
Era l’autunno del 1991. Forse inverno. Ricordo bene l’anno: il 1991, quello della mia (sofferta) laurea in Lettere, a Torino. Volevo tornare a scrivere articoli, raccontare.
Raccolsi così l’invito di un dirigente del Pci, che avevo conosciuto quando lavoravo in fabbrica. Mi disse: vVieni con me, ti faccio vedere in che condizioni vivono gli ospiti e il personale del manicomio di Vercelli.
Andai, ne scrissi una pagina.
Conservo due ricordi. Il locale dove il barbiere tagliava capelli e faceva barbe. Lui, il barbiere, tossiva. Era attorniato da pazienti che fumavano in continuazione, una sigaretta dietro l’altra. Questi mi ammazzano, diceva.
Poi, il ricordo più toccante. Gli infermieri vollero che conoscessi una paziente, una donna di ottant’anni, forse più. Aveva sempre con sé una bambolina di pezza. Gli infermieri le volevano bene, le sorridevano. Mi dissero: “Chissà perché è finita qua. Ce l’hanno portata che era bambina… una volta succedeva.”
Una vita vissuta dentro il manicomio di Vercelli, con dolcezza però.
La foto che non dimentichi.