiscono pubblicare autori giovani, magari belli, magari brillanti.
Due, gli editori preferiscono pubblicare libri di 180, 240, 300 pagine al massimo, ma non quelli di 800, 1000.
Allora, cinque sei anni fa Sironi decide di pubblicare La messa dell’uomo disarmato, di Luisito Bianchi. Che è un prete (scomodo per la chiesa e per tante coscienze) vicino agli ottant’anni, che ha scritto un libro di 800 pagine.
Non solo. Quel libro era già stato editato, pubblicato in proprio, anni prima: gli amici di don Luisito, dopo il rifiuto di alcuni editori, avevano fatto stampare un buon numero di copie (mi sembra 1500, ma forse son di più) e poi l’avevano venduto (ma anche regalato).
Sta di fatto che grazie al coraggio di Paola Borgonovo cinque sei anni fa è uscito uno dei libri più belli della letteratura contemporanea (certo, lo penso io, ma non solo io).
Non ci son regole su Cosa vende o cosa non vende, io (e non solo io) però ho una certezza: che un buon titolo e una buona copertina vendono molto di più di un buon libro con un titolo e una copertina infelici.
Mi fermo, ma prima aggiungo un’altra convinzione (una cosa che ho imparato, parlando con un agenzia letteraria, una delle migliori): allora, gli autori son convinti che pubblicando tanto, magari in rete, magari con minuscoli editori, magari con piccolissimi e piccoli editori, si acquisiscano dei meriti sul campo che favoriscono l’ingresso nella grande editoria.
Non è così.
Marco Salvador non ha pubblicato tantissimi libri.
Quattro, cinque?, tra Piemme e Fernandel?
Marco Salvador però è un autore che ha mercato: ha facilità a trovare tanto un agente quanto un editore.
Semplicemente perché ha venduto, e tanto, soprattutto con il romanzo storico Il longobardo.
Marco Salvador ha, grosso modo, pubblicato gli stessi libri che ho pubblicato io; io però su quattro romanzi pubblicati (il primo non conta, ha avuto diffusione solo locale) posso vantare un ottimo esito di vendite (sopra le 5mila copie) solo con La donna che parlava con i morti.
Peggio di me stanno quegli autori che non hanno mai superato le 3mila copie o le 1000 copie. C’è una sorta di memoria, che magari passa per classifiche, inventari, bilanci che sono nei computer dei librai, che non dimentica: chi vende e chi no.
Se ai librai (razza in estinzione, ma il mercato lo fanno ancora loro) piace un autore, quell’autore venderà, perché ordineranno tante copie del suo nuovo libro, perché esporranno in vetrina il suo nuovo libro.
(Magari qualcuno non lo sa, ma le copie che gli editori stampano di un determinato libro sono decise dopo le prenotazioni che fanno i librai: che sono loro, in pratica, a decidere, quante copie verranno stampate di questo o quello).
Sta di fatto che – supponiamo – io pubblichi con Feltrinelli o Longanesi, magari due libri: bene, se i due libri venderanno poco io non avrò più – brutta parola – “mercato”, insomma, davanti alla grande editoria troverei le porte sbarrate.
Stessa cosa se io pubblico sei sette libri con editori piccolissimi: se vendo 100 copie o 400 quando è festa… sarebbe meglio non avessi mai pubblicato.
A questo proposito ricordo che, soprattutto in editoria, tutto è relativo, anche le copie vendute.
Se io vendo 1000 copie con Fernandel è una buona cosa, se ne vendo 3mila con la Newton è quasi un flop.
I librai preferiscono gli editori grandi (Mondadori e Feltrinelli e Longanesi e Rizzoli e Garzanti), poi quelli medi (come è appunto la Newton, che però a livello di copie distribuite è come una grande) e poi, se c’è richiesta, se hanno voglia, danno spazio anche ai piccoli.
Ma il discoso è lungo, credo.
Vediamo come procede.
E non so mica se ho risposto a Eventounico (penso comunque che gli scrittori siano abbastanza inaffidabili nel dire bene o male di questa o quella casa editrice: dicon bene di chi li ha trattati bene, e viceversa).

scrittori segaioli

Interrompo le trasmissioni serie e quant’altro su manoscritti e cose varie, per una breve pausa, spero divertente (e letteraria, anche).
Allora, c’è una scrittrice francese – genere erotico – che non ho mai letto, Alina Reyes.
In un capitolo dell’ultimo (credo) suo libro, si legge.

