Nei momenti di splendore di questo blog (sempre un post al giorno, 500 o 600 visitatori quotidiani) (prima insomma dell’avvento di facebook) io avevo l’insana abitudine, ogni tanto, di segnalare altri blog, altri post, cose varie dalla rete, insomma.
(Sezione che nel vecchio blog avevo intitolato Andate a vedere, e qui, invece, Segnalazioni).
Insana perché: perché a un certo punto ho cominciato a ricevere mail, con sollecitazioni. Sempre più.
C’era sempre qualche angolo di mondo dove avveniva qualcosa, da segnale.
C’era sempre un libro di un amico da segnalare. Un post che più post non si può. Un’ingiustizia. Una firma da mettere.
Allora, sia chiaro: tante segnalazioni sono contento di averle fatte, son contento che qualcuno mi abbia chiesto di.
Ma a volte è un po’ come quando ti chiedono una moneta per strada: tu dai una moneta a uno, due, tre ma non puoi darla a tutti.
A volte sei di fretta.
Insomma, segnalo, a volte, ma segnalo sempre meno anche perché è diminuita la mia presenza in rete.
Comunque, una segnalazione, oggi mi sento proprio di doverla fare.
Un’antologia di racconti su Roma.
E’ tutto spiegato in questi due link, dal blog di Enrico Gregori.
Sul libro.
Sulle finalità.
(E un saluto, infine, a tutti gli autori che conosco e che hanno partecipato all’antologia).
Mese: ottobre 2009
l’uomo del latte
Entra, saluta tutti, sorride in modo strano.
Sorride come sorride chi ha da fare tante cose, ma con serenità.
Dice: Una bottiglia di latte fresco, grazie.
Gli rispondono: Non ce n’è, non si vende più il latte fresco in bottiglia.
Lui cambia espressione e, sulla fronte, si formano mille rughe di dispiacere.
Ma dura un attimo.
Va bene, dice, di nuovo con quel suo sorriso strano, e poi aggiunge: Ora vado in Comune, devo registrare la morte di mia moglie, ho un po’ di fretta scusate.
Arrivederci, gli dicono.
Sanno che tornerà domani, a cercare il latte fresco.
Da anni lui è così: con quel suo sorriso strano, di chi ha tante cose da fare, ma con serenità.
io per esempio odio il mercoledì
certi anni son bisestili anche se non lo sono, e certi giorni è come se ci fosse il morto anche se non è morto nessuno.
o forse, forse, è solo che manca troppo, ancora, a febbraio, ché febbraio, anche se piove, è un mese in collina: s’intravvedono colori, e anche un po’ di mare.
febbraio, poi, è come il venerdì e il venerdì, da quando han pensionato la donzelletta che vien dalla campagna in sul calar del sole, è un gran giorno, un signor giorno: io per esempio odio il mercoledì.
è il giorno più democristiano della settimana, va d’accordo con tutti e con tutti inciucia, il mercoledì.
ai fedeli, poi, il mercoledì raccomanda una scopata (col permesso del signor ogino knaus) ché in tele non c’è niente.
la domenica, invece, sa di campane e noia, si sa.
e comunque: forse, certi anni bisestili (almeno lo sai) son meglio di quelli che vengono dopo e, firmando autografi, si credono chissà chi.
uno dovrebbe far finta di niente, magari mettersi a dieta, ma è dura in questi tempi di crisi.
si sa mica cosa pensare, di questi tempi.
com’era verde la mia valle, com’era verde l’eskimo perché a vent’anni si è stupidi davvero, come eravamo.
chissenfrega, dopotutto, dico.
e no, no: eravamo.
zampe di elefante, un giornale sotto il braccio e due sogni in offerta speciale, cazzo.
eravamo… quattro amici al bar?
sì, eravamo, magari non come barbara e red, ma eravamo.
boh.
e vaffanculo agli anni travestiti da normali ma bisestili nell’animaccia: portano sfiga a tradimento.
