Ricordo l’ultima sera in fabbrica. Avevo deciso, ormai. Mi licenzio così mi laureo e poi vado a insegnare e scrivo romanzi (non è finita proprio così). Era comunque l’ultima sera: guardai il mio posto di lavoro, e pensai: mi sa tanto che proverò nostalgia.
No, non è successo.
Dissero di me: è impazzito, con una figlia da mantenere lascia un posto di lavoro fatto e finito.
Anni dopo. Lavoro in albergo, portiere di notte. Un lavoro bello. Perché di notte potevo leggere, studiare, ascoltare musica. E ogni tanto piovevano storie, lì. Stavo bene, ma bane davvero. Però mi mancavano pochi esami alla laurea, però mi attirava la redazione del giornale che ora dirigo (allora collaboravo per pochi spiccioli).
Me ne andai dicendo: lo rimpiangerò questo lavoro.
Un po’ rimpiango di non essere stato attento quando piovevano storie: di prostitute, di giocatori di carte, di persone famoese che magari alle 4 di notte non avevano sonno e scendavenao alla reception perché avevano voglia di piangere.
E ho voglia di cambiare ancora, adesso. Di rimettermi in discussione. Di sapere che in giro magari dicono di me: s’è ammattito.
Andavo per navigli a sera, facevo notte strimpellando le mie storie davanti a quattro sedie e qualche fiasco presto vuoto; le inventavo sul momento, un po’ per divertirmi, un po’per far passare il tempo senza crescere. Ma poi si cresce, anche se tieni il piede sopra il freno. Essere dottore! mi dava il capogiro più del vino, una paura il troppo impegno, un gran disagio la faccia sempre seria, meglio cantare a squarciagola parole un poco ubriache, strizzando l’occhio a qualche tipa mica bella che si commuove tra le gambe, una ogni tanto capita che te la dà, a essere jannacci. Essere dottore, studiare da cardiologo, aveva un certo fascino, però. Mi attirava il tenero tiranno di tenere un’altra vita in pugno, soffiarci dentro a riscaldare un cuore troppo debole e poi schiudere le dita, torna a volare passerotto e magari si trattava di un omone di centoventi chili.