Scrivere questo diario mi mette voglia di masturbarmi. La mano che scrive è la stessa che masturba. Quando le donne sapranno masturbarsi quanto gli uomini, scriveranno libri altrettanto grandi.

Bella, a mio avviso, la considerazione che ha fatto, in proposito, lo scrittore nonché critico francese Patrick Besson:

E certo Alina Rejes sa che i più grandi scrittori furono dei gran segaioli: Proust, Gide, Gogol, James…

Di quanto vi propongo non c’è nulla che sia farina del mio sacco: ho ignobilmente copiato dal blog L’intelligenza degli elettricisti.

Le strade percorse dai manoscritti

Tante case editrici non leggono più manoscritti, risparmiano cioè: tempo e soldi.
Allora, che una casa editrice legga tutti i manoscritti è impossibile o quasi. Un editore con cui ho pubblicato io mi disse che ne riceveva dai 30 ai 40 a settimana. Ci vorrebbe un mese almeno per leggerli tutti, e bene, forse di più.
Ma nessuna casa editrice legge tutti i manoscritti.
Nei casi migliori (credo, ma se qualcuno ne sa di più lo dica) i manoscritti vengono sfogliati: dovrebbe bastare, infatti.
Sembra ormai assodato che su venti manoscritti almeno diciotto siano illeggibili o scritti male, e che fra cento solo uno sia poi ritenuto pubblicabile.
Allora, vediamo di procedere con ordine (tenendo presente che quel che scrivo è quanto ne so io):
A) Editori che almeno sfogliano (ed è tanto, credetemi): Fazi, Fernandel, Meridiano Zero, Mondadori, Piemme, Einaudi, Frassinelli, Castelvecchi, Hacca, Elliot, Pequod, Barbera, Avagliano, Todaro, Transeuropa, Passigli, Sellerio.

Ci son tante varianti all’interno di questo elenco. Chi sfoglia presto, chi sfoglia quando capita, chi sfoglia con attenzione. Bene, sono informazioni, queste, che non ho.

Di sicuro gli editori, per risparmiare tempo e soldi (cosa che cerchiamo di fare tutti, del resto) si affidano alle segnalazioni: o di scrittori, o soprattutto degli agenti letterari.
Quindi,
B) Editori (come Marsilio, Adelphi, Minimum Fax) che si affidano alle segnalazioni, soprattutto delle agenzie.
E qui ci sarebbe da fare il discorso sulle agenzie.
La stragrande maggior parte delle agenzie fa lo stesso identico ragionamento che fanno gli editori: leggere un manoscritto porta via tempo e il tempo si paga (dai 25 ai 50 euro a manoscritto). E così, molte agenzie, chiedono un contributo per la lettura.
Allora, io non conosco nessun aspirante scrittore che, dopo essersi rivolto a un’agenzia, sia stato pubblicato. Ci sono casi? Può darsi, sta di fatto che io non ne sono a conoscenza e non ne sono a conoscenza nemmeno i quattro, cinque scrittori in croce che io conosco.
E’ invece vero che tanti autori pubblicati da case editrici medio-piccole (penso a Fernandel e a Sironi) abbiano poi fatto il balzo verso la grande editoria grazie all’intervento di un agente.

Passiamo ora al percorso C.
Ne dico bene perché è il percorso che mi ha portato a pubblicare Dicono di Clelia. Alcune case editrici (Mursia, per esempio) si fanno inviare solo la sinossi, il primo capitolo e il curriculum dello scrittore. Così feci: dopo 15 giorni mi telefonarono e mi chiesero l’invio dell’intero manoscritto. Poi, dopo due tre mesi mi arrivò una mail: Il suo manoscritto è ora in seconda lettura. Poi dopo altri due mesi mi arrivò l’okay e firmai così il mio primo contratto.
quindi.
C) Case editrici (come Mursia) che chiedono sinossi, un capitolo, curriculum. Mi spiace ma non so se ce ne sono altre; ricordo che Frassinelli faceva così ma una vita fa.