peggio di bruto, giuda e dei mercoledì. ecco
la scrivania con due OT
quello che vedo, ora.
il portatile domina la scrivania, non foss’altro per un plico di carta che gli ho sistemato sotto, così evito di ingobbirmi e urlare poi per il mal di schiena, oltre il portatile un casino indescrivibile: cd senza custodia, custodie senza cd, custodie con cd, sigar, un pacchetto di esportazioni senza filtro che comperai nel 2003 quando scrissi Lo scommettitore (le fumava, lui), una boccetta di vetro con pastiglie di Depakin, che è un farmaco antiepilettico, ne soffriva di una leggera forma mio fratello, ne ho sofferto di una leggera forma io e, quella scatola, che presi tra le sue cose quando mio fratello morì, la porto con me, per metterci i farmaci intendo, quando vado via, e poi e poi: agende varie dove ho preso appunti che non ho riletto da anni e che non m’interessa di rileggere.
Poi: un modem Tiscali nuovo nuovo che non sono riuscito a far partire (la chiavetta Telecom va bene, quindi).
Altre cose che intravvedo: una vecchia macchina fotografica, acquistata nel 1980, forse è ora che ne prenda una digitale, o forse no: non mi piace fotografare, non mi piace essere fotografato.
OT
Però vorrei tanto avere una foto che fu scattata e che rifiutai, dissi, No grazie: 26 giugno del 1991, Torino, discuto la tesi di laurea. Con me ci sono mia sorella Silvia e mia figlia Sonia. Penso di essere elegante: pantaloni grigi ben stirati, camicia a strisce. Il mio docente (Narciso Nada, storia contemporanea) appena mi vede mi dice: Anche oggi doveva venire vestito come un sessantottino?
Ecco, rimpiango di non avere una foto con Nada, mia figlia, mia sorella e quel mio essere elegante ma che sembrava un elegante sessantottino (Io a Nada avrei voluto dire che comunque l’eskimo d’ordinanza ce l’avevo avuto sì, ma blu, perché tutti ce l’avevano verde e a me non andava di vestirmi come tutti).
Comunque: presi 110, bontà della commissione. Fine dell’OT, proseguo con la scrivania e quel che c’è, davanti ai miei occhi.
Poi c’è la parete, piena di foto ricordo, piena per modo di dire: sei quadretti con vecchie foto più una riproduzione di un quadro di Gino Severino (La maternità), più un pierrot, acquistato a Venezia nell’estate del 1990.
Sopra i quadri una mensola.
Parto da sinistra.
Una stecca di gitanes senza filtro e due pacchetti di sigari, sistemati sotto; davanti alla stecca la riproduzione della statua che, dopo il Perseo di Cellini, amo di più: L’ombra della notte.
Procedendo. Una foto mia con mia moglie Francesca, quindi una pila di libri, che sono:
Continente Nero, di Augusto Franzoj; Un ribelle nel continente nero, Augusto Franzoj; Un viaggiatore in braghe di tela, Felice Pozzo; Autobiografia di una rivoluzionaria, Angela Davis; Prose scelte, di Giuseppe Giiusti; Poesia, di Antonia Pozzi…
Basta, mi fermo, mi fermo e mi soffermo su Autobiografia di una rivoluzionaria, di Angela Davis.
OT, numero due.
Estate del 1982, sono a Follonica con la mia prima moglie, mia figlia che è piccola, mia cognata e mio cognato e loro figlio.
Leggo un libro al giorno, quasi con rabbia: perché so che quando ricomincerò a lavorare in fabbrica ne leggerò uno al mese, se andrà bene.
Ho ventisei anni, ormai l’idea di iscrivermi in università è non dico accantonata ma quasi; ogni tanto ci penso, volevo lavorare e studiare, ma poi tra sindacato, una figlia piccola e otto ore di lavoro il tempo dove lo trovo?, penso.
