Anni fa, nel portafoglio, avevo sempre una lametta da barba (di quelle che non si usano quasi più, da inserire nel rasoio). Era ben nascosta, dentro la patente. Mi serviva ogni tanto, per tagliare in due i sigari toscani. Andava tanto bene la lametta, perché mai avrei dovuto spendere 5, 6mila lire per un bel tagliasigari?
Meglio, pensavo allora, spendere gli stessi soldi per andare al cinema, comprare un libro, andare in pizzeria.
Ho tre tagliasigari, oggi. Uno, il più bello, me l’hanno regalato i miei colleghi, gli altri due, dal costo di 3 e 4 euro, invece li ho comperati. Posso permettermi, oggi (dieci anni fa no, ma oggi sì) di spendere 3 o 4 o 20 euro senza pensare che, così facendo, sto rinunciando a un libro, un cinema, una pizza.
Però succede questo succede.
Ho tre tagliasigari, certo, così uno potrei tenerlo sempre nello zainetto che porto appresso, l’altro potrei tenerlo al giornale, l’altro a casa, sopra la scrivania, a disposizione per le mie notti insonni (o meglio, dagli orari strani).
E invece succede che me ne ritrovo o tre in redazione o tre sulla scrivania, perché tanto, mi dico (stupidamente) quando ne uso uno, ne ho tre quindi.
Certo, sono disordinato, sono servite a niente le sgridate che mi dava mia madre perché perdevo sempre ombrelli biro quaderni e quant’altro, e questo incide, certo che sì.
Ogni tanto, anzi no: spesso, qualcuno mi chiede dove io trovi il tempo per scrivere.
Allora, è un po’ come per i tagliasigari, credo.
Quando a ventisei anni mi iscrissi all’università quando ce l’avevo il tempo per studiare? Allora, 8 ore di fabbrica più pullman per andare e pullman per tornare dalla fabbrica, più doccia, in tutto fa dieci ore. Dalle 13 del pomeriggio (facevo il turno fisso, 14-22) alle 23.
Poi c’era, appunto, l’università.
Sveglia alle 6 e 30 del mattino, colazione, poi via in bicicletta o a piedi (d’inverno) alla stazione, poi treno (45 minuti, 50) da Vercelli a Torino, poi autobus (linea 55 o 56, me ricorderò sempre, oppure il tram, il 18) dalla stazione di Porta Susa a Palazzo Nuovo, quindi due ore di lezione (Geografia storica e Storia romana il lunedì, martedì, mercoledì; Psicologia dinamica e Letteratura italiana il giovedì, venerdì, sabato), quindi ancora pullman da Palazzo Nuovo a Porta Susa dove, alle 11 e 50, mi attendeva il treno che mi avrebbe portato verso casa.
Non persi un giorno di lavoro (solo i tre, previsti dal contratto, prima di dare un esame), non persi una lezione.
Allora, quand’è che studiavo. Ogni volta che avevo dieci, venti muniti di tempo, un’ora. Un’ora o due di notte, dieci minuti aspettando il treno, dieci minuti in fabbrica, di nascosto, in bagno, il sabato pomeriggio, e soprattutto: lavorando ripassavo, ripensavo a Giovanni Pascoli, Nerone, Melania Klein.
E non ero stanco, anzi,
E mi sentivo stimolato.
Un tizio, che conoscevo, e che stava per laurearsi i sociologia, un giorno mi disse: Non ce la farai mai.
Diedi il primo esame, e presi 28 (letteratura). Diedi il secondo (e presi 30). Appena lo vidi gli dissi, Ho preso 28 e 30, un gioco da ragazzi (mica vero).
Comunque: dopo un anno di fabbrica e lavoro avevo sostenuto 4 esami: 28. 30, 30 e 29.
Pensai: se avessi più tempo spaccherei il mondo. Do esami a ripetizione e prendo tutti 30.
Chiesi sei mesi di aspettativa, e la fabbrica (anche perché ero un sindacalista rompicoglioni) me li concedette.
Bene, in quei sei mesi combinai un tubo. Diedi un solo esame, presi un voto nemmeno tanto alto (26), un paio di volte mi addormentai sul treno (svegliandomi alla stazione successiva, o Novara a Orino Porta Nuova) e comunque: non riuscivo a capire come mai… fosse più funzionale avere una sola lametta che tre tagliasigari.
Potete ridere, ora, se volete, ma quando si lotta contro il tempo ci si ingegna per fregarlo, il tempo.
Allora, rivedo la scena.
Sono in bagno. Mentre mi asciugo la testa con il phon, e per farlo adopero la mano sinistra, posso infilare i piedi nel bidet, e lavarli con la destra.
Due minuti oggi, tre domani, tutto fa.
E questo magari fa un po’ ridere.
Cosa mangiavo, allora, quando avevo fretta, invece, è qualcosa che mi è rimasto, oggi.
Mozzarelle, cappuccini, focaccia, frutta.
Poi.
Vivevo un po’ fuori dal mondo, niente televisione, film, passeggiate la domenica. A volte portavo mia figlia ai giardini, era una bimba buonissima. Potevo studiare, comondamente seduto in una panchina, ché lei alternava un po’ di altalena con la ricerca di fiorellini sul prato.
Diciamo, insomma, che fu un buon allenamento e che oggi, anche se lavoro 12, 14 ore al giorno, sono comunque allenato a trovarlo, il tempo.
post scritto in tredici minuti (me n’ero dati dieci)
Dimenticavo.
Anche nei giorni peggiori, con novalgina, marlboro e quintalate di caffè, mi concedevo, sempre, almeno mezz’ora di pausa notturna.
Fare un giro, andare a bere una birra, leggere quel che volevo io, ascoltare un po’ di musica: godendomela, quella mezz’ora.
Come i carcerati, che si godono, ma per davvero, la loro ora d’aria. Noi, spesso, non ne siam capaci.