2010

Auguro a tutti un sogno,almeno uno.(lo auguro a quelli con la maiuscola, neli link di questo blog,  persone che ho conosciuto; lo auguro, un sogno, a tutti quelli con la minuscola, che ho conosciuto o qui o su mail o via cavo telefonico; lo auguro a chi passa di qui, e non lascia segni.

lo auguro, insomma.

e lo auguro anche a me stesso, ché ci son stati giorni senza sogni e senza speranza, e non va bene, no).

Il libro più bello, letto nel 2009

segue, dal post precedente

Anna Maria Curci
segnala:
La porta di Magda Szabó.
Morena Fanti segnala:
Revolutionary road, di Richard Yates
Annarita segnala:
Easter parade
, Richard Yates, Minimum Fax, euro 11,50
Kafka sulla spiaggia, Haruki Murakami, Einuadi, euro 20
Sotto i venti di Nettuno, Fred Vargas, Einuadi, euro 12,50
Vera, Elizabeth von Arnim, Bollati Boringhieri, euro 17
Il colore della magia, Terry Pratchett, TEA, euro 7,50
Sempre Annarita, letture per ragazzi:
Il cimitero senza lapidi e altre storie, Neil Gaiman, Mondadori, euro 9
Un ponte per terabithia, Katherine Paterson, Mondadori, euro 8,80
Il prodigioso Maurice e i suoi geniali roditori, Terry Pratchett, Mondadori, euro 14,80
Silvia (Sgnapis) segnala:
Montedidio, di Erri De Luca
E.l.e.n.a (Caterpillar) segnala:
Molto forte, incredibilmente vicino, di Jonathan Safran Foer, tascabile Guanda 10 euro.
Emanuela Bonaga segnala:
Eureka street,  di Wilson R. McLiam, Fazi, Le strade, euro 15,99 (ma c’è anche in tascabile a 8,50)
Renato segnala:
L’uomo che cade, di Don DeLillo, Einaudi 17,50
Undici solitudini, Richards Yates, Minimum fax, 10 euro.
Lidia Assirelli segnala:
L’eleganza del riccio, di Barbery Muriel, E/O.
Sabrina Manfredi segnala:
Mentre dorme il pescecane, di Milena Agus, Ed.Nottetempo.
Guido Michelone segnala:
Vertigine della lista di Eco Umberto, Bompiani, pagine 408, euro 39.
Bruna Durante segnala:
Stirpe, di Marcello Fois.
Rodolfo Marotta segnala:
Pastorale americana, di Philip Roth, Super ET Einaudi, euro 13,50.
Carloesse segnala:
Gli Scomparsi, di Daniel Mendelsohn, NeriPozza, 20 euro.
Rossana Massa segnala:
I giorni felici,
Teresa Ciabatti, Mondadori.
Aitan segnala:
Il lato freddo del cuscino, Belén Gopegu, Neri Pozza, euro 15,00.
Renato Bergonzi segnala:
L’uomo che cade, Don DeLillo, Einaudi, euro 17,50
Undici solitudini, Richards Yates, Minimum fax, euro 10.
Angelo Ricci segnala:
Al bistrot dopo mezzanotte, Joseph Roth, Adelphi, euro 19.
Parigi-New York andata e ritorno, Henry Miller, Minimum fax, euro 12.
Luigi Salerno segnala:
Domani nella battaglia pensa a me, di Javier Marías, Einaudi.
Isabella Novelli segnala:
Il paese di Saimir, Valerio Varesi, Ed VerdeNero, 13 euro.
Laura Costantini segnala:
Senza luce di Luigi Bernardi, Perdisa
Il posto di ognuno di Maurizio de Giovanni
Trilogia di New York, di Paul Auster
Maria Giovanna Luini segnala:
Contronatura, di Massimiliano Parente.
2666, di Roberto Bolano.
Paola Marciani segnala:
La porta, Magda Szabo, Einaudi 10,50 €
Ebano, Ryszard Kapuscinski, Feltrinelli 8 €
Enrico Gregori segnala:
Suttree, di Cormac McCarthy
Sunset Limited, di Cormac McCarthy
Mister Vertigo, di Paul Auster
Trilogia della città di K, di Agota Kristof
Il racconto dell’ancella, di Margaret Atwood

il miglior libro del 2009

L’ultima eco della prova generale si spense, e gli attori della Compagnia dell’Alloro si ritrovarono senza altro da fare che starsene lì, silenziosi e smarriti, a guardare oltre le luci della ribalta verso una platea deserta, battendo le palpebre; osavano appena respirare…
Revolutionary Road, di Richard Yates (Minimum Fax, 457 pagine 18 euro) è il libro migliore che ho letto nel 2009.

Io a un libro, come scrittore chiedo che mi insegni qualcosa, come lettore, invece, chiedo che mi soprenda.
Revolutionary road mi ha insegnato e sorpreso.
Ne ho dieci, almeno, ora da leggere, tra libri comprati e libri che ho ricevuto in regalo. Un po’ mi spiace quando son così sovraccarico: perché il piacere di andare in libreria a cercare un bel libro, che magari mi intrippa solo sfogliandolo, è un piacere a cui non voglio rinunciare.
Che poi a gennaio si dovrebbe andare in libreria, o almeno.
Due anni fa ero al Libraccio, Milano, ai Navigli. Erano i primi giorni di dicembre, una domenica,  curiosavo tra i libri usati.
Trovavo niente.
La mia faccia, evidentemente, diceva che non stavo trovando niente.
Trova niente, vero?, mi fa uno, di fianco a me.
Torni a gennaio, dice.
Perché?, chiedo io.
Perché a gennaio ci son quelli che vengono a vendere i libri ricevuti a Natale, si compra bene a gennaio, dia retta a me. Ultime novità, scontate, e in buono stato.
Ah.
Non so mica se è vero.

