Giornalismo coraggioso

Una vecchia pagina di giornalismo da imncorniciare, a cui sono affezionato. La scrisse Ermenegildo Gallardi, direttore de La Sesia, nel 1923. La citai nella mia tesi quando sostenni l’esame da giornalista professionista.

Io ho fiancheggiato il movimento fascista del Vercellese quando era ancora un’esigua e coraggiosa minoranza; mi sono appartato da esso quando gli si avvicinarono i pescicani, gli imboscati, gli arrivisti, gli ambiziosi, i plutocrati, i contumaci dell’ora del dovere.

Potete far venire a Vercelli due, tre, diecimila squadristi dalla Provincia e fuori. Io non tacerò. Venga adunque il manganello, l’olio di ricino non è più di moda. Ma badate: bisogna picchiare sodo: perché la testa è dura e perché se mi lasciate un filo di fiato me ne servirò ancora.

Propongo al cavalier Belloni una equa soluzione della nostra vertenza. Facciamo un bel comizio pubblico in piazza, col patto civile della libertà della parola. Il pubblico non mancherà. Vuole? O preferisce il manganello che crede più persuasivo?

Donne, briciole di storie

Faccio collezioni di immagini di donne. Briciole di storie, insomma.
Uno. Firenze, non lontano dal Ponte vecchio. Serata stupenda, ho appena cenato, è domenica, peccato che me ne debba andare. Incrocio una ragazza. Sta piangendo. Ci sono diversi modi di piangere. Il suo era disperato. Tanto.
Altro flash. Sono in una birreria, da queste parti. Arriva e si siede una donna dell’est; tra un po’ inizierà a lavorare in un vicino night. Chiede un bicchiere d’acqua e poi, dopo una manciata di minuti, con un po’ di vergogna chiede se per favore le possono dare anche un pezzo di pane.
Tre. Un ricordo di fabbrica. Durante un’assemblea un sindacalista parla di rapporti di forza. Una donna, che è seduta accanto a me, mi chiede: Cosa sono i rapporti di forza? Glielo spiego, poi vado al sindacato e pongo il problema dei termini da utilizzare quando si parla agli operai. Non mi prendono sul serio. “Chi è che non sa cosa sono i rapporti di forza?”. Una donna, per esempio. Mezza giornata a lavorare in fabbrica, mezza a stirale, lavare, crescere due figlii. E guardare la televisione un’oretta, prima di crollare dal sonno.

Nostalgie

Mi manca una città con i bar aperti fino a tardi, con il cinema tutti i giorni e il piccolo negozio di alimentari. E magari (anche se non ho più l’età) i campi di calcio in periferia, senza spogliatoi, con l’erbaccia oppure spelacchiati. E le trattorie…

Poi c’è una cosa che mi manca e che non ho mai vissuto: una biblioteca aperta anche di sera.

Una cosa che non mi manca è la sanità che c’era una volta. Primari con un codazzo di medici e suore, inavvicinabili. La sanità oggi fa schifo, perché funziona bene solo per chi ha i soldi (ma funziona bene anche per i politici e per i medici stessi: gente che difficilmente sentiremo lamentarsi per le liste d’attesa), però oggi, almeno, si può alzare la voce, rivolgersi a un giornale, ribellarsi insomma.

Poi, cosa più recente, mi manca il mondo dei blog, sommerso da facebook che, alla fin fine, è soprattutto un gran casino.

Mesi fa ho sentito una donna che, parlando con qualcuno al cellulare, raccontava di un brutto incidente che aveva avuto un suo parente. “L’hanno scritto anche su facebook” ha detto. Ah.

Bastonate

Quando andava ai battesimi intonava canti tristi, chi nasce infatti è destinato a soffrire, la gente però non gradiva e lui veniva bastonato. Le sue canzoni erano gioiose ai funerali, perché chi muore ha finito di soffrire, ma la gente lo cacciava, bastonandolo.

(Lo racconta Lev Trotsky in alcuni suoi libri; dice solo che è un personaggio della mitologia russa).