Mentre gli altri vanno in spiaggia io leggo, all’ombra della pineta di Follonica, Angela Davis.
Non voglio parlare, ora, né di lei né del libro.
Ma voglio spiegare perché è lì, tra i libri nella mensola, a portata di mano, o meglio, a portata di ricordo.
Mentre leggo mi domando: allora, se è vera questa storia è vero che Angela Davis riusciva a studiare benché braccata dalla polizia, benché impegnata a fare mille cose.
Torno alla mensola, ci sono altri libri, altri oggetti.
No, mi fermo.
Va bene così, forse.
scrivere a tempo pieno?
Spesso dico che vorrei lasciare la professione di giornalista e mettermi a fare lo scrittore a tempo pieno.
Dico questo perché son reduce dalla lettura di alcune discussioni in rete, appunto, sul ruolo dello scrittore.
Prima di dire cosa mi piacerebbe fare, appunto per essere uno scrittore a tempo pieno, ecco alcune considerazioni, così da chiarire meglio cosa penso.
Io penso che l’editoria sforna ciò che è commerciale, in primo luogo. Da sempre. Oggi più di ieri. E quindi io parto da un sospetto, questo: chi arriva alla pubblicazione è funzionale anche all’anima commerciale dell’editoria e quindi chi non arriva alla pubblicazione perché non funzionale chi mi dice che non sia più bravo di me, Giordano, Saviano, Scarpa e migliaia d’altri che oggi sgomitano attendendo di venire pubblicati, osannati, premiati?
E’ per questo motivo che io vorrei fare lo scrittore a tempo pieno e certe volte mi definisco scrittore ma tante volte mi trovo a disagio nel pensarmi o definirmi scrittore.
E comunque.
Io scrittore lo vorrei fare, dicevo prima, ma a tempo pieno. Vorrei insomma avere del tempo, tempo per:
salire su un treno, andare in un bar di periferia, leggere vecchi giornali, studiare, andare a fare la spesa, andare a un concerto, andare a una gita organizzata che costa venti euro, andare in un tribunale, andare nelle sale d’aspetto, parlare con qualcuno con cui vorrei parlare, che mi racconti, o, per converso, camminare e basta, senza dover parlare con nessuno.
Sono alcuni esempi, potrei continuare.
Però non posso, ora come ora.
Anche se uno dei miei libri ha venduto molto bene (La donna che parlava con i morti) con la scrittura non ci caverei 1200 euro al mese per campare, e così continuo a fare un lavoro che certi giorni mi piace e certi giorni no e che continua a elargimi doni: il giornale (locale) che dirigo vende (nonostante la crisi), il mio giornale è combattivo (alla faccia diquerele e attacchi), i lettori mi sono affezionati – non tutti, chiaro-, i miei giornalisti lavorano con passione.
Ma, ora come ora, non ho nulla, ma nulla nulla, da raccontare.
Certo, posso pensare e sperare di fregiarmi del patentino di scrittore.
Forse La donna che che parlava con i morti avrà un’altra ristampa, magari in economica.
Presto (o tardi) dovrebbe uscire Bastardo posto.
Ho un nuovo libro (o Di bestemmie e folli amori o Vicolo del precipizio, uno dei due titoli va bene) in lettura da alcuni editori, grandi e piccoli (uno piccolo mi ha già risposto che non rientra, eccetera).
Ho la speranza che qualcuno (forse all’estero) mi ristampi Il quaderno delle voci rubate (magari con il titolo Il bar delle voci rubate).
Ma se anche tutto questo dovesse accadere entro i prossimi sei mesi io non mi sentirei più scrittore di oggi o di ieri l’altro.
Magari va a rotoli tutto, chissà.
Comunque.
Ho le batterie scariche, insomma, da ricaricare.
(Poi magari, dovessi ricaricarle, le pile, magari continuo a fare il giornalista, magari il giornalista e non il direttore; anche facendo cronaca si “legge” il mondo; solo che oggi, sempre più, i giornalisti leggono dispacci di agenzia e alzano poco il culo).
