Disse: “E adesso che mi si è rotta la macchina come faccio ad andare a lavorare? Non posso fare venti chilometri più altri venti ogni giorno”.
Le braccia a penzoloni, gli angoli delle labbra in giù, come i bambini quando stanno per piangere o si sentono offesi.
“Ma vaffanculo, ti do la mia no? Dovevo darla dentro perprendere un altro usato, ma se ti serve una macchina te la regalo a te”.
Non sto inventando. Sto raccontando qualcosa di vero, che ho visto.
Anni fa, frequento un bar di periferia. Il peggio del peggio del peggio. Nomadi, figli di puttana poiché hanno la mamma che la puttana la fa per davvero, figli di papà quarantenni magari disoccupati ma che prima di andare a dormire si fanno una canna. Tanti ragazzi, dediti anche al piccolo spaccio. Senza cultura, senza futuro. Io ero il giornalista con cui scherzavano. Quando ci arrestano ci metti in prima pagina?
Qualcuno lavorava.
“Mi hanno assunto in una concessionaria, faccio i tagliandi, Pressione delle gomme, olio, poi mi hanno insegnato a fare finta di controllare con il computer, che non so nemmeno usare”.
Mi ritrovavo lì perché lì andava mio fratello Moreno, mi ritrovavo tante sere lì perchè vedevo cose.
Ragazzi dai quindici ai vent’anni senza cultura e senza futuro, certo, che andavano nelle sale da ballo a provocare risse e vendere pastiglie. Gentaglia. Ma che credeva nell’importanza di una stretta di mano. E che aiutava un amico con una generosità inimmaginabile per noi, persone per bene.
(A questo periodo della mia vita durato circa due anni ho dedicato un racconto, che è stato pubblicato su un libro. Un racconto che avevo scritto con troppa rabbia e troppa fretta… prima a poi lo correggo e poi lo posto qui, nel blog)