Preghiera in agosto

La mia preghiera. Che uscì sotto forma di lettera sul giornale storico di Vercelli, La Sesia, di cui ero direttore da pochi mesi, il 18 agosto 2005.

La sera di giovedì 18 agosto, in via Dante qualcuno, passando, ha sentito un rumore
sordo, forte: era il corpo di Moreno Bassini, 30 anni e un mese, precipitato dal quarto piano.
Era mio fratello.
E’ volato giù – così mi hanno detto – sotto gli occhi atterriti di una giovane madre. E’ successo mentre tentava di introdursi nell’abitazione dei suoi e miei genitori, lontani da casa, in ferie.
Era un gesto che non avrebbe dovuto fare perché quella, da oltre un anno, non era più casa sua. Ed è stato un gesto che gli è stato fatale: sebbene Moreno pesasse poco, per passare da una portafinestra interna al balcone e superare la veranda aveva bisogno di un appoggio per i piedi: cioè i fili della biancheria. Che stavolta non hanno retto il peso. Di Moreno, così, è rimasta solo la traccia del suo “passaggio”: il filo spezzato, le impronte delle mani sulla veranda, nel tentativo disperato di aggrapparsi.
Eppure quel gesto stupido Moreno l’aveva fatto altre volte, addirittura poco prima, quel giorno stesso: così, quasi per gioco, per dimostrare che, chiavi o non chiavi, lui in quella casa poteva tornare quando voleva.
La ricostruzione dell’accaduto è stata effettuata, per ore e ore, dai carabinieri di Vercelli. Hanno fotografato, ispezionato, verificato. Sono stati loro a contattare me e mia sorella, Silvia.
Al pronto soccorso dell’ospedale Sant’Andrea sono stato io a riconoscere il corpo senza vita di mio fratello. Un’esperienza terribile, vedere un volto che ti è caro ma che non è più quel volto. Che si è addormentato, per sempre, nel peggiore dei modi.
I miei genitori hanno appreso della disgrazia solo l’indomani mattina, venerdì 19 agosto, appena rientrati da due settimane di ferie trascorse a Follonica, nella Maremma toscana (dove anche Moreno, fino a pochi anni fa, andava).
Moreno Bassini, 30 anni dicevo, e una vita difficile la sua, irrequieta: lavori precari, canne, pomeriggi e serate trascorsi da un bar all’altro, o peggio con le macchinette mangiasoldi. Ore e ore a camminare per Vercelli, spesso con il suo cane, Toby, oppure chiuso nel suo appartamentino, magari ad ascoltare canzoni (la preferita era Per amore solo per amore mio, ho giocato sempre a strabiliare), o a leggere Quattroruote, perché aveva la «fissa» delle auto di cui era, in effetti, un grande intenditore, o Diabolik, il giornalino a cui è rimasto fedele negli anni, o La Sesia, il giornale «dove lavora mio fratello», diceva orgoglioso. A tutti.
Era una gran testa di cavolo Moreno, sofferente di una grave malattia: incapacità a vivere, lavorare, relazionarsi con gli altri, anche per via di una timidezza estrema. Fragile e sensibile, era con i cani, con i gatti e con i bambini che diventava un altro: il suo viso cambiava, era di una dolcezza infinita destinata poi a dissolversi, vivendo.
Nei suoi trent’anni ha anche avuto la fortuna di incontrare persone buone, a cui lui ha voluto bene e dalle quali è stato ricambiato: come Franco, Alessandro, Monica e altri. Con loro ha vissuto momenti felici, lo so.
Non credo, né mi risulta invece che qualcuno possa dire che fosse un ragazzo cattivo: aveva sempre bisogno di soldi, certo, ma se si ritrovava con un solo euro in tasca e se qualcuno quell’euro glielo avesse chiesto ebbene Moreno glielo avrebbe dato. Senza esitazione, con quel suo sorriso ingenuo, da perdente.
E aveva una grande dote: mai un pettegolezzo, una cattiveria o una volgarità gratuita, su nessuno; anzi, se sentiva «sparlare» lui guardava il vuoto, chiaramente a disagio.
Era strano, era infelice. Se n’è andato lasciando un grande rimpianto nelle persone che gli hanno voluto bene – e in me soprattutto -: che qualcosa in più, per lui, poteva essere fatto.
Era fiero di me, mentre io non lo ero di lui. A trent’anni, gli dicevo, non va bene che tu ti faccia ancora mantenere dai tuoi vecchi (che, disperati, hanno fatto di tutto per aiutarlo e hanno bussato, invano, a tante porte: forze dell’ordine, servizi socio-assistenziali).
A volte, discutendo con me, Moreno, faceva lo spaccone: Prima o poi ne combino qualcuna delle mie così poi devi scriverlo sul giornale e ti vergogni.
In effetti stavolta l’hai combinata davvero grossa Moreno, ma non mi vergogno di te, giuro che non mi vergogno. Riposa in pace, «fratello fragile».

