Inverno del 1983. Lavoravo in fabbrica, ma al contempo avevo ripreso a studiare.
Facoltà di Lettere, Palazzo Nuovo, Torino.
Frequentavo, prendevo il treno ogni mattina alle 7 e 30, forse 7,45, da Vercelli per Torino porta Susa (oggi ridisegnata, irriconoscibile), poi, alle 11 e 50 minuti, dopo le lezioni e gli autobus presi di corsa (numero 56 o 55 non importa, o tram numero 13) salivo sul treno da Porta Susa direzione Vercelli. E alle 14 meno cinque minuti, dopo una mozzarella e mezzo bicchiere di vino, timbravo mentre suonava la prima sirena della fabbrica (la multinazionale giapponese Ykk), turno 14-22.
A Palazzo nuovo seguivo i corsi di geografia economica (professoressa Sereno); storia romana (Cracco Ruggini), psicologia dinamica (Borgogno) e storia della letteratura italiana moderna e contemporanea con Stefano Jacomuzzi.
(A luglio diedi il primo esame: 28, proprio con Jacomuzzi.)
Tra gli altri, con lui, avevo studiato, e bene, Pascoli.
Mi piaceva la poesia Alexander, ma ancor di più Novembre che, va a sapere perché, memorizzai senza nemmeno rendermene conto.
Probabilmente la ripetevo mentre, dal finestrino del treno, guardavo la piana e la nebbia.
Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate
fredda, dei morti.