Comunque. Io non so voi ma io del 2009 ne ho piene le scatole. E poi dicono dei bisestili.

PS. Chi vuole mi indichi (qui, via mail, via face) il libro più bello che ha letto nel 2009. Che poi riporto, qui, titolo e nome dell’autore. Se ci son anche casa editrice e prezzo, però è meglio.
(Mi spiace quasi aver segnalato un libro di una casa editrice che non accetta manoscritti in lettura, però).

la tenda

Dentro si mangia, fuori si fuma una sigaretta, ma in fretta, ché fa freddo, ci son chiazze ancora di neve. Spesso, le automobili che passano, rallentano, poi si sente il clacson: è un saluto, è come dire “Capiamo, siamo con voi”, e quel suono di clacson è comunque qualcosa che fa bene al cuore.

Sera, e cena, di Santo Stefano in tenda: con i dipendenti di Phonemedia, un call center, a Trino vercellese, gente senza stipendio da mesi, senza cassa integrazione. Presidiano la tenda, notte e giorno.  Preparano da mangiare, con una cassa autogestita pagano la benzina ai dipendenti che vanno a fare i turni per il presidio.
Se non parlano di bollette che non sanno come pagare, di lavoro e di prospettive – non ne hanno son senza futuro – queste persone, trentenni, quarantenni ma tante cinquantenni, per lo più donne riescono a sorridere, anche a ballare, prendersi in giro.
Il comune di Trino li sta aiutando, tanti privati pure.
Giorni fa.
Sono in tenda, all’improvviso arriva un’auto, si ferma, un uomo scenda senza nemmeno spengere il motore ; e porta verso la tenda due sacchetti con pasta, vino, scatolame. E saluta, inseguito da un grazie.
Giorni fa.
I dipendenti vanno al mercato, chiedendo offerte di solidarietà. La gente si ferma, chiede, chi lascia un euro, chi cinque, chi dice.
La signora impellicciata, però, urla, così da prevenire il contatto: Non vi do niente, dice, e scappa via.
Giorni fa.
Un infermiere, che ha voluto restare anonimo, ha versato 650 euro su un conto di solidarietà. Tra due anni vado in pensione, servono più a loro che a me questi soldi, ha detto.

E’ una battaglia della disperazione ma è anche una bella battaglia sindacale (che vede purtroppo una spaccatura sindacale: Cigl e Uil da una parte, la Cisl, più morbida, dall’altra).
Si dice sempre un gran male dei sindacalisti, da tempo.
Eppure questo gruppo numeroso di persone, di dipendenti della tenda, hanno due punti di riferimento, Roberto, classe 1961, comunista doc e quindi Cgil, e Rita, della Uil, funzionaria che, praticamente, vive con i dipendenti.
278 persone, ripeto, senza futuro e col problema, urgente, di come fare a mangiare, fare la spesa, scaldarsi.
Eppure a volte sorridono.
Di più, scherzano.
Poche ore fa.
Si gioca a carte, quanto si gioca, 50 centesimi?
E chi li ha 50 centesimi da gettar via? dice qualcuno.
Ieri a Natale, racconta una signora, ci hanno regalato 500 euro fotocopiati, fotocopie di banconote da 5 e da 10, così ce li siamo giocati a carte, quanto ci siamo divertiti. Speriamo che arrivino per davvero 500 euro, conclude.
E arriva la risata.
Qualcuno poi va davanti alla tenda, e balla. Fanculo al freddo e fanculo a tutto, sembrano dire, appunto, ballando.
I clacson delle auto che passano solidarizzano anche con la piccola festa improvvisata, senza orchestra né disc jokey, ma con la musica che arriva dalla radio di un’auto di una dipendente.
Ci vuol coraggio a ballare e a ridere e a sorridere così: anche perché son soli. I politici che contano al massimo fanno una visitina e dicono due frasi di circostanza.
(Qualche politico, una donna in particolare, ma di piccolo calibro invece ha fatto molto, una bella cifra per la cassa della tenda, loro, i lavoratori, quelli più giovani vorrebbe che si sapesse, ma lei non ha voluto.
Pure lei, come l’infermiere, ha detto: Posso permettermi questa cifra).
Io, che son poca cosa, un osservatore esterno e poco più, vedo che han fatto risorgere la solidarietà che forse forse del tutto sepolta non è.
Questa tenda, dice Roberto, quando ha nevicato mi hanno consigliato di smontarla, ma io ho insistito, noi non molliamo.
Rita Francios e RobertoCroce (avete fondato un nuovo sindacato dice una donna, avete fondato la Cg-uil, suona bene no?) e trenta nomi che non ricordo, sotto una tenda, a Santa Stefano, nell’anno del signore 2009. E altri che non c’erano ma ci saranno domani e finché dura, nell’anno che verrà.

