Ogni tanto passo sotto una vecchia casa in cui ho vissuto per anni. Guardo in su, verso la finestra, al quarto piano.
Per anni non ho avuto che il lavoro, i libri e quella finestra. Oltre quei vetri scorreva una vita che io non potevo permettermi: non avevo tempo.
Da quella finestra vedevo la neve o sentivo i gatti in calore, in primavera; vedevo gente arrivare o partire, vedevo il signore che, tutte le mattine, prima di andare al lavoro, con uno straccio puliva i vetri della sua automobile, ma dire puliva è cosa ingiusta, perché era talmente dolce ché sembravano carezze le sue; poi, finito di pulire, guardava la sua automobile bianca di cui non sapre dire la marca, che io di auto non capisco niente, e a piedi s’incamminava verso l’ufficio.
Una sera, però, dopo un esame, era un venerdì sera, ero uscito: pizza e birra con alcuni amici.
Tornato a casa, sarà stata l’una di notte, sono attratto da quel che c’è oltre la finestra.
Oltre la finestra, proprio davanti a me, la casa al quarto piano, è tutta illuminata: la cucina, la sala, la camera da letto.
Di giorno, spesso, durante le mie pause di pipa o sigari o sigarette (non mi faccio mancare niente) appostato alla finestra, vedevo, appostata alla sua finestra la signora del quarto piano, casalinga.
Ci eravamo scambiati sguardi, mai parole o saluti, non per altro: avremmo dovuto urlare, che c’era pure una magnolia di mezzo, oltre la strada.
Una volta, invece, avevo scambiato due parole col marito, che mi aveva detto: Al mattino quando io mi alzo lei è ancora sveglio, la vedo sempre che studia, sa che certe volte sento anche che batte a macchina?
Si sente tutto o quasi, appostati alle finestre, specie d’esate.
Io non gli potevo certo dire che dal palazzo di fronte, cioè il palazzo dove viveva lui, sentivo russare, nonostante la magnolia, nonostante la strada, e non potevo soprattutto dirgli che il sospetto, solo il sospetto certo, che fosse lui a russare era forte.
Torno a quella sera.
La casa dei miei dirimpettai è illuminata: perché lui è morto, improvvisamente.
Meno di cinquant’anni.
La signora (che io allora chiamavo Una donna alla finestra) è, insieme a un’altra donna, in camera da letto: stanno svestendo e poi rivestendo il morto.
Lo lavano con una spugna.
Hanno anche una figlia, avrà avuto vent’anni, forse meno: era seduta, in cucina, a guardare il pavimento.
Era una sera d’estate, le loro finestre era aperte, come la mia.
Difficile che passassero auto. Una ogni venti minuti. Si sentiva il silenzio, e bene, magari interrotto dai treni della linea Torino Milno, in lontananza.
Dopo aver rivestito il morto le due donne raggiunsero la ragazza, in cucina, poi la madre, cioé la donna alla finestra, preparò del caffè, e c’era un silenzio che quasi faceva male.
Nè piangevano né parlavano: era peggio, però, così: quando c’è un morto in casa ci si dispera, no?
Mi sembra quasi di vedere la scena, e dentro, nella scena, ci sono anche io: io, che dalla mia finestra, aperta, ma al buio, vedo quella casa che non è più la stessa casa che intravvedo, tra un libro di storia e uno di letteratura.
Ci sono io che guardo, dall’altro lato della strada.
Ci son tre donne, in cucina, che non piangono né parlano né nulla; c’è poi una stanza vuota, la sola; c’è infine la camera da letto, con lui steso, vestito di tutto punto, l’ultimo vestito.
C’è tanta luce, mi sembra di rivederla.
Troppa. E troppo silenzio.