Mentre cerca gli spiccioli per pagare il caffè, sta cercando di trovare qualcos’altro: la forza per domandare, a volte ce la fa, irrigidendosi, col cuore che galoppa e le tempie che pulsano e un tremolio, forte, va a sapere perché, alla mano e alla gamba sinistra, a volte, ma solo a volte, quando è disperato, un treno che sta partire, o la mamma all’ospedale e lui non sa dov’è, a volte, insomma, ce la fa a chiedere, a porre una semplice, banalissima domanda.
Che poi. La faccia rubiconda, sorridente e serena della proprietaria del bar sembra dirgli, Ci facciamo due belle chiacchiere?, cosa mi racconta?
Non serve chiedere, però stavolta: davanti al bar c’è una banca, e che una volta ci fosse una casa di ringhiera, povera, con appartamenti per studenti squattrinati, lo sapeva, e bene, anche lui.
Certo…
Ma sa che certe volte viene qui una ragazza, no che dico ragazza, una donna sui quarantacinque, molto bella, occhi neri e capelli neri, la ricordo perché non è truccata ed ha sempre delle collanine e dei braccialetti, beve un latte macchiato, dice “buono, complimenti signora”, e poi mi domanda se per caso, qualche volta, viene qui un certo Luca…
Certo. Che bello sarebbe, sta pensando Luca, se la signora che sta alla cassa, e che ora è leggermente indispettita perché lui, per un caffè da 0,90 gli ha rifilato un 50 euro, mi dicesse queste parole.
Buona sera e grazie.
Nemmeno buona sera, gli ha risposto lei.
Sta guardando la banca.
Non riesce a immaginarsi i locali dentro.
Dove c’era il vecchio ingresso, sempre buio ché nessuno mai cambiava la lampadina, ora c’è una vetrata. Han demolito, poi costruito.
Cazzo.
Nemmeno una vecchia pietra può trovare stasera.
L’aveva persa lì, lui, alla Ines.
L’aveva gettata in un cassonetto dell’immondizia.
Troia schifosa, e lei piangeva, piegata in due.
Eppure lei, quando erano andati a vivere lì, glielo aveva detto: Se vuoi ti racconto, ma guarda che ti faccio male.
Non m’importa niente, le aveva risposto lui.
Lei non era vergine? Chissenfrega.
Lei era stata magari con Marco, magari con Paolo, magari con Gaetano, magari con tutti e tre insieme? Chissenfrega.
Perché lui, una donna così bella non l’aveva mai avuta.
E quando l’aveva portata al paese, non si era mai sentito così… così immenso, così… così vincente, così… invidiato, sì, invidiato e macho, lui, Luca l’imbranato, quello che faceva sempre cappelle, che aveva limonato solo con Graziella al cinema, e Graziella l’aveva poi preso in giro dicendo che puzzava d’aglio, lui, ora, agli amici poteva far vedere, mostrare cioè il trofeo: ecco a voi Ines, lucidatevi gli occhi, coglioni.
Erano gli anni delle Lotte continue e delle Avanguardie operaie.
E degli slogan stupidi.
Siamo stati in prefettura
la polizia non ci fa paura.
(Davanti al Duomo erano più carini:
Satana-Lucifero-Bel-ze-bù).
Ed erano i giorni dei sogni: “Ines, e se dopo la laurea andassimo in sudamerica?”.
Daaaii.
Erano gli anni della parità dei sessi, anche, specie a sinistra.
Tutti femministi.
Parità dei sessi. Niente più le vecchie stronzate, borghesi e fasciste, di dire che se una donna la dà via è una puttana. Il sesso va rivisto, la gelosia è un retaggio piccolo borghese, ergo, chi non scopa in compagnia è un ladro o una spia.
Forse.
Erano gli anni in cui, ogni tanto, qualcuno arrivava nella sede del collettivo e diceva: Ho un’amica che ha uno zio che lavora al ministero, il 23, giuro, c’è un colpo di stato, occhio compagni.
Erano gli anni delle idee precise abbinate alla sinistra estrema.