Ultimo percorso. Nei siti di alcuni editori (Stampa Alternatva, E/O), forse Marsilio, forse Adelphi) c’è un apposito campo: per chi vuole appunto proporre un proprio manoscritto. Si può scrivere quel che si vuole (Mi chiamo Capuccetto Rosso, a due anni leggevo Shakespeare, ora scrivo racconti ecologici) e loro, così dicono, risponderanno se troveranno la cosa interessante.
Quindi
D) Editori che chiedono informazioni preventive sul manoscritto e che poi, eventualmente, ricontatteranno.

Non mi viene in mente nessun altro percorso, ora.
Di sicuro ci sono due strade, interessanti (anche perché hanno portato alla pubblicazione di autori sconosciuti) ma che conosco (per sentito dire, da amici) e non conosco (dal momento che non ho mai collaborato) e che sono:
I quindici
E Vibrisse.

Chiudo dicendo che sarebbe utile se qualcuno sapesse indicare altri percorsi, o raccontare solo le proprie esperienze, che non prendo in considerazione (nel modo più assoluto) l’editoria banditesca a pagamento, che di Lulu o dell0’iniziativa dell’Espresso so niente o quasi (né, per la verità. mi interessa) e che – questo è importante – quel che vale oggi per un editore non valeva anni fa e magari non varrà tra due mesi. Le strategie e le persone, nell’editoria, propongono tanto stagnazioni quanto repentini cambiamenti.

ricordi di un mezzo terun

Quant’erano buone le mele rubate in qualche orto. Poi magari le mele a casa non le mangiavano, ma quelle lì avevano un gusto particolare.
Sono cresciuto tra bravi ragazzi e ragazzacci. Io sceglievo, di volta in volta, la predilezione, comunque, era per i ragazzacci, per lo più ragazzi del sud i cui genitori erano stati richiamati dall’industrializzazione degli anni sessanta settanta.
Vivevano in case di ringhiera, senza servizi, erano mal visti dai piemontesi, erano i terun che puzzavano e che portavano delinquenza. Solo gli zingari che rubano i bambini erano peggio.
(Ma c’era chi stava peggio di noi: i ragazzi dell’ospizio; piemontesi o terun che fossero vestivano tutti uguali, erano sempre tristi, erano isolati, a meno che non si giocasse al pallone, anzi al pallone erano solitamente bravi, i ragazzi dell’ospizio).
La prima bambina siciliana che conobbi per strada mi disse che era di Pachino. Capii Pechino, così dissi ai miei che avevo conosciuto una cinese, c’era scritto sull’enciclopedia Conoscere che Pechino era in Cina.
Sere dopo, a cena, dissi che i cinesi sono tutti stronzi. Mia madre mi disse che stronzo non lo dovevo dire a nessuno, mio padre non mi diede ascolto, io evitai di raccontare che, poche ore prima, nella mia ora di libertà, mi ero incontrato con la cinesina, lei mi avevo detto cretino e io avevo detto a lei puttana (mio padre spesso lo diceva di una nostra vicina), e poi era successo, dicevo, che la bambina cinese era andata a chiamare suo padre e io, vedendo alcuni minuti dopo, che la bambina cinese si stava dirigendo verso di me con un padre cinese molto molto ingrugnito, me l’ero data a gambe, così, per sicurezza, ché quel Vieni qua vieni qua, che mi urlava, in italiano, il padre cinese della bambina cinese non prometteva niente di buono.
Brutta, razza, comunque, i terroni. Ci son cresciuto e, per i bravi ragazzi piemontesi del mio quartiere, ero un terrone anche io.
Infatti.
Una sera d’estate (libera uscita fino alle ventidue) io e altri tre tarun entrammo di nascosto nella cantina del papà di un bravo ragazzo piemontese.
L’informazione ricevuta da una donna delle pulizie si rivelò fondata: nascoste, dietro le bottiglie vuote e impolverate, c’erano le riviste con le donne nude. Almeno dieci.
Per noi fu una manna dal cielo. Prima le sfogliammo, in silenzio religioso, poi le andammo a nascondere (con il giuro solennemente di non dire a nessuno che l’abbiamo nascoste qui, nella cantina della signora tal dei tali che essendo grassa e pigra ci viene mai, lei, in cantina) e poi, il giorno successivo, le portammo all’edicolante. Volevamo proporgli un baratto: tre donne nude per un Tex da 120 lire, o magari cinque riviste per un Tex da 200 lire (cosa da ricchi) e invece lui ci anticipò: ci diede 500 lire aggiungendo “smammate”.
Smammammo, poi, quatti quatti, ritornanno, e ci nascondemmo dietro un’auto. Dopo pochi minuti vedemmo un signore, elegante, di sicuro non era un terun, o magari era un terun importante, parlottare con l’edicolante dentro il chiostro. Lo vedemmo uscire poco dopo, furtivo: guardò a destra, poi a sinistra, eppure di auto non ce n’erano.
Sotto il braccio, impacchettato con carta di un vecchio giornale, aveva un plico: sapevamo noi, bene, con che cosa.
E poi, credo, andammo all’oratorio: se servivamo alla messa delle diciotto avremmo potuto giocare poi a calciobalilla. Faceva troppo freddo, non era il caso di andar per orti, a cercare mele.