(Nella foto si vede di profilo Rita Francios, sindacalista Uil, poi alcune dipendenti di Phonemedia; in fondo, il delegato della Cigl, Roberto Croce).

la gatta Lilli, e i pantaloni taglia 54: la mia vigilia di Natale, cioè

Vigilia di Natale, il primo giorno con attimi di quiete, insomma.
Perché sebbene io mi conceda della pause, quando posso scappo, specie dove non mi conosce nessuno (Genova è la tappa preferita), vivo, sostanzialmente, con la sensazione del ritardo: ho, tanto in casa quanto in redazione, cose vecchie, ammucchiate, da fare. Mail comprese.
Magari succede ad altri, non so.
Ma da qualche anno io mi sento libero del mio tempo solo di notte; di notte, che io scriva, legga o cazzeggi o faccia il solito solitario con le carte, vivo senza pensare all’orologio o al tempo. E penso di riuscirci. Di giorno no, o corro, oppure accumulo.
Ecco, quest’anno la viglia di natale mi son preso una pausa, di due ore,al mattino.
Ho camminato per due ore senza meta, senza pensare a nulla, avrei potuto, se volevo, farle diventare tre o quattro quelle ore: tanto le cose accumulate da fare non scappano.
E mi son ritrovato a fumare il toscano camminando mentre nevicava e, come fumatore, dico che è una cosa fantastica fumare il toscano insieme all’aria gelida: si combinano bene.

Del tutto casualmente, la vigilia di natale camminando, mi son ritrovato dietro a una vecchia casa, dove ho vissuto.
C’ero passato altre volte, ma stavolta c’era qualcosa di diverso. Una grande albero, che impediva la vista del balcone dove a volte nelle notti d’estate mi addormentavo, stavolta, quel grande albero non c’è più.
E’ rimasto un tronco, lo scheletro di quel che era.
Rivedo quel balcone, ora, e bene.
Era un via vai di gatti, il tronco di quell’albero; non della mia gatta, Lilli, che li guardava da quel balcone, al terzo piano.
Una volta cadde, andai a recuperarla; benché avesse battuto il naso se la cavò.
La seconda volta che cadde la trovai, insanguinata, proprio sotto quell’albero.
La raccolsi, non dava segni di vita.
Ebbi un moto di rabbia, credendola morta.
Bestemmiai e poi, appunto con rabbia, la scaraventai per terra, con tutta la forza e la rabbia che avevo in corpo.
Era morta, da seppellire, colpa di quegli stupidi gatti randagi che lei probabilmente aveva voluto raggiungere.
Improvvisamente, era buio, sentiti un miagolio flebile flebile.
Era lei Lilli, era um miagolio di rimprovero.
Non sono morta, mi diceva.
Avrà avuto dieci anni, nonostante le cadute – e me – ha vissuto fino a ventun’anni, Lilli.

Pomeriggio della vigilia di Natale, mi prendo altre due ore.
E faccio quello che non dovrei fare: vado in un grande magazzino di vestiario.
Sono anni che quando vado in un grande magazzino di vestiario mentalmente bestemmio: la taglia 52 ormai è un ricordo, ora che mi sta stretta pure la 54 (ma non cedo, guai a passare alla 56) mi girano profondamente i corbelli.
Allora, son lì, in questo magazzino… criminale.
La cose belle, che mi piacciono, costano un occhio della testa, via, bocciate; quelle che costano o poco o così così mi piacciono poco.
Comunque. I giacconi belli della Marlboro da 350 euro non li provo nemmeno, 350 euro sono una bestemmia.
Trovo però dei pantaloni di velluto,  taglia 54, un bel grigio, un bel verde. E mi metto in coda per provarli. I camerini son tutti occupati, c’è la coda.
Aspetto.
Dal camerino che ho individuato esce un ragazzo, ha provato un maglione, gli sta bene, dev’essere un taglia 48, massimo 50 beato lui, e in effetti gli sta bene, anche la sua ragazza, che è fuori, vicino a me, fa ampi cenni d’assenso, essì che ti sta bene, e son contenti tutti e due cavolo, e quindi muovetevi penso, chemminchia avete da guardarvi.
Ma con che pantaloni lo posso mettere?, dice lui, So mica se sta bene con quelli grigi.
Lei, improvvisamente, si rabbuia in volto, Non ci avevo pensato, dice.
Un dramma, insomma.
Si mettono a confabulare, piano, e io son sempre lì con i due pantaloni taglia 54 di velluto da 50 euro l’uno e da 65 l’altro, e non so mica dire se mi entreranno, cavolo, e intanto passa anche il tempo e vedo che avrei fatto meglio a far la coda davanti a un altro camerino, poi Francesca mi dice, Perché non aspetti i saldi?, e io penso che ha torto, perché quando ci saranno i saldi io non avrò mica tempo, a gennaio mica c’è una vigilia di natale tutta per me, però penso anche che ha ragione, ché devo tornare, no, che devo andare in un altro posto, perché la ragazza dice – giuro, dice proprio così – dice, a lui che sta provando un maglione nero con maniche e colletto grigio, dice, anzi no, domanda, preoccupata: I calzini grigi sei proprio sicuro di averli?
E le mutande, penso?, mentre poso i due pantaloni, taglia 54, uno grigio e uno verde da 50 e 65 euro, i più economici, insomma.
Che poi: metti che io non abbia i calzini che facciano pendant