I pensieri e il tempo

Elementari, medie e superiori fatte a fatica. Non sopportavo scuola e insegnanti. A 17 anni volevo smettere e arruolarmi in Marina.

Dopo il diploma, 7 anni di fabbrica, al settimo mi iscrivo a Lettere. E’ il 1982. Tutte le mattine vado a Torino in treno (sveglia alle 6,30), tutti i pomeriggi vado a lavorare in pullman in fabbrica a Prarolo (dalle 14 alle 22) che dista pochi chilometri da Vercelli.
Smetto di andare al cinema, dimentico gli amici, le cene di famiglia.
Dormo 4 ore, perché devo trovare il tempo per studiare.
Dai 20 ai 23 anni avevo sofferto di crisi epilettiche. I medici mi avevano detto che avrei dovuto dormire 8 ore e limitare le sostanze eccitanti. E invece: 4 ore di sonno, 30 sigarette a 10 caffè al giorno. E nessuna conseguenza (mai stato così bene).
Mai il tempo era comunque poco. Anche perché avevo una bimba piccola. La sera mi aspettava prima di andare a dormire, mezz’ora, un’ora stavo con lei. Poi mi mettevo a studiare finché non crollavo dal sonno.

Primo esame di Letteratura: 28. Secondo esame di Pisicologia, 30. Terzo esame di Storia romana, 30. Quarto esame di Geografia economica, 29.
(Prima degli esami la fabbrica mi concedeva tre giorni di permesso retribuito: tre giorni).

Non solo. Se non dovevo studiare leggevo come un ossesso. Feci indigestione di Freud e Dostoevskij. Leggevo tutti i giorni Repubblica, gli articoli di Beniamino Placido su letteratura e giornalismo li ricordo ancora adesso.

Cos’era successo? Perché a 26 anni riuscivo negli studi mentre prima i libri mi facevano vomitare o quasi?

Semplice: mentre aspettavo il treno, mentre ero sul treno, durante le pause in fabbrica, insomma quando mi era possibile ripassavo. Ripensavo, insomma, alle lezioni. E quel pensare, intenso, mi stimolava e mi conduceva verso altro. Verso i ricordi, per esempio. O i sogni. Ricordo che presi l’abitudine anche di riscrivere alcuni sogni fatti. Lo studio del Pascoli (con Stefano Jacomuzzi) mi portò ad acquistare e leggere vari libri di poesia: Rimbaud, Baudelaire, Pessoa, la Valduga (che mi fu consigliata da un’amica); in una bancarella vidi un libro di poesie di Bukowski, che non conoscevo. Lo sfogliai e lo comprai.

Dopo il primo anno pensai: se chiedo 6 mesi di aspettativa dalla fabbrica spacco il mondo. Macchè. Ottenni sei mesi e feci la metà di quanto fatto nei sei mesi precedenti lavorando e studiando. Il tempo insomma: bisogna saperci giocare.

PS A volte mi chiedono. Cos’hai provato quando hai pubblicato il primo libro (Mursia… mica Mondadori)? Oppure. Come ti sei sentito quando ti hanno nominato direttore del giornale La Sesia (giornale locale)? Rispondo pensando al giorno della mia laurea. Voluta fortemente, più di ogni altra cosa.