(Son cose autobiografiche queste, raccontate, in modo diverso, ne Lo scommettitore, Fernandel, 2006).

il mio cinema paradiso

C’era il pedofilo, o aspirante pedofilo, grasso, che si metteva in prima fila con noi, o in seconda, e ci dava caramelle, e a noi non pareva vero ottenere caramelle in cambio di carezze sulla testa o, alla peggio, di un pizzicotto (a quelli cicciotti, ché gli altri non gli interessavano). Avrà avuto una trentina d’anni, forse quaranta o cinquanta, quando hai sette, otto anni son tutti grandi e vecchi, di sicuro aveva la mamma che veniva, ogni tanto, a sgridarlo, lo prendeva per mano e lo faceva sedere dietro, oppure lo portava a casa.Philippe Noiret Nuovo Cinema Paradiso
Quel vecchio cinema si chiamava cinema Corso.
Era il posto più bello della città, per me, ci avrei vissuto. Il sabato sera, la domenica mattina, la domenica a pranzo, solo quello avevo in mente: il cinema Corso.
Il primo film che vidi: La notte dei lunghi coltelli.
Fui contento di pagare con le quindici monete da dieci lire del mio borsellino azzurro.
(Ne perdevo sempre, io, di monetine e borsellini, ma da quando scoprii che servivano per il cinema ci feci un’attenzione maniacale).
Il film che vidi tre volte (primo spettacolo, secondo spettacolo, spettacolo serale con i miei): I dieci gladiatori.
Quando odiavo Nerone, allora.

C’erano poi le domeniche sbagliate, cazzo. Ne ricordo una. Niente cow boy niente apache niente Spartaco Maciste niente eroi: ma “Una donna di paglia” con Sean Connery e la Lollobrigida (mi pare). Mi consolavo: con chinotto, noccioline, e l’aria irrespirabile che sapeva di deodorante a buon mercato e fumo di sigarette povere.
Poi c’erano le domeniche tristi come un funerale: Niente cinema oggi, studia, tuonava mia madre. Avevo preso qualche voto brutto o qualche nota, succedava, una volta al mese almeno succedeva, ri-cazzo.
A volte andavo anche durante la settimana, andava bene qualsiasi film; solitamente eravamo una decina, e io mi sentivo in famiglia.
Che fosse una cosa importante, quel cinema, io lo capii una sera, al bar, dietro le spalle di mio padre. Era Natale e come dono avevo ricevuto una pistola che sembrava una colt. Un signore la guardò, mi chiese di dargliela, la soppesò, poi disse: Queste le usano al cinema Corso quando fanno i film…
(ignoranza che va ignoranza che vieni: forse quella di una volta era più simpatica, quello comunque era convinto che John Wayne era il marito della bigliettaia).
Durò un anno.
Poi, una domenica, sul portone d’ingresso, la scritta: Chiuso per restauri.
Babbo cosa sono i restauri?, domandai la sera, preoccupato. Ero andato in un altro cinema, più elegante, ma non era lui, non era il mio cinema Corso.
D’estate, quando uscivo con i miei, chiedevo sempre di passare lì davanti, a controllare, ma mi sentivo preso in giro: da quel cartello, e dalla spiegazione del babbo (devon dargli una sistemata, faranno presto).
E’ passata una vita e io lì davanti ci passo tutte le mattine., quando vado a lavorare. Col ricordo di un grande grande magone.
(Credo che Tornatore abbia la mia età…).

tradimenti

Sulla rivista Gioia ho letto un’intervista (di Monica Ceci) sulla “verità che fa male” ad Aldo Naouri, psicanalista francese.
Parla di tradimenti, anche.
Ecco cosa dice:
Ho conosciuto una signora alla quale il marito aveva confessato “per onestà”, di averla tradita in una storia senza importanza. Al colmo dell’infelicità, la signora aveva saputo dell’esistenza di un certo club, ci era andata e in due ore aveva fatto l’amore con otto uomini. Ed era uscita di là dicendosi che il sesso contava molto meno dell’amore. Naturalmente non l’ha detto a lui: lei sapeva quanto inutilmente doloroso sarebbe stato.

(Cosa penso io preferisco non dirlo. O magari lo dirò, nei commenti).

Ma il problema più grande, io credo, consiste nel tradire noi stessi. Ché a volte, tradendo gli altri, facciamo del male soprattutto a noi. Abbiamo un giudice invisibile, dentro (insegna Pirandello).

Scrivere, il primo esercizio

Scrivere.
Non dico sempre, dico sovente: sovente la scrittura raffinata si distingue da quella che pensa d’esserlo perché sa descrivere, fa vedere, sentire, e al tempo stesso fa procedere la narrazione.
La scrittura che si arrovella attorno all’ombelico dello scrivente e quindi si limita alla descrizione sommaria di uno stato d’animo o di una situazione, – Ero al settimo cielo o forse all’ottavo, Avevo scopato come un coniglio fino all’alba, Avevo pianto e avevo esaurito anche le lacrime di scorta, Mi giravano le palle perché mia sorella mi aveva rubato le pantofole, Ero arrivato già alla ventiquattresima sigaretta, Quel cinema era davvero vecchio, – è una scrittura povera.
(Poi, peggio, c’è la scrittura che scimmiotta: tv e certi libri).
Allora, primo esercizio.
Siamo in una strada e ci viene in mente una storia, una bella storia.
Cominciamo a descrivere la strada, il cielo, le case, che poi la storia s’introduce da sola…
Ecco chi vuole scrivere, ma scrivere in profondità, provi, nella sua testa e poi su carta, a descrivere uncerto ambiente: e magari si accogerà di non conoscere che piante ci sono nel viale che sta percorrendo, oppure come si chiamano quelle strane statue che… sorreggono un balcone vecchio: vecchio, sì, ma di quanto? Trenta o cent’anni?
E la pavimentazione?
Così facendo si scoprirà – se si vuole scrivere – quant’è importante arricchire il nostro vocabolario. Da qualche parte ho letto (quindi so mica se è vero) che Pavese aveva un quadernetto apposito, per i termini che non conosceva (non fosse vero a me piace comunque pensare che lo sia).

PS La foto del blog è una fotografia di uno dei vicoli più noti del mio paese, Cortona. Si chiama Vicolo Iannelli, o “Del Gesù”. E’ nella parte bassa di Cortona.
Nella parte alta c’è invece un vicolo stretto stretto, buio; ci son tornato, era il 17 agosto, una manciata di giorni fa. Si chiama Vicolo del precipizio. Ci ho ambientato l’ultimo mio libro (ora in lettura): Benché l’avessi percorso tante volte da ragazzo, sono andato a vedere se corrispondeva alla descrizione che ne avevo fatto, scrivendo.
Poi, certo, ci sono i vicoli che quando scriviamo esistono solo nella nostra testa e vivono in città senza nome: ma questa è un’altra storia (c’è, in proposito, una splendida pagina scritta da Flannery O’Connor sulla scrittura di Flaubert).
Io penso che per migliorare la nostra scrittura il segreto sia sempre quello di deprimersi: leggere Flaubert, o Scott Fitzgerald, o Joyce, Céline, Oz e dire: sono inarravibili, sono inarrivabili ma io ci voglio provare, almeno ad avvicinarmi solo un po’ alla vetta.
(Mai scritto, ma a amio avviso una delle scritture più banali è quella di Coelho; meglio, cento volte e più, quella della Allende).