Camilleri e gli editori lenti

Gli ultimi libri io non li ho letti, ma di Camilleri ho letto tanto, specie i libri che non hanno come protagonista Montalbano (sarà che una volta ho visto Zingaretti, e non mi è piaciuto:  troppo poliziotto).
La mossa del cavallo, per esempio, ma anche La presa di Macallè, che è un gran bel noir, o Il birraio di Preston, o Il re di Girgenti o La scomparsa di Patò sono, a mio avviso, degli ottimi libri. La faccio breve: Camilleri è lo scrittore italiano che mi piace di più (poi vengono Luisito Bianchi e Luigi Bernardi).
E mi fa piacere che i suoi gusti letterari coincidano con i miei: Pirandello e Sciascia, gli autori a cui ispirarsi, da cui c’è ancora, e tanto, da imparare. (E Montalban).
Comunque. Tutti sanno che Camilleri è diventato un famoso scrittore in età avanzata, e che il suo primo libro, “Il corso della cose”, fu pubblicato da un editore a pagamento, Lalli, che però nulla chiese a Camilleri.
Non sapevo, l’ho letto pochi minuti fa, che quel libro, anni prima, stava per essere pubblicato da Mondadori e, in epoca successiva, da Editori Riuniti.
E’ la cosa più brutta che possa capitare a un autore, questa. Festeggi, ché magari già ti vedi con la copertina di una certa collana, e poi invece tutto sfuma.
Depressione assicurata. Peggio di una bocciatura.
L’intervista che ho letto è dello scrittore, pure lui siciliano, Roberto Mistretta.
Ecco l’intervista.

Il mio libraio mi racconta che quando Camilleri pubblicò con Lalli “Il corso delle cose” un suo cliente, un insegnante mi pare, per mesi e mesi fermava la gente in libreria e diceva di aver letto un libro strepitoso.
Della serie: certe volte i lettori hanno occhi più lunghi di quelli degli editori.

Giorni fa  una signora (settant’anni?) mi chiede un incontro.
Mi dice: Ho scritto un libro, le va di leggerlo?.
Le dico: Mi spiace signora, ma non ho tempo, a meno che lei non voglia aspettare qualche mese.
Mi dice: E secondo lei io potrei già spedire a una casa editrice?
Le dico: ma certo.
Mi dice: E poi, cosa capita?
Le dico. Che se va bene le rispondono nell’arco di un anno.
Mi dice: E poi?
Le dico: E poi se va ancora bene, magari le pubblicano il suo libro dopo tre, quattro, cinque anni.
Si è messa a ridere la signora. Mi ha stretto la mano e mi ha detto: Ma faccio prima io a morire, e se ne è andata, contenta di questa sua – niente male – battuta.


anche questo è natale

Circa un mese fa. Salgo sul treno, mi attendono due ore di viaggio, due, tre ore (ma non era escluso che mi fermassi la notte) in un’altra città, altre due ore di treno per la strada del ritorno. Vado e, nello zaino, oltre a spazzolino, pigiama, libro, moleskine, monete portafortuna, biro, accendino di scorta e sigari, ha anche il notebook; in tasca, invece, l’iPhone.
Mi sono stati regalati, entrambi.
Li uso poco e male (l’iPhone soprattutto).
Mentre viaggio vedo che sono in buona compagnia: son tanti gli Iphone, tantissimi i notebook e i pc portatili. Ma tanti tanti.
Penso a dieci anni fa: chi l’avrebbe mai detto?

Un call center vicino a dove vivo io. Dipendenti a casa, senza stipendio da mesi. Molti di questi dipendenti son donne, monoreddito, con fili a carico.
Alcune di loro, alcuni di questi dipendenti, non sanno dove sbattere la testa: ché in tasca non hanno nemmeno i soldi per far la spesa, e non sono previsti ammortizzatori sociali (come la cassa integrazione).
Anche questo, anni fa, non so dire quanti: chi l’avrebbe immaginato?

Anche questo è Natale 2009.

Io e il sessantotto

Il mio 68.
A grandi linee, però

Nel 1969 avevo 12 anni.
Di nascosto, partecipai a una manifestazione, ero in prima fila. Poi pensai che se mio padre e, soprattutto, mia madre l’avessero saputo sarebbero stati cavoli; così presi un lembo di una bandiera rossa e me la misi davanti, sperando di non essere riconosciuto dalla caviglie.

Passano gli anni, leggo Marx, bene anche.
So che Marx non prevede(va) il socialismo in un paese unico.
Lo Stato socialista è stata una necessità, prima, un abominio poi.
Ho letto Marx, Lenin, Bordiga, Gramsci, Trotzkj.
Ho letto di Kronstadt (altroché il muro di Berlino).
E’ il 1922.
Un gruppo di comunisti anarchici, o anarco-comunisti, si ribella al potere dei Soviet. Quei marinai, quei rivoltosi, capiscono con anni di anticipo che la rivoluzione russa sta semplicemente sostituendo  il capitalismo e il potere degli zar con il potere di un gruppo di burocrati.
La cristallizzazione della burocrazia al potere, le definirà poi Trotzkj.
La capirono e si ribellarono, e morirono anche, perché stava morendo un sogno.
Come morirono tanti intellettuali, vittime dello stalinismo.

