(racconto “di un attimo” in forma epistolare e ispirato da qualcosa di vero)
Ti scrivo, caro papà,
ma stasera, quando passerò sotto la tua villa, non si mica se avrò la forza di imbucare questa lettera.
Sai papà, e anche se lo dimentichi lo sai, che la persone che più ti vuole bene a questo mondo sono io.
Quando ero piccolo tu mi facevi ridere, stravedevo per te, volevo solo te, ti sognavo.
Così quando te ne andasti provai solo tanta rabbia, contro la mamma, contro me stesso e mio fratello, se tu avevo scelto un’altra donna, un’altra famiglia, era perché io la mamma e Francesco non eravamo alla tua altezza, non eravamo intelligenti e spensierati come te (ricordo ancora quando tornavi a casa e facevi capriole sul pavimenti), non eravamo belli come te (ho le tue foto, tu capitano dell’esercito, tu in motocicletta, tu in costume da bagno, le accarezzo ancora, sai papà?, e quando io penso a un uomo bello penso a te. Oggi hai sessant’anni ma sono sicuro che se io e te andassimo in un posto pieno di donne loro si volterebbero a guardare te: se solo riuscissi a muovermi con la tua eleganza, un’eleganza distratta…
Tutto questo, comunque, o già lo sai o te l’immagini.
Oggi però è il 2 dicembre, caro papà, il giorno del mio compleanno.
E’ anche il giorno in cui – e son passati vent’anni – io sono diventato un perdente.
Tu, oggi, con tua moglie e i figli, miei fratellastri che odio e sempre ho odiato, di sicuro non ricorderai che è il mio compleanno, non ti ricordasti vent’anni fa, figuriamoci se oggi vai a pensare che.
E’ ancora più sicuro che tu non sappia, né credo saprai mai, che il 2 dicembre di vent’anni fa io sono diventato quello che sono: un perdente che affonda la testa.
Sul lavoro, con le donne, dovunque io sono un perdente, caro papà.
Vent’anni fa, già.
Facevo prima Liceo e tu, da tre mesi (ricordo tutte le date, sai papà, anche il giorno in cui te ne andasti) già non vivevi più con noi. Però ti sentivo al telefono e tu al telefono mi facevi ridere e tu al telefono mi facevi sentire bene: ero ancora il tuo “grande Paolino”.
Con mamma non parlavi e con Francesco parlavi poco, sono due musoni, sono tristi, ma con me sì. Mi dicevi cose belle papà, e io quando mi addormentavo mi addormentavo bene, perché ripensavo e risentivo la tua voce.
No, sempre bene no: perché quando ti telefonavo sentivo la voce di quell’arpia che hai sposato, certo, più bella di mamma, ma ha due occhi cattivi quella donna quando vi incontravo, e al telefono ti metteva fretta, era gelosa.
(Diciamocelo papà: la tua vita è piana di successi e di scopate, lo so e lo sa tutta la città, ma hai sposato due donne da poco).
In ogni caso la notte del primo dicembre di vent’anni fa io ero felicissimo quando andai a dormire.
Risentivo le tue parole. Come un disco, una canzone il cui ritornello ti ha conquistato.
Domani vengo a prenderti a scuola e facciamo una grande festa, solo noi due.
Sto piangendo, ora, papà mentre scrivo.
Mi rivedo, rivedo il bambino che aspetta, era una giornata brutta, grigia.
L’avevo detto a tutti a scuola che tu saresti venuto ma all’una nessuno dei miei compagni ti aveva visto, che importa, pensavo, tu arrivi sempre in ritardo.
Piango papà, ho pena di me: mi rivedo che ti aspetto un’ora, due, tre, e tu non arrivi.
Saranno le quattro del pomeriggio e, davanti alla scuola, passa una macchina. Qualcuno mi saluta con la mano: è un mio compagno, lo chiamavamo Frassica perché non sapeva né scrivere né parlare in italiano, ma era comunque il figlio di un imprenditore. E io a Frassica l’avevo detto: Oggi festeggio con mio papà.
Sai che feci, papà, quando vidi che Frassica mi salutava con la mano?
Mi voltai verso il muro, pensa che scemo.
Sono vent’anni, caro papà, che, ma sì, penso sia la cosa più giusta da dire, mi volto e guardo le crepe di un muro, è successo anche la settimana scorsa quando con Anna siamo andati dall’avvocato per la separazione, a lei la coca e i cocainomani, così mi ha detto, fanno schifo.
(Lei non si è mai dovuta girare verso un muro, però).