Dell’essere definito o meno degli altri scrittore poco mi importa. Quando lavoravo e studiavo in fabbrica ero quello che studiava e in università quello che lavorava in fabbrica. Quando torno al mio paese, Cortona, sono un piemontese, qui in Piemonte sono Toscano, sembra. Così è se vi pare (insomma).
Poi. Ho un grande rimpianto. I ricordi della fabbrica: son troppo sbiaditi. Vorrei, mi piacerebbe, sulla fabbrica. Avessi tempo lo farei: ascoltando però i raccondi dei vecchi operai. La fabbrica negli anni Sessanta, quella con le guardie che controllavano e con il licenziamento facile. E i morti sul lavoro, e il malsano, che erano soldi dati agli operai che lavorano con sostanze cancerogene, e dei reparti dei cornuti: quei reparti – di lavorazione chimica – dove agli operai si “rinsecchivano i coglioni”, mi racconta mio padre, e quindi, pur di lavorare per campare, rinunciavano al sesso.
falsi profili su facebook
(Tratto da Ilsole24ore; penso possa interessare…)
Creare falsi profili sui social network può costare caro. Il reato di sostituzione di persona è punito con la reclusione fino ad un anno ed è procedibile d’ufficio. Ma non finisce qui. Se l’autore va oltre, pubblicando frasi offensive che possono ledere la reputazione di chi è clonato, può configurarsi anche il reato di diffamazione aggravata. Alla responsabilità penale, poi, si aggiunge quella civile. Il danno all’immagine nei confronti di un personaggio dello spettacolo può raggiungere cifre considerevoli da valutarsi in relazione ai singoli episodi. Sfuggire alle conseguenze di una «goliardata» nata per gioco non è così semplice. Chi si iscrive a facebook, anche se non rende pubblici i propri dati, lascia una traccia di sé. Come un indirizzo mail da cui possono partire le indagini della polizia postale. Se l’autore non ha usato strumenti di anonimato, risalire alla sua identità può essere agevole. Se, invece, l’autore utilizza server collocati all’estero, in cui sono assenti validi accordi o prassi di cooperazione, l’identificazione può essere molto difficile. Ma, in genere, a utilizzare falsi profili di personaggi famosi sui social network sono navigatori non così esperti o pericolosi. Lasciano spesso tracce nel web, facilmente individuabili dalla polizia postale. (ilsole24ore)
mi nasconda la notte (Sandro Penna)
Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico antico fiume lento.
Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.
La luna si nasconde e poi riappare
– lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare.
Sandro Penna
scrivere cose stupide
Nella “pancia” di questo blog, dentro insomma, c’è scritto che in poco più di un anno e mezzo di vita sono stati pubblicati 506 post (con 8194 commenti).
Potevano essere 600 e più i post: sempre nella “pancia” di questo blog ci sono più di cento articoli: interrotti; oppure: da rileggere; oppure: non pubblicati.
Succede questo: scrivo e poi mi sento una voce che mi dice: quello che hai scritto è stupido, taci che è meglio.
Certi giorni avrei voglia di scrivere di e di.
Poi dico no, meglio scrivere di lacrime, di problemi seri e veri, mettiti a urlare Remo, mi dico.
Certi (tanti) giorni mi sembra stupido anche urlare.
Il blog, già.
Poi ci sono i miei libri.
Uno che deve uscire non so quando (e che ritengo il mio miglior libro) per la Newton Compton,
Uno che invece è in lettura presso alcuni editori, grandi o piccini.
Poi ho un’altra cosa che bolle in pentola, ma dico niente per scaramanzia.
Cosa mi ha spinto ha scrivere sei romanzi, quattro pubblicati (Quaderno delle voci rubate; Dicono di Clelia; Lo scommettitore; La donna che parlava con i morti), uno che deve uscire (Bastardo posto) e uno in lettura (due possibili titoli: o Di bestemmie e folli amori, oppure Vicolo del precipizio)?