Torno a me, al mio non-sessantotto.
Nel 1973-74 faccio le superiori. Leggo e… lego poco.
La divisa d’ordinanza del 68 non mi piaceva.
Invece dell’eskimo avevo o un giaccone nero di pelle o un impermiabile bianco.
Frequento un po’ di gruppi della sinistra extraparlamentare, ma senza entusiamo. Vedo che tanti hanno il Manifesto o Lotta Continua ma sanno un tubo di Marx o di Hegel.
O del socialismo utopico di Owen.
Poi, non dimentico mai d’essere il figlio di un operaio.
E quando in quegli anni la Montefibre lascia a casa migliaia di lavoratori ci sono anche io alle manifestazioni, agli incontri.
Ora semplifico, e tanto.
In questi incontri, in queste assemblee io vedo, grosso modo, che si fronteggiano due anime.
Quella del vecchio Pci.
Quella della sinistra extraparlamentare.
Quella del vecchio Pci è piana di contraddizioni. Parla Togliatti, Togliatti è vangelo, parla Berlinguer, Berlinguer è vangelo.
Dallo stalinismo il vecchio Pci (adoravo Terracini, però) passa al compromesso storico.
L’altra anima, quella della sinistra extraparlamentare, è l’anima degli intellettuali, degli studenti. Bene, mi accorgo subito che hanno un difetto, schifoso, che adesso è un patrimonio della sinistra italiana: quando parlano hanno la puzza sotto il naso. Hanno sempre ragione loro e gli altri “capiscono un cazzo”.

Io nel 1975 (avete in mente la canzone di Venditti? compagno di scuola, compagno di niente… o sei entrato in banca pure tu) ho tre possibilità:
fare l’università (e in effetti mi iscrivo a filosofia, alla Statale).
andare a lavorare in banca, per davvero.
andare in fabbrica.
Scelsi la fabbrica.
Scelsi la fabbrica proprio nel momento d’oro del vecchio Pci.
Governava in cinque regioni, mi pare, era pronto al compromesso storico, era nuclearista, era contro la riduzione dell’orario di lavoro.
Per un po’ di tempo frequentai i trotzkisti di Torino (conobbi un gran bravo scrittore giornalista, che non c’è più, Edgardo Pellegrini), ma soprattutto feci del sindacalismo, nella Cisl di Pierre Carniti.
La Cisl e la politica dei cento fiori.
Però riprendo anche a studiare.
La classe operaia, avevano ragione i vecchi leader del vecchio Pci come Amendola, era attratta sempre più dal consumismo, addio vecchi valori, addio battaglie di solidarietà per gli altri.

Oltre a vedere i difetti negli altri ne scoprii uno anche in me: non riuscivo ad entrare in un gruppo.
Certe volte la parola “noi”, che alla fin fine è semplice e composta da tre letterine, mi faceva vomitare.
Come sindacalista comunque lasciai un buon ricordo negli operai e un cattivo ricordo nei miei datori di lavoro: organizzando scioperi, ascoltando i problemi dei  lavoratori meno tutelati (credete che in fabbrica una ragazza madre abbia la solidarietà di tutti? Rispondo io: col cavolo. La fabbrica ha grandi slanci, la fabbrica ha grandi meschinità).

Quella parola “Noi”, a volte sono stato io ad invocarla.
Una volta, ricordo.
La Fiat aveva licenziato una cinquantina di lavoratori.
Sciopero di solidarietà, assemblea sindacale di solidarietà, parole di solidarietà.
Davanti a un centinaio di persone (delegati sindacali) feci una proposta:
Ogni operaio metalmeccanico versi una piccola parte del suo stipendio a un conto di solidarietà, per quei cinquanta lavoratori.
Non piacque. Bisognava cercare altri strumenti (eppure io ricordavo certi slanci a inizi secolo di certe battaglie operaie…).

Il 68, dunque, io l’ho vissuto di riflesso.
Me l’hanno raccontato.
I racconti di fabbrica di mio padre.
I racconti dei miei amici più vecchi che facevano la Statale.

Dico sempre che quando vado a Cortona, il mio paese, io mi sento molto piemontese e che, viceversa, quando sono in Piemonte io mi sento molto toscano.
Faccio così anche col 68.
Lo critico, lo difendo, a seconda del mio interlocutore.
Stessa cosa faccio quando si parla del sindacalismo.
A chi dice – solita frase fatta – che i mali dell’Italia nascono proporio dal sindacato io domando se sanno cos’era la fabbrica prima dello Statuto dei lavoratori; domando se sanno che un datore di lavoro poteva licenziare solo perché tu gli stavi antipatico (o eri comunista); domando se sanno cos’era la voce Malsano in busta paga.
Malsano in busta paga era una voce che equivaleva a 100 lire al giorno in più.
100 lire per lavorare in reparti ad alto rischio, lavorazione di acidi insomma.
Gente che insomma per non morire di fame è comunque morta: ma prima del tempo. I tumori delle fabbriche.
E che dire poi dei reparti dei cornuti? Operai che, guarda caso, lavoravano nello stesso reparto e poi non riuscivano ad avere rapporti sessuali.
Gli si seccavano i coglioni, racconta il mio vecchio.

Il problema del linguaggio che non comunica perché “noi” siamo quelli che sappiamo e gli altri sono coglioni l’ho vissuto anche in fabbrica.
Quando c’erano le elezioni dei delegati sindacali (i vecchi consigli di fabbrica) prendevo sempre più voti di tutti. Parlavo, mi sforzavo di parlare in modo semplice.

Questa l’ho già raccontata, qui, ma ora devo riraccontarla.
Un giorno arriva un sindacalista, parla ai miei compagni di lavoro in assemblea. A un certo punto dice “I rapporti di forza sono mutati”.
Bene.
Una donna, sui quaranta, sposata con un operaio (e che quindi non aveva né il tempo né la voglia di leggere Il Manifesto o l’Unità) mi chiese, quasi vergognandosi: Cosa sono i rapporti di forza?
Feci due cose. La prima: le spiegai. La seconda: andai al sindacato e litigai: Perché quando mi dissero “con che cazzo di gente abbiamo a che fare” io mi inalberai.
Dissi che quella donna, finito il turno di lavoro, ne aveva un altro: con figli e lavatrici.

