Tra mezz’ora parto, vado in un paese del circondario, mezz’ora di macchina, si chiama Bianzè questo paese.
Sono ospite della biblioteca in qualità di scrittore ma dal momento che Bianzé è “sotto la giurisdizione” del giornale che dirigo i pochi o tanti che verranno, verranno anche perché io dirigo, appunto il giornale locale (che – chi si loda s’imbroda ma va bene lo stesso – in queste zone vende venti volte di più di quel che vendono i vari Corriere della Sera o Repubblica).
Dovrei, credo, rivedere un mio compagna di scuola, stasera.
Son trent’anni che non lo vedo.
Lui, quando facevamo le superiori era bravo in tutto, tutti otto, sette quando non era in forma. Mai un rimprovero, bravo anche in religione e ginnastica. Silenzioso, stava all’ultimo posto.
Giocavamo a pallone insieme: io riserva, lui titolare.
Due volte la settimana andavo a prenderlo, lo caricavo in bicicletta e, la sera, andavamo ad allenarci, in periferia.
Lo caricavo volentieri, e anche se dovevo fare (anche) un cavalcavia lo facevo volentieri; un po’, mentre pedalavo in salita, pensavo, “così mi rinforzo i muscoli”, un po’ mi stava simpatico quel ragazzo alto e silenzioso, che viveva nell’ospizio.
Quando arrivavo a prenderlo, e lui, sempre puntuale si faceva trovare dabasso, vedevo i più piccoli, ragazzini di sei, sette, otto anni: in fila per due, tenendosi per mano, come carcerati facevano il giro del cortile, sotto l’occhio attento di un assistente. Tutti vestiti uguali, tristi, a testa bassa.
Quando penso al grigio-triste, ri-penso a quelle immagini.(ché la nebbia e il buio sembravano più intensi, duri).
E al sorriso del mio compagno di classe.
Dài andiamo.
Andiamo.
E si fischiava, o De André o De Gregori, poi, in due su una vecchia bicicletta con solo il freno davanti e, rigorosamente, senza luci.