Non ti scordar di me (racconto)

Nel 2015 per la casa editrice Historica ho pubblicato “Buio assoluto”, una raccolta con quattro racconti neri. Ne ripropongo uno, “Non ti scordar di me” che ho rivisto e tagliato per il web, meglio: per questo blog.

Non ti scordar di me

Ha cominciato a nevicare, un distinto signore in là con gli anni e una giovane donna – sembrano una foto in bianco e nero – sono immobili e stanno guardando verso l’altro lato della strada. Parlano, senza guardarsi.
«Sono quasi trent’anni» mormora lui.
«Emozionato?»
Nessuna risposta. Come potrei non esserlo? Tu non sai…
«Vincenzo, per quanto tempo lavorò con mamma?».
«Tre anni e cinque mesi».
«Lei quella sera salvò il locale dalla fiamme e due giorni dopo scomparve. Mamma fece di tutto per rintracciarla, voleva ringraziarla, sdebitarsi… E invece non poté nemmeno versarle la liquidazione. Sa Vincenzo? Io e mia sorella pensiamo che se lei fosse rimasto mamma non avrebbe chiuso la Locanda. Ma perché scappò? Che fretta c’era?»
«Mi mancava il mare… Simona, mio nonno era un pescatore, mio padre un portuale. Solo a Genova mi sento veramente a casa».
«Qualche volta ha pensato di tornare qui, a Trino? Anche solo per un saluto a mamma…».
«Sì, ci ho pensato spesso».
No ragazza, non avrei potuto guardare in faccia tua madre…
«Non aveva nessun legame?»
«Qualche conoscenza, clienti che mi si erano affezionati. Con un paio di loro mi sento ancora, è da loro che ho saputo della morte della signora Lucilla. Ma mi dica Simona: perché sua madre chiuse la Locanda del vento?».
Forse per non litigare con tuo padre? Sarà vivo? Non m’importa, non te lo chiederò.
«Quello che accadde quella sera lasciò un segno su mamma. Senza dimenticare che lei scomparve senza…»
«Ha ragione: senza nemmeno un saluto. Non avrei dovuto».
Invece ero giustificato. Ragazza tu non sai, non puoi capire.
«Mamma sentiva l’esigenza di cambiare, di ricominciare. Comprò un pezzo di terra e ci fece costruire una serra, voleva vivere in mezzo ai fiori e ha vissuto tra i fiori finché la salute glielo ha concesso. Che dice, entriamo?»

Attraversano la strada. La giovane donna è carina ma trasandata, pallida, magra, troppo magra; l’uomo ha settantanove anni ma non sembra, ha un fisico asciutto e poche rughe sul volto affilato dove spiccano due occhi blu; e i capelli, ricci, brizzolati e forti, non sembrano i capelli di un vecchio.
Hanno attraversato, sono arrivati. Sopra le loro teste una volta c’era l’insegna della Locanda del vento. Mentre Simona armeggia con la serratura della porta del locale, Vincenzo, accendendosi una sigaretta, dice: «Ci tenevo a tornare un’ultima volta. Grazie Simona».
Ma si figuri… Vincenzo, ho un peso dentro…».
«Un peso? Perché?».
«Abbiamo deciso di vendere. Mamma non l’avrebbe mai fatto, ma mia sorella ha tre figli e ha perso il lavoro, io invece mi sono separata, devo trovare una casa più piccola».
«Capisco».
«Al posto della locanda costruiranno dei garage… entriamo» dice, ma fa un passo e poi si blocca. «Senta, mi perdona se la lascio solo? Se entro mi intristisco». Improvvisamente, si rannicchia e scoppia a piangere, appoggiando il viso al petto di lui. C’è gente che passa e li guarda, Vincenzo, dopo un attimo di smarrimento, si abbassa e avvicina le labbra sui capelli di lei. Sanno di neve.
«Mi scusi sa, ma per me è un momento davvero brutto, vorrei cancellare gli ultimi sei mesi della mia vita… mi scusi, non voglio angustiarla».
«Ma che dice, signorina?» sussurra dolcemente Vincenzo che, con delicatezza, prende tra le sue mani quelle di lei. Si sorridono. «Sopravviverò» sussurra lei. È da tanto… no, non è da tanto che le sue mani sono state accarezzate da un uomo, ma a lei sembrano così lontani quei giorni. Aveva ragione mamma, sta pensando ora, quando diceva che Vincenzo, oltre a essere bello, sembrava un nobile. Simona non sa, perché Lucilla non ha voluto che lo sapesse, che il portamento signorile di Vincenzo – dalla camminata da principe alla parlata con la erre francese – era anche la sua maledizione: tra una portata e l’altra la maldicenza l’aveva soprannominato “Maria la checca”.
Simona, adesso, è indecisa. Vorrebbe confidarsi, in fondo lui era l’uomo di fiducia di mamma. Vorrebbe raccontargli della donna, la giovane vicina di casa, che le ha portato via il marito. Quando ha ricevuto la sua telefonata, (« Non sapevo che sua mamma è mancata, mi spiace… Vorrei tanto rivedere per l’ultima volta la locanda»), si è commossa e ha pensato: Piangeremo insieme, io e Vincenzo. Aveva voglia di sfogarsi con qualcuno. Ora però ci ha ripensato. Quando lui se ne andrà sarò di nuovo sola.
«Facciamo così, lei entra, sta dentro tutto il tempo che vuole e io… vede là, il bar in fondo alla strada? L’aspetterò lì». Vincenzo annuisce, poi la guarda mentre si allontana camminando sulla neve che ora cade copiosa.
Meglio così. «Arrivo» mormora, pensando ai suoi fantasmi.