Ho tralasciato, certo, tante cose, i decreti delegati, il mio impegno antinucleare proprio quando il Pci lo era, i racconti che mi fece un mio amico della Russia comunista; lui ci andava, per lavoro, aveva una relazione con una donna comunista, a Mosca; lui, che era di Lotta Continua, divenne anticomunista.
Gli devo tanto: la conoscenza di Vladimir Vysotsky.
Oppure, in ordine di tempo, ho bene in mente i racconti che mi ha fatto invece un giornalista rumeno. Oppositore del governo comunista, lui che era ingegnere finì a lavorare in miniera. Operaio minatore.
Poi addio comunismo, arriva la libertà e con la libertà la fame, la delinquenza, lo sfruttamento della prostituzione. Dal peggio al peggio è passato, questo mio amico.
In Romania, ora, ci son tanti datori di lavoro italiani: han capito che lì si risparmia. E che lì chi ha i soldi vive bene, tanto, e chi non li ha vive male, tanto.
Anche questo mio amico è un marxista: fino a Kronstadt, 1922.
Ora almeno fa il giornalista.

Una volta andammo in un bar di Vercelli. Ordinai un caffè, gli chiesi cosa voleva. Mi disse, quasi con difficoltà, a fatica: un caffè e latte.
Ci sedemmo.
A un tratto mi disse: Oggi per me è una bella giornata.
Non capivo (cazzo dice questo?).
Capì che non capivo: così aggiunse che era una bella giornata di sole e poi avvicinò la tazza del suo caffè e latte alle labbra, socchiudendo gli occhi. Quel cappuccio e un po’ di sole, già.

I sogni presi a calci (sottotitolo: da compagno a compagno)

Mentre cerca gli spiccioli per pagare il caffè, sta cercando di trovare qualcos’altro: la forza per domandare, a volte ce la fa, irrigidendosi, col cuore che galoppa e le tempie che pulsano e un tremolio, forte, va a sapere perché, alla mano e alla gamba sinistra, a volte, ma solo a volte, quando è disperato, un treno che sta partire, o la mamma all’ospedale e lui non sa dov’è, a volte, insomma, ce la fa a chiedere, a porre una semplice, banalissima domanda.
Che poi. La faccia rubiconda, sorridente e serena della proprietaria del bar  sembra dirgli, Ci facciamo due belle chiacchiere?, cosa mi racconta?
Non serve chiedere, però stavolta: davanti al bar c’è una banca, e che una volta ci fosse una casa di ringhiera, povera, con appartamenti per studenti squattrinati, lo sapeva, e bene, anche lui.
Certo…
Ma sa che certe volte viene qui una ragazza, no che dico ragazza, una donna sui quarantacinque, molto bella, occhi neri e capelli neri, la ricordo perché non è truccata ed ha sempre delle collanine e dei braccialetti, beve un latte macchiato, dice “buono, complimenti signora”, e poi mi domanda se per caso, qualche volta, viene qui un certo Luca…

Certo. Che bello sarebbe, sta pensando Luca, se la signora che sta alla cassa, e che ora è leggermente indispettita perché lui, per un caffè da 0,90 gli ha rifilato un 50 euro, mi dicesse queste parole.
Buona sera e grazie.
Nemmeno buona sera, gli ha risposto lei.

Sta guardando la banca.
Non riesce a immaginarsi i locali dentro.
Dove c’era il vecchio ingresso, sempre buio ché nessuno mai cambiava la lampadina, ora c’è una vetrata. Han demolito, poi costruito.
Cazzo.
Nemmeno una vecchia pietra può trovare stasera.

L’aveva persa lì, lui, alla Ines.
L’aveva gettata in un cassonetto dell’immondizia.
Troia schifosa, e lei piangeva, piegata in due.

Eppure lei, quando erano andati a vivere lì, glielo aveva detto: Se vuoi ti racconto, ma guarda che ti faccio male.
Non m’importa niente, le aveva risposto lui.
Lei non era vergine? Chissenfrega.
Lei era stata magari con Marco, magari con Paolo, magari con Gaetano, magari con tutti e tre insieme? Chissenfrega.
Perché lui, una donna così bella non l’aveva mai avuta.
E quando l’aveva portata al paese, non si era mai sentito così… così immenso, così… così vincente, così… invidiato, sì, invidiato e macho, lui, Luca l’imbranato, quello che faceva sempre cappelle, che aveva limonato solo con Graziella al cinema, e Graziella l’aveva poi preso in giro dicendo che puzzava d’aglio, lui, ora, agli amici poteva far vedere, mostrare cioè il trofeo: ecco a voi Ines, lucidatevi gli occhi, coglioni.

Erano gli anni delle Lotte continue e delle Avanguardie operaie.
E degli slogan stupidi.
Siamo stati in prefettura
la polizia non ci fa paura.
(Davanti al Duomo erano più carini:
Satana-Lucifero-Bel-ze-bù).

Ed erano i giorni dei sogni: “Ines, e se dopo la laurea andassimo in sudamerica?”.
Daaaii.
Erano gli anni della parità dei sessi, anche, specie a sinistra.
Tutti femministi.
Parità dei sessi. Niente più le vecchie stronzate, borghesi e fasciste, di dire che se una donna la dà via è una puttana. Il sesso va rivisto, la gelosia è un retaggio piccolo borghese, ergo, chi non scopa in compagnia è un ladro o una spia.
Forse.