La stessa cosa che mi ha spinto, soprattutto nel precedente blog, a scrivere: avevo storie, soprattutto di altri. Spesso rielaborate, perlopiù rielaborate (più nei libri che nel blog che il blog, a volte, tende a essere diario).
La mia vita, da quattro anni, scorre dietro due scrivanie: quella del giornale e poi di notte quella del mio piccolo studio.
E se guardo il mio passato provo un po’ di rabbia: perché il passato è fatto di nebbia che s’infittisce sempre più, se non si aguzza la vista, e io, spesso, non l’ho aguzzata.
Mi mancano i giorni della fabbrica, mi mancano i giorni passati in un bar senza clienti così potevo leggere e scrivere, mi mancano le notti da portiere di notte, mi manca la vita vera da raccontare e maledico, oh sì quante volte li maledico, il blog, la rete, la posta elettronica.
Stavolta posto, ma in fretta: non vorrei sentire una voce che mi sconsiglia di farlo. E mi dice che è molto cretino quello che.
(E nessuna verifica ortografica: se ci sono errori, ci sono errori).
Ian McEwan
… continuo a credere che tra un romanzo e l’altro sia necessario inserire un pezzo di vita; mi pare che ogni romanzo debba essere scritto da una persona leggermente diversa
Ian McEwan
il tempo è
Anni fa, nel portafoglio, avevo sempre una lametta da barba (di quelle che non si usano quasi più, da inserire nel rasoio). Era ben nascosta, dentro la patente. Mi serviva ogni tanto, per tagliare in due i sigari toscani. Andava tanto bene la lametta, perché mai avrei dovuto spendere 5, 6mila lire per un bel tagliasigari?
Meglio, pensavo allora, spendere gli stessi soldi per andare al cinema, comprare un libro, andare in pizzeria.
Ho tre tagliasigari, oggi. Uno, il più bello, me l’hanno regalato i miei colleghi, gli altri due, dal costo di 3 e 4 euro, invece li ho comperati. Posso permettermi, oggi (dieci anni fa no, ma oggi sì) di spendere 3 o 4 o 20 euro senza pensare che, così facendo, sto rinunciando a un libro, un cinema, una pizza.
Però succede questo succede.
Ho tre tagliasigari, certo, così uno potrei tenerlo sempre nello zainetto che porto appresso, l’altro potrei tenerlo al giornale, l’altro a casa, sopra la scrivania, a disposizione per le mie notti insonni (o meglio, dagli orari strani).
E invece succede che me ne ritrovo o tre in redazione o tre sulla scrivania, perché tanto, mi dico (stupidamente) quando ne uso uno, ne ho tre quindi.
Certo, sono disordinato, sono servite a niente le sgridate che mi dava mia madre perché perdevo sempre ombrelli biro quaderni e quant’altro, e questo incide, certo che sì.
Ogni tanto, anzi no: spesso, qualcuno mi chiede dove io trovi il tempo per scrivere.
Allora, è un po’ come per i tagliasigari, credo.
Quando a ventisei anni mi iscrissi all’università quando ce l’avevo il tempo per studiare? Allora, 8 ore di fabbrica più pullman per andare e pullman per tornare dalla fabbrica, più doccia, in tutto fa dieci ore. Dalle 13 del pomeriggio (facevo il turno fisso, 14-22) alle 23.
Poi c’era, appunto, l’università.
Sveglia alle 6 e 30 del mattino, colazione, poi via in bicicletta o a piedi (d’inverno) alla stazione, poi treno (45 minuti, 50) da Vercelli a Torino, poi autobus (linea 55 o 56, me ricorderò sempre, oppure il tram, il 18) dalla stazione di Porta Susa a Palazzo Nuovo, quindi due ore di lezione (Geografia storica e Storia romana il lunedì, martedì, mercoledì; Psicologia dinamica e Letteratura italiana il giovedì, venerdì, sabato), quindi ancora pullman da Palazzo Nuovo a Porta Susa dove, alle 11 e 50, mi attendeva il treno che mi avrebbe portato verso casa.
