Estate del 2003, la calda estate del 2003. Avevo scritto un libro, pubblicato dal giornale in cui lavoravo, quindi non valeva. Ne avevo scritto un secondo. “Dicono di Clelia”. Spedii a una quindicina di editori.
Volevo uscire da Vercelli.
In quell’anno cominciai a perdere le ore sui blog, su quello di Giulio Mozzi in particolare. Ma non solo. Quell’estate lessi un paio di libri di una scrittrice lanciata da Tondelli che pubblicava per Fernandel. Le scrissi, mi rispose, cominciammo a scambiarci più mail. Un giorno le chiesi se voleva leggere “Dicono dio Clelia”, e lei mi rispose: Certo ma sarò spietata. Mi fece l’editing. Non solo. Propose lei stessa il mio libro ad alcuni editor, scrittori, editori. A settembre del 2003 mi scrive Mursia: sono interessati a “Dicono di Clelia”. Avviso Alessandra. Era felicissima. Non dimenticherò mai la sua generosità.
Se su Il Fatto quotdiano curo la rubrica “4 mezze cartelle” il merito è tutto suo, di Alessandra Buschi.
Che oggi scrive poesie e fa la libraia.
Questo è l’incipit di un suo libro. “Se Fossi Vera”. Fernandel.
Mi sarei dovuta chiamare Vera. Se mi fossi chiamata Vera, allora forse sarei stata mora, avrei portato gli occhiali, avrei avuto la pelle chiara. Avrei avuto una bella risata di gola, di quelle contagiose, e quando avrei chiamato al telefono mi avrebbero subito riconosciuto perché avrei avuto una voce inconfondibile, dal tono basso, un po’ nasale, ma molto molto sensuale.
Fu importante l’editing che mi fece Alessandra, certo che lo fu. Ma sentirmi stimato da una scrittrice mi rese più sicuro. Più sicuro nella scrittura, intendo. Prima ancora che Mursia pubblicasse “Dicono di Clelia” mi misi a scrivere uno dei miei libri migliori, “Lo scommettitore”.