“Tu, adesso?”.
“Io sono con i trotskisti, ma se mi fanno girare la balle divento anarchico E tu?”.
“Lotta comunista”.
“Ma non eri di Lotta Continua?”.
“Troppo spontaneisti”.
“Ah”.
Comunque. Erano anni belli e giorni belli per due ragazzi che, invece di studiare, facevano l’amore, poi due spaghetti, poi ascoltavano la radio, poi facevano ancora l’amore.
Un venerdì, però, Ines ricevette una brutta telefonata.
Dal paese suo, profondo sud. La zia che le ha fatto da madre ha avuto un infarto, non è morta ma sta male, sta male tanto.
Lui l’accompagnò alla centrale e, dopo averla salutata, si sentì un po’ perso.
Da sette mesi, quasi otto, vive di Ines, di Lotte continue scroccate in università da leggere e poi da usare come carta igienica, perché i soldi son pochi e i pochi servono per andare ai concerti e farsi qualche canna e qualche sigaretta, sono, insomma, stati sette grandi mesi (solo che i grandi mesi mica te lo dicono che sono grandi: uno se ne accorge anni dopo, quando son partiti pure loro, come Ines).
Voglia di andare a casa non ne aveva, al collettivo c’erano i soliti invasati che rileggevano per la settantaduesima volta Stato e rivoluzione.
Optò per un chinotto, nel locale dove l’aveva conosciuta.
Avrebbe rivisto chi non voleva rivedere, gli ex di Ines, insomma.
Una voce gli diceva, Non andare.
Non l’ascoltò.
Entrando, e vedendo che non c’erano né Paolo né Marco né Gaetano, quasi quasi, no, via quel quasi quasi: tirò un sospiro di sollievo: non c’erano. Grande.
“Lucaaa”.
Ocazzo.
Gli pare di sentirla la voce di Gaetano, adesso mentre fissa l’interno della banca, ma è buio.
Sì che c’era lui; era stato assunto come cameriere, “mi son rotto i coglioni della filosofia” gli aveva detto, per poi aggiungere: “E Ines?”.
Inutile restare davanti alla vecchia banca.
Chissà che fine avrà fatto Ines, si sta chiedendo, ora, fumando la decima sigaretta quotidiana (sta sgarrando oggi; non deve superare le sette, il medico è stato chiaro).
Che stronzo che era stato quella sera ad aspettare Gaetano.
“Dai, resta qui, leggi Il Corriere o La gazzetta dello sport, e aspettami, che poi ci facciamo un paio di birre”.
Gaetano aveva le chiavi del locale e, alle cinque del mattino, gonfi di birra e ubriachi, cantavano Bandiera Rossa, la Locomotiva, El pueblo unido, Fratello partigiano compagno cittadino, Che roba contessa all’industria di Aldo…
Verso le sei, Gaetano, dopo aver vomitato concesse il bis: vomitò, e senza ragione, che ormai le birre le aveva sputate fuori, altro.
Discorsi insomma da compagno a compagno.
“Ma dimmi un po’, Ines le pompe te le fa bene come le faceva a me?”.
Dopo risate e confidenze stupide a Luca venne un senso di fretta: aveva voglia, ora, di vomitare lui, che di birre ne aveva bevute solo due, e a malincuore, ma non se l’era sentita di dire che era un estimatore di chinotto.
Si salutarono per strada come due vecchi amici, Luca e Gaetano.
Gran bella notte. Spuntava il sol dell’avvenire, ora.
Sta salendo sulla macchina, in questo momento, ma il coraggio di guardare in alto, verso la stanza, non c’è (ogni volta che ha sentito Paoli cantare “Questa stanza non ha più pareti…” gli viene il magone. Vent’anni di magone, no di più: ventiquattro).
Risente qualcos’altro, si risente.
“Sei una troiaaa”.
Erano gli anni, quelli, in cui a volte succedeva di prendere a calci un sogno, per poi pentirsene.
Per un ventennio e più.
(Pare l’abbia ritrovata: Su Facebook).