Non persi un giorno di lavoro (solo i tre, previsti dal contratto, prima di dare un esame), non persi una lezione.
Allora, quand’è che studiavo. Ogni volta che avevo dieci, venti muniti di tempo, un’ora. Un’ora o due di notte, dieci minuti aspettando il treno, dieci minuti in fabbrica, di nascosto, in bagno, il sabato pomeriggio, e soprattutto: lavorando ripassavo, ripensavo a Giovanni Pascoli, Nerone, Melania Klein.
E non ero stanco, anzi,
E mi sentivo stimolato.
Un tizio, che conoscevo, e che stava per laurearsi i sociologia, un giorno mi disse: Non ce la farai mai.
Diedi il primo esame, e presi 28 (letteratura). Diedi il secondo (e presi 30). Appena lo vidi gli dissi, Ho preso 28 e 30, un gioco da ragazzi (mica vero).
Comunque: dopo un anno di fabbrica e lavoro avevo sostenuto 4 esami: 28. 30, 30 e 29.
Pensai: se avessi più tempo spaccherei il mondo. Do esami a ripetizione e prendo tutti 30.
Chiesi sei mesi di aspettativa, e la fabbrica (anche perché ero un sindacalista rompicoglioni) me li concedette.
Bene, in quei sei mesi combinai un tubo. Diedi un solo esame, presi un voto nemmeno tanto alto (26), un paio di volte mi addormentai sul treno (svegliandomi alla stazione successiva, o Novara a Orino Porta Nuova) e comunque: non riuscivo a capire come mai… fosse più funzionale avere una sola lametta che tre tagliasigari.
Potete ridere, ora, se volete, ma quando si lotta contro il tempo ci si ingegna per fregarlo, il tempo.
Allora, rivedo la scena.
Sono in bagno. Mentre mi asciugo la testa con il phon, e per farlo adopero la mano sinistra, posso infilare i piedi nel bidet, e lavarli con la destra.
Due minuti oggi, tre domani, tutto fa.
E questo magari fa un po’ ridere.
Cosa mangiavo, allora, quando avevo fretta, invece, è qualcosa che mi è rimasto, oggi.
Mozzarelle, cappuccini, focaccia, frutta.
Poi.
Vivevo un po’ fuori dal mondo, niente televisione, film, passeggiate la domenica. A volte portavo mia figlia ai giardini, era una bimba buonissima. Potevo studiare, comondamente seduto in una panchina, ché lei alternava un po’ di altalena con la ricerca di fiorellini sul prato.
Diciamo, insomma, che fu un buon allenamento e che oggi, anche se lavoro 12, 14 ore al giorno, sono comunque allenato a trovarlo, il tempo.
post scritto in tredici minuti (me n’ero dati dieci)
Dimenticavo.
Anche nei giorni peggiori, con novalgina, marlboro e quintalate di caffè, mi concedevo, sempre, almeno mezz’ora di pausa notturna.
Fare un giro, andare a bere una birra, leggere quel che volevo io, ascoltare un po’ di musica: godendomela, quella mezz’ora.
Come i carcerati, che si godono, ma per davvero, la loro ora d’aria. Noi, spesso, non ne siam capaci.
a proposito di ripetizioni
In poche righe (meno di una pagina o, se preferite, un po’ più di mezzapagina di un tascabile Einaudi) ci imbattiamo sette volte nella parola cani, una volta nella parola cane, una volta nella parola canile.
Ripetizioni insomma, che potevano essere evitate.
In questo caso, però, sono ripetizioni d’autore, del grande Sciascia (e il libro di cui vo parlando è A ciascuno il suo).