Erano gli anni in cui, ogni tanto, qualcuno arrivava nella sede del collettivo e diceva: Ho un’amica che ha uno zio che lavora al ministero, il 23, giuro, c’è un colpo di stato, occhio compagni.
Erano gli anni delle idee precise abbinate alla sinistra estrema.
“Tu, adesso?”.
“Io sono con i trotskisti, ma se mi fanno girare la balle divento anarchico E tu?”.
“Lotta comunista”.
“Ma non eri di Lotta Continua?”.
“Troppo spontaneisti”.
“Ah”.

Comunque. Erano anni belli e giorni belli per due ragazzi che, invece di studiare, facevano l’amore, poi due spaghetti, poi ascoltavano la radio, poi facevano ancora l’amore.

Un venerdì, però, Ines ricevette una brutta telefonata.
Dal paese suo, profondo sud. La zia che le ha fatto da madre ha avuto un infarto, non è morta ma sta male, sta male tanto.
Lui l’accompagnò alla centrale e, dopo averla salutata, si sentì un po’ perso.
Da sette mesi, quasi otto, vive di Ines, di Lotte continue scroccate in università da leggere e poi da usare come carta igienica, perché i soldi son pochi e i pochi servono per andare ai concerti e farsi qualche canna e qualche sigaretta, sono, insomma, stati sette grandi mesi (solo che i grandi mesi mica te lo dicono che sono grandi: uno se ne accorge anni dopo, quando son partiti pure loro, come Ines).
Voglia di andare a casa non ne aveva, al collettivo c’erano i soliti invasati che rileggevano per la settantaduesima volta Stato e rivoluzione.
Optò per un chinotto, nel locale dove l’aveva conosciuta.
Avrebbe rivisto chi non voleva rivedere, gli ex di Ines, insomma.
Una voce gli diceva, Non andare.
Non l’ascoltò.
Entrando, e vedendo che non c’erano né Paolo né Marco né Gaetano, quasi quasi, no, via quel quasi quasi: tirò un sospiro di sollievo: non c’erano. Grande.
“Lucaaa”.
Ocazzo.

Gli pare di sentirla la voce di Gaetano, adesso mentre fissa l’interno della banca, ma è buio.
Sì che c’era lui; era stato assunto come cameriere, “mi son rotto i coglioni della filosofia” gli aveva detto, per poi aggiungere: “E Ines?”.

Inutile restare davanti alla vecchia banca.
Chissà che fine avrà fatto Ines, si sta chiedendo, ora, fumando la decima sigaretta quotidiana (sta sgarrando oggi; non deve superare le sette, il medico è stato chiaro).

Che stronzo che era stato quella sera ad aspettare Gaetano.
“Dai, resta qui, leggi Il Corriere o La gazzetta dello sport, e aspettami, che poi ci facciamo un paio di birre”.
Gaetano aveva le chiavi del locale e, alle cinque del mattino, gonfi di birra e ubriachi, cantavano Bandiera Rossa, la Locomotiva, El pueblo unido, Fratello partigiano compagno cittadino, Che roba contessa all’industria di Aldo…
Verso le sei, Gaetano, dopo aver vomitato concesse il bis: vomitò, e senza ragione, che ormai le birre le aveva sputate fuori, altro.
Discorsi insomma da compagno a compagno.
“Ma dimmi un po’, Ines le pompe te le fa bene come le faceva a me?”.
Dopo risate e confidenze stupide a Luca venne un senso di fretta: aveva voglia, ora, di vomitare lui, che di birre ne aveva bevute solo due, e a malincuore, ma non se l’era sentita di dire che era un estimatore di chinotto.
Si salutarono per strada come due vecchi amici, Luca e Gaetano.
Gran bella notte. Spuntava il sol dell’avvenire, ora.

Sta salendo sulla macchina, in questo momento, ma il coraggio di guardare in alto, verso la stanza, non c’è  (ogni volta che ha sentito Paoli cantare “Questa stanza non ha più pareti…” gli viene il magone. Vent’anni di magone, no di più: ventiquattro).
Risente qualcos’altro, si risente.
“Sei una troiaaa”.
Erano gli anni, quelli, in cui a volte succedeva di prendere a calci un sogno, per poi pentirsene.
Per un ventennio e più.

(Pare l’abbia ritrovata: Su Facebook).

