Questo articolo di Loredana Lipperini va letto, senz’altro.
Come va letto quest’altro articolo di Luca De Biase.
Gli e-book, insomma, sono il nuovo che avanza e, contro il nuovo, c’è niente da fare.
Nel pieno possesso del mie poche facoltà dico però che questo nuovo che avanza mi fa pensare a venti, trent’anni fa: e dico che sarebbe meglio tornarci, da quelle parti, potessimo.
E comunque.
Ogni mattina, quando mi sveglio, ho un alcuni rituali.
Per esempio: mentre preparo il caffè leggo gli sms, difficile che non ne abbia; dalla banca, agli amici, ai colleghi, a quelli che mi mandano un messaggio e non essendo in rubrica e non essendo il messaggio firmato mi costringono a rispondere chiedendo: Chi sei?
Poi con la tazza di caffè vado davanti al pc.
Fortuna che alla mia sinistra c’è un portafinestra che dà sul giardino: vedo anche un po’ di verde. A volte devo uscire, cacciare un merlo, altrimenti il mio gatto gli fa la festa.
L’altro rituale è, insomma, lettura della posta elettronica bevendo il caffè e fumando la prima sigaretta (sperando che nessuno mi chiami sul cellulare).
Grande invenzione la posta elettronica. La vigilia del Natale dell’anno passato l’ho trascorsa, dalle 10 del mattino fino alle 19, a inviare auguri e rispondere.
Figata.
Soprattutto quando mi sono accorto che non avevo fatto gli auguri ad alcune persone che mi stanno particolarmente a cuore, due di loro, per esempio, hanno però un grave torto: usano, per gli auguri, ancora il vecchio bigliettino.
Ma dove cazzo vivono?
Vivono, credo, dove vorrei vivere io.
Giorni fa sono andato a presentare i miei libri (che in libreria non ci son più, ma tant’è: se mi invitano io vado lo stesso) a Bianzè, centro del vercellese con 2100 abitanti.
Mesi fa, invece, sono andato in un paese alle porte di Vercelli, si chiama Villata.
Mesi prima ero andato a Sermide, dalla blogger Colfavoredellenebbie.
Cosa ho visto in questi centri, in questi piccoli paesi: che la gente cerca ancora di vedersi, magari la sera.
A Bianzè, per me, che sono uno scrittore di serie C, c’erano cinquanta persone; a Sermide, settanta; a Villata ce n’erano cinquanta e mentre presentavo La donna che parlava con i morti sentivamo della musica: c’era la banda del paese che faceva le prove in una stanza non lontana.
E appena usciti siamo andati al bar, anzi no, in uno dei due bar del paese: pieni di gente. Gente anche giovane, come quando ero ragazzo io (ed era quasi mezzanotte).
A Vercelli e nelle grandi città la sera è una desolazione: pochi bar, poca gente, un solo cinema, ché il futuro che avanza impone la chiusura delle piccole sale e ti costringe a salire in auto verso la multisala più vicina.
Chi non va alla multisala ricorre a e-mule o a un rivenditore di cassette, se ce l’ha sottocasa.
L’ho già raccontato ma lo riracconto.
In un libro di Asa Larsoon, Tempesta di fuoco, c’è un raccontino che non dimenticherò.
La protagonista del libro è ospite di un amico; in casa ci sono dei bimbi che vivono con la testa nel computer.
L’amico, sconsolato, racconta alla protagonista che questi bambini non vogliono stare all’aria aperta, a loro non interessa, nel modo più assoluto.
Tant’è che un giorno – dice l’uomo alla protagonista – li ho sbattuti fuori di casa e ho detto loro, Giocate o fate quello che volete, ma state qui, sotto il cielo e tra il verde, e il computer ve lo faccio vedere solo se piove.
L’uomo poi era rientrato in casa ma, dopo un po’, si era preoccupato: ché da fuori non veniva il classico vociare dei bimbi che giocano.
Quando sono uscito – racconta l’uomo – li ho visti in cerchio, seduti: stavano pregando affinché piovesse.
Una mia amica mi ha detto che in Inghilterra passa ancora il lattaio, a richiesta.
Alcune ragazze giovani che collaborano con il mio giornale non hanno un blog, non sono su face, e se usano la posta elettronica lo fanno perché costrette: i sistemi editoriali dei giornali oggi vanno avanti con la rete e, appunto, la posta elettronica.
Una di loro, due anni fa, mi ha scritto una lettera, su carta.
Scusa ma preferisco così, perché quando scrivo mi piace sentire il profumo della carta, ho letto.
Quando vado a Cortona o in Puglia vedo che, soprattutto nelle sere d’estate, i ragazzi si ritrovano ancora in piazza, come una volta.
Un piccolo mondo antico che tra qualche anno sparirà, del tutto?
Torno agli e-book.
Quello che scrivono la Lipperini e De Biase è più saggio di quel dico io.
Però la storia degli e-book io l’avevo già sentita, per esempio dall’editor di una casa editrice, anni fa.
Abbiamo investito trecentomila euro e fatto un buco nell’acqua, mi disse.
Bene, pensai. Avete fatto un e-buco.
Me lo disse a Torino, raduno di blogger: c’era la grande novità di Lulu…
Negli Stati Uniti, si sa, i grandi giornali stampano sempre meno copie. Ma resistono i giornali locali.
Da quello che so (dai produttori di carta e dalla tipografie) le cose vanno così anche in Italia.
Eppure sono anni che sento dire che il giornale su carta è destinato a finire.
Nel blog della Lipperini, poi, è intervenuto un libraio. Che dice: Il vero problema è che in Italia non si legge, tant’è che io chiuderò. Dovrei cercare (sono dati che ho in redazione) un sondaggio (mi pare della Fieg) dell’anno scorso. Dice che aumenta ogni anno il numero di libri comperati nei supermercati e negli autogrill (dice anche che sta aumentando la vendita on line, dice anche che il 55 per cento dei compratori di libri è donna sopra i 45 anni di età che, appunto, acquistano libri nei supermercati).
Dico la verità: leggo sul problema carta sì, carta no, ma con distrazione.
Non dovrei: come direttore di una testata locale e come scrittore non dovrei; dovrei pensare al futuro, cercare di interpretarlo.
Per la verità il futuro mi preoccupa: che aria respireremo tra vent’anni?
Tra vent’anni, forse, sarà impensabile vedere una persone che legge un libro sulla panchina di un parco.
Sarà per la carta o per i veleni?
(Dimenticavo: a Bianzè, un gruppo di giovani donne, oltre a invitar scrittori ha deciso che una sera a settimana, almeno, la biblioteca debba restare aperta.
Finché c’è vita c’è speranza, insomma).