Allora, m’è successo più di una volta, durante gli editing che faccio io, alla buona quindi, caserecci, per gli amici, di dire: Fregatene, certe ripetizioni rendono comunque la lettura fluida, inutile andare a cercare sinonimi come gentil sesso, così da evitare di scrivere due volte donna nella stessa frase, o, appunto, l’amico dell’uomo, per evitare di scrivere due volte cane nella stessa frase.
Certo che sì: ci sono ripetizioni che stanno male, evitabili, suonano male (e se suonano male lo si capisce rileggendo, ad alta voce).
Lo stesso Borges (e mi spiace aver perso la citazione) diceva che, rileggendo e correggendo, se era necessario sostitutiva il pronome con una ripetizione.
Sciascia, qui, fa la stessa cosa.
Questo ritorno dei cani portò il paese intero, per giorni e giorni (e così sarà ogni volta che si parlerà della qualità dei cani), a sollevare riserve sull’ordine della creazione: poiché non è del tutto giusto che al cane manchi la parola. Senza tener conto, a discarico del creatore, che se anche la parola avessero avuto, i cani in quella circostanza…
Non ci sono regole, anzi le regole, spesso, portano a scrivere dei temini.
In certe scritture, poi, penso a Bernhard, penso a Marias, l’uso delle ripetizioni è un’arte, difficile da emulare.
Ma non ho scritto quello che ho scritto per insegnare qualcosa: l’ho fatto per accogliere obiezioni, pareri.
Che poi dico la verità: la prima volta, quando lessi pagina 17 di A ciascuno il suo, mi dissi, Qui a Sciascia son sfuggite delle ripetizioni.
Lo dissi e lo scrissi: in un bigliettino, riemerso, in questi giorni.
La prima prima volta mi capitò con un libro di Lalla Romano, che avevo conosciuto. Io, allora (vent’anni fa?), pensavo che il mio sogno di scrivere sarebbe rimasto un sogno, e basta. Leggendo un suo libro mi imbattei in una ripetizione, stesso termine usato nella stessa frase (ora non rammento quale).
Pensai: le è scappato.
Tanto con Lalla Romano quanto con pagina 17 di A ciascuno il suo, col tempo, con gli anni, ho cambiato idea.
anarchici?
Ieri ho sentito (dico ieri perché ci ho pensato, a quel che vado dicendo, ma è cosa, questa di cui vado parlando ora, che sento spesso e sempre più) gente definirsi “anarchica”.
Chi non va d’accordo con gli altri, per esempio, si definisce anarchico.
A parte l’impegno sociale, l’anarchico è soprattutto un ribelle.
E questo usare e abusare del termine anarchico mi lascia piuttosto perplesso: soprattutto in un momento come questo, dove la ribellione – mi spiace dirlo – dalle piazze e dai luoghi di lavoro si è comodamente adagiata su internet.
Gli anarchici veri son quelli che, nei posti di lavoro, rischiano di più.
Mi piace poi ricordare il grande rispetto che aveva verso di loro Indro Montanelli.
All’indomani della strage di Piazza Fontana disse che non poteva trattarsi di un attentato anarchico.
Un anarchico si espone, disse, un anarchico, poi, fa un attentato magari contro un re, un simbolo del potere, e poi fa in modo che tutti sappiano e vedano.
E mi piace anche ricordare Kronstadt, 1922.
Un gruppo di comunisti anarchici, o anarco-comunisti, si ribella al potere dei Soviet. Quei marinai, quei rivoltosi, capiscono con anni di anticipo che la rivoluzione russa sta semplicemente sostituendo il capitalismo e il potere degli zar con il potere di un gruppo di burocrati.
(La cristallizzazione della burocrazia al potere, le definirà poi Trotzkj, che capì, sì, ma dopo di loro, nonostante la sua grande cultura).
La capirono e si ribellarono, e morirono anche, perché stava morendo un sogno.
Insomma: avere uno spirito inquieto significa avere uno spirito inquieto.
Con l’anarchia c’entra niente.