d’improvviso, alla finestra

Ogni tanto passo sotto una vecchia casa in cui ho vissuto per anni. Guardo in su, verso la finestra, al quarto piano.
Per anni non ho avuto che il lavoro, i libri e quella finestra. Oltre quei vetri scorreva una vita che io non potevo permettermi: non avevo tempo.
Da quella finestra vedevo la neve o sentivo i gatti in calore, in primavera; vedevo gente arrivare o partire, vedevo il signore che, tutte le mattine, prima di andare al lavoro, con uno straccio puliva i vetri della sua automobile, ma dire puliva è cosa ingiusta, perché era talmente dolce ché sembravano carezze le sue; poi, finito di pulire, guardava la sua automobile bianca di cui non sapre dire la marca, che io di auto non capisco niente, e a piedi s’incamminava verso l’ufficio.
Una sera, però, dopo un esame, era un venerdì sera, ero uscito: pizza e birra con alcuni amici.
Tornato a casa, sarà stata l’una di notte, sono attratto da quel che c’è oltre la finestra.
Oltre la finestra, proprio davanti a me, la casa al quarto piano, è tutta illuminata: la cucina, la sala, la camera da letto.
Di giorno, spesso, durante le mie pause di pipa o sigari o sigarette (non mi faccio mancare niente) appostato alla finestra, vedevo, appostata alla sua finestra la signora del quarto piano, casalinga.
Ci eravamo scambiati sguardi, mai parole o saluti, non per altro: avremmo dovuto urlare, che c’era pure una magnolia di mezzo, oltre la strada.
Una volta, invece, avevo scambiato due parole col marito, che mi aveva detto: Al mattino quando io mi alzo lei è ancora sveglio, la vedo sempre che studia, sa che certe volte sento anche che batte a macchina?
Si sente tutto o quasi, appostati alle finestre, specie d’esate.
Io non gli potevo certo dire che dal palazzo di fronte, cioè il palazzo dove viveva lui, sentivo russare, nonostante la magnolia, nonostante la strada, e non potevo soprattutto dirgli che il sospetto, solo il sospetto certo, che fosse lui a russare era forte.
Torno a quella sera.
La casa dei miei dirimpettai è illuminata: perché lui è morto, improvvisamente.
Meno di cinquant’anni.
La signora (che io allora chiamavo Una donna alla finestra) è, insieme a un’altra donna, in camera da letto: stanno svestendo e poi rivestendo il morto.
Lo lavano con una spugna.
Hanno anche una figlia, avrà avuto vent’anni, forse meno: era seduta, in cucina, a guardare il pavimento.
Era una sera d’estate, le loro finestre era aperte, come la mia.
Difficile che passassero auto. Una ogni venti minuti. Si sentiva il silenzio, e bene, magari interrotto dai treni della linea Torino Milno, in lontananza.
Dopo aver rivestito il morto le due donne raggiunsero la ragazza, in cucina, poi la madre, cioé la donna alla finestra, preparò del caffè, e c’era un silenzio che quasi faceva male.
Nè piangevano né parlavano: era peggio, però, così: quando c’è un morto in casa ci si dispera, no?
Mi sembra quasi di vedere la scena, e dentro, nella scena, ci sono anche io: io, che dalla mia finestra, aperta, ma al buio, vedo quella casa che non è più la stessa casa che intravvedo, tra un libro di storia e uno di letteratura.
Ci sono io che guardo, dall’altro lato della strada.
Ci son tre donne, in cucina, che non piangono né parlano né nulla; c’è poi una stanza vuota, la sola; c’è infine la camera da letto, con lui steso, vestito di tutto punto, l’ultimo vestito.
C’è tanta luce, mi sembra di rivederla.
Troppa. E troppo silenzio.

Incipit (invece) di libri da rileggere

Tutte le sere il giovane pescatore prendeva il mare e gettava le reti nell’acqua.
Quando il vento spirava da terra non pescava nulla, o ben poco, ché quello era un vento acuto e veloce e grosse onde impedivano di avanzare. Ma quando il vento spirava verso la spiaggia, i pesci venivano su dal fondo e si gettavano fra le maglie delle sue reti, ed egli li portava al mercato e li vendeva.
Il pescatore e la sua anima, Oscar Wilde.

Nell’accingermi alla descrizione dei recenti e così strani avvenimenti accaduti nella nostra città, che nulla ha mai fatto distinguere finora, sono costretto, per la mia inesperienza, a cominciare un po’ da lontano, e precisamente da certi particolari biografici sul geniale e molto riverito Stepàn Trofìmovic Verchovenskij. Valgano questi particolari solo d’introduzione alla presenta cronaca; la storia, poi, che intendo narrare, verrà in seguito.
I demoni, di Fedor Dostoevskij.

Il procuratore Varga era impegnato nel processo Reis, che durava da circa un mese e si sarebbe trascinato per altri due, quando in una dolcissima sera di maggio, dopo le dieci e non oltre la mezzanotte secondo testimonianze e necroscopia, lo ammazzarono.
Il contesto, di Leonardo Sciascia.

Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tempo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti, anzi in un certo senso potrebbe…
Il male oscuro, di Giuseppe Berto.

Sono, questi quattro libri, qualcosa di più di semplici libri, per me. Hanno il profumo di momenti precisi della mia vita, di momenti intensi, particolari.
L’incipit che preferisco è quello di Sciascia, il libro che ho letto e riletto, forse tre, forse quattro volte, è Il pescatore e la sua anima (una raccolta di racconti di Wilde). La prima volta lo lessi che avevo ancora i calzoni corti, me lo prestò un mio amico, insieme a un Salgari. Mi piacque, non solo: mi restò impresso (che i libri più belli sian quelli che restano impressi?). Era un prestito, lo restituii.
Una ventina d’anni dopo rividi Il pescatore e la sua anima (stampato da Bietti) in una bancarella, lo comprai e lo rilessi. Capii cose che vent’anni prima non avevo capito, ma per paura di non avere colto tutto anche stavolta feci quello che non ho mai fatto con nessun libro: lo rilessi subito, due volte di seguito, insomma, come si usa fare quando un libro lo si deve studiare o portare all’esame.
Ho quindi scelto i libri più che gli incipit.
Che poi: rileggendo alcuni vecchi libri che vorrei rileggere ho trovato degli incipit che mi “invogliavano zero” a ricopiarli. Brutti, insomma. Ma di libri “tantissimamente belli” (come L’inverno del nostro scontento di Steinbeck).
L’incipit insomma non fa primavera.