(Infine: me l’ha fatto venire in mente Anfiosso, questo post sulla scrittura che non ricrea – a volte non vuole – atmosfere).

bastarde dentro: le donne

Immaginatevi la scena: cascinale patriarcale nella campagna toscana, una sera d’estate. Una ventina di persone, dopo cena, scendono sull’aia, a prendere il fresco, parlare.
Tra i venti ci sono anche tre parenti, che vengono dalla città: padre, madre, bimbo di 7 anni, bimbo che – piccolo particolare ma importante, ai fini del colpo di scena racchiuso da questa storiella – che, dicevo, era reduce da un intervento chirurgico: circoncisione.
Son lì, i tre, per le ferie.
Ecco, la gente ride e scherza, che è presto ancora. E i ragazzi, son tutti cugini e cugine, corrono e si fan dispetti e cani e gatti girano al largo, troppi rompicoglioni, stasera, sull’aia.
D’un tratto il cittadino di sette anni riceve un invito: Che si va in camera nostra a saltare sui letti?, gli propongono tre cugine, grandicelle (dai dodici ai quattordici).
Lui ne è felice, e accetta.
E vanno nella stanza, dove ci son tre letti; che bello, il cugino di città può saltare da un letto all’altro, cosa mai fatta, ché si è sempre accontentato di provare, clandestinamente, ovvio, i molloni del letto matrimoniale di mamma e papà, poi si diverte tanto ma tanto, che le tre cugine (di campagna), anziché saltare, fanno le sceme ai bordi del letto, cantano, ballano, gli dicono “oh che bravo che sei”.
Dopo un po’, mentre il ragazzo cittadino, tutto sudato, sta continuando a saltare, le tre sono esauste e sedute, su un letto.
Senti, che t’han fatto male all’ospedale quando t’han messo a posto il gingillo?, chiedono.
Un po’, risponde lui saltando.
Senti, ma adesso l’è più bello di prima?, domandano ancora.
Boh, risponde lui, sempre saltando.
Senti, ma che ce lo faresti vedere?
Non dice niente, lui, saltando.
Però pensa che lui, in sette anni di vita, non ha mai visto com’è fatta una passera (sì, certo, ha spiato la zia a un’altra cugina dal buco della serratura, ma ha visto poco e soprattutto ha visto in fretta: ché se la mamma si accorge son botte, o grane comunque) e che forse è giunta l’ora di vederla davvero, e da vicino, una passera, proprio stasera, proponendo – quindi – un baratto.
Io ve lo fo’ vedere, voi però, dopo, me la fate vedere.
Sì dice una: Dice sì anche l’altra. Pure la terza lo dice.
Il cugino di città, a questo punto, non ci pensa due volte: e alza il sipario… calando i calzoni, solo che…
Solo che li tiene calati poco, lui, i calzoni: le cugine di campagna, infatti, ridono. E lui capisce che ridono e sa bene che rideranno ancora di più: quando scapperanno fuori dalla stanza mentre lui, rincorrendole, sta dicendo, “M…. fammela vedere, E….. fammela vedere, A… fammela vedere”.
Poi dicono che delle donne bisogna solo dir bene: puà…

cose scritte in passato

Myriam, tu non mi conosci e, quando ti scrivo, sembra anche a me di non conoscermi.
Che tu sia per me il coltello, Davide Grossman

Ecco, io (tralasciando ogni giudizio sul libro) penso che se uno si mette a scrivere e, d’un tratto, ha (come) la sensazione di non conoscersi, ecco, io penso che sia una buona cosa, forse una grande cosa, forse la più grande.

Penso anche che in questo momento dell’ottavo giorno di settembre sto per prendere un’aspirina effervescente con vitamina c, e non è una grande cosa, questa.
Penso pure che mi son svegliato nel modo peggiore, stamani: con la sensazione di essere già in ritardo. E nemmeno questo è una bella cosa, anzi diciamocelo, è brutta assai.

E penso infine a quel che mi disse un giorno qualcuno del mio blog. Tu posti e scrivi la prima cosa che ti viene in mente. Più o meno è così: perché tante volte scrivo e poi cancello.
Ora – proseguo pensando e quel che penso scrivo – se ripenso ai cento e più post distrutti non ho nessun rimpianto. Ma se ripenso ai racconti, ai romanzi iniziati e poi distrutti (una volta avevo un caminetto, così scrivevo e poi bruciavo) ecco, non dico di provare del rimpianto (assolutamente no) ma un po’ di curiosità, almeno quella, sì.
Perché di fronte alle cose scritte in passato io, solitamente (nove volte su dieci) ho sensazioni opposte: o me ne vergogno oppure mi stupisco, ché mi sembrano scritte da qualcuno che è meglio di me medesimo.
Ora mi fermo a ingurgito l’aspirina, che sa già di autunno e starnuti.

La giovane casalinga

Oh, la giovane sposa che alle dieci
del mattino s’aggira
in negligé dietro i muri
di legno della casa maritale…
Io passo, solo al volante.

E lei, discinta e timida,
eccola ancora farsi al marciapiede
per l’uomo del ghiaccio, per l’uomo
del pesce, ravviandosi
le ciocche sfuggenti: la penso
come una foglia caduta.

Sotto le ruote silenziose scrosciano
le foglie morte, e io m’inchino e passo
con un sorriso.

La giovane casalinga, in Poesie, William Carlos Williams, Einaudi 1967.
Nato nel New Jersy nel 1883, William Carlos Williams per cinquant’anni fu medico internista e anche scrittore, quanto mai prolifico; quando morì, nel 1963, aveva scritto 47 volumi di poesie, racconti, saggi, drammi.
Einaudi, proprio nel 1963, pubblicò I racconti del dottor Williams.
I suoi estimatori ricordano una frase, che è una sorta di manifesto poetico in miniatura – ma anche di una potenza rara -.
Diceva, William Carlos Williams:
La vita è soprattutto sovvertitrice della vita stessa, quale era un attimo prima: sempre nuova e priva di regole. E nel verso, perché esso viva, qualcosa deve essere infuso che abbia il colore dell’instabile, qualcosa della natura di una impalpabile rivoluzione.
(Poi a me piace l’idea di uno che scrive e scrive ancora e quando muore ha lasciato tante cose scritte che, forse, qualcuno leggerà).

libri che ricordano

Invece di leggere sto rileggendo.
La peste di Camus, comprato e letto a 18 anni; ci feci anche un tema, parlate dell’ultimo libro che avete letto…, presi otto, mi pare (ma era raro che prendessi un bel voto, ché la mia specialità era andare fuori tema), sta di fatto che son due le cose che non ricordo: il libro, che è come se lo leggesi per la prima volta, e quando e come lo lessi. Nebbia totale.
I libri a cui tengo maggiormente, credo, son legati a un ricordo, preciso.
Vicolo Connery, di John Steinbeck: sulla copertina (e sulle prime pagine) c’è, impressa, l’impronta dentaria di mia figlia Sonia che, avrà avuto due anni, pensò bene, un giorno, di addentarlo e di ciucciarlo.
Sempre Steinbeck in cima ai ricordi.
Di libro che ho riletto almeno tre volte, L’inverno del nostro scontento, ho questo ricordo. Ho sedici anni, sto facendo la prima taglia da scuola della mia vita. Sono in un bar, nella sala dove giocano a carte. Sono solo, leggo. Di là il cameriere sta mettendo e rimettendo la cassetta di Anima mia.
Ogni tanto mi raggiunge, ché quello era un bar frequentato la sera, si siede accanto a me, fumiamo una sigaretta. E’ un amico, siamo cresciuti insieme: vede però che sono assorto nella lettura, dice niente, quindi. Canticchia Anima miaaa, e la cosa mi dà abbastanza fastidio, però non glielo dico, perché, uno, mi sta offrendo un rifugio sicuro, e, due, anche caffè a volontà.