È entrato, ora, il vecchio Vincenzo Maria. Fa un passo, scrutando la semioscurità. Gli sembra d’intravedere sé stesso, tra i sette tavoli. Ci sono ancora, sette meno uno però: manca quello del professore, quello vicino all’uscita. Rivede Lucilla che cucina. A Simona, che ha otto anni, e all’altra sorella, Marta, che ne ha undici, bada una zia di Lucilla. Il marito fa il camionista ed è un tipo strano: non gli piace la Locanda, fa solo smorfie quando va a trovare la moglie.
Non mi ha mai rivolto la parola, cazzi suoi. Non eravate felici, non eravate una coppia. Mai un sorriso, uno sguardo di complicità.
Risente il rimbombare delle voci, ha un soffitto troppo basso il locale. È indeciso, Vincenzo, non sa se aprire una finestra oppure usare la torcia tascabile che si è portato appresso. All’incontro con la Locanda del vento non è arrivato impreparato. Cerca una sedia, erano di legno massiccio, forse di quercia, non le solite sedie sghembe di una delle tante osterie del vicino Monferrato.
Si accomoda sulla prima che trova. Ha preferito restare nella penombra: al buio si ricorda meglio.
«Ho venduto l’anima al professore» dice a voce alta. Vuole che le sue parole arrivino alle pareti macchiate d’umido e scrostate, alle travi in legno del soffitto, alla cucina, anche.
«Guidi, la prima volta che mettesti piede qui dentro pensai che eri matto. Ti feci accomodare al al tavolo numero sette, quello per le coppie. Cominciasti a dire che in quel tavolo potevano mangiarci tre persone. “È per due”, ti dissi, ma tu insistevi. “Basta stringersi, e due persone ci stanno”. Niente, la tua insistenza mi esasperava. Scappai in cucina, venni da te Lucilla. “Abbiamo un cliente matto, stasera”… Lucilla, avevamo un’intesa perfetta io e te e poi… la cucina era piccola e noi ci sfioravamo, e quando succedeva io non vedevo l’ora che succedesse ancora..».
Si blocca, guarda verso l’ingresso: no, Simona non è tornata. Ha avuto paura che fosse dietro di lui. Ha parlato troppo. Simona deve continuare a pensare che lui, ventonove anni fa, se ne andò per colpa del professor Guidi.

Non puoi certo raccontarle la storia di un bacio negato, ucciso…
Ripensa a quella sera, ora. Il professor era diventato un cliente fisso. Quella sera, quando erano rimasti soli, Lucilla si era messa a piangere come una bambina, e lui, invece di consolarla, chiederle, era andato oltre, stringendola forte e cercando di baciarla. «Che fai?». Nei giorni successivi calò il gelo. Solo parole di lavoro: «Una carbonara al tavolo sei», «Fritto misto al due».
Sembra un lamento, una nenia quello che ora esce dalla bocca di Vincenzo.
«Lucilla, ti spiavo quando andavi in bagno a cambiarti, e quando capitava avrei voluto sfondare la porta».
Povera checca, ti eri illuso che le lacrime di Lucilla, quella sera, fossero per te.
Ventinove anni fa. È la fine di ottobre del 1982. Vincenzo, col suo piccolo bloc notes, sta aspettando che il professor Guidi si decida a ordinare; continua a non piacergli questo nuovo cliente di mezza età, dal sorriso ebete, sudaticcio. Veste senza gusto: stasera ha un orribile completo marrone un po’ stazzonato, una camicia giallo canarino, niente cravatta.
Ogni tanto, torna sull’argomento. «Sono convinto che due persone, in questo tavolo, ci possano mangiare».
Sa bene che Vincenzo si limiterà ad ascoltarlo. «Cosa desidera? Ha visto il piatto del giorno?»
In genere mangia un risotto, verdura, beve due calici di vino, chiude con un caffè e del gelato alla crema. I clienti si sono abituati a vederlo arrivare e ad andare via con una bottiglia piena di acqua minerale. Sempre allo stesso tavolo. Il più piccolo, il sette, vicino all’uscita.
Ma quella sera di ottobre, mentre Vincenzo gli serve il caffè, il professore, poggiandogli una mano sul braccio, con una voce diversa, autorevole, gli dice: «Devo parlarle, ma da solo. Domani pomeriggio farò una camminata nel bosco, ha presente il bosco che qui a Trino chiamano della Partecipanza? Ci vediamo all’ingresso, magari un quarto alle cinque?».
«Se lo scordi» risponde secco Vincenzo. Sono i giorni del gelo tra lui e Lucilla, dopo il bacio negato. Il giorno appresso si presenta al parco, puntuale. Appena lo vede, il professore va subito al sodo. «Ho bisogno di un complice, ora le spiego».
E mentre spiegava, nella testa di Vincenzo rimbomba un mantra: Sei più matto di quanto pensassi, sei più matto di quanto pensassi…
Ma Vincenzo è arrabbiato con Lucilla. Rivede i suoi occhi, risente la sua voce. “Come osi?”. Fu “Maria la checca” a rispondere: «Ho capito. Ha detto che pagherà bene. Bene quanto?».
«Ci possiamo dare del tu?».
«Qui sì, ma non alla Locanda».
«Ho saputo che vorresti tornare a vivere dove c’è il tuo mare. Ti bastano i soldi per comprarti una
casa davanti al mare?».

Ilaria Belli, moglie del professor Giacomo Guidi, ma ex moglie secondo le sue ferme intenzioni, aveva giurato che dopo le patetiche minacce di suicidio, le telefonate notturne, le scenate in strada, non avrebbe più incontrato l’uomo con cui aveva vissuto diciannove anni, «fortunatamente senza avere figli». Durante l’ultimo incontro, in uno studio legale, lui aveva dato di matto, andando a sbattere con violenza la testa contro il muro.
Con Antonio, il suo compagno, un bel capitano dei carabinieri, da Torino si era trasferita, o meglio,
nascosta, a Sampeyre, tra i monti del cuneese.
Per un anno non lo aveva rivisto, ma una sera, al telefono, risente la sua voce. Ha voglia di urlare,
ma le manca il fiato.
«Ilaria, ti prego non riattaccare…».
Deve riattaccare, invece, chiamare Antonio, che tutti i giorni, per amore suo, fa avanti e indietro da Torino. Invece resta in ascolto, paralizzata dalla paura. E se lui fosse lì, a Sampeyre?
«Sai Ilaria, sono felice. Lo sono perché ho trovato la donna della mia vita e quindi io e te possiamo accordarci per separazione e divorzio».
Non lo stare ad ascoltare, metti giù e chiama Antonio.
«Ascolta Ilaria, tra pochi giorni io e Anna partiamo, quindi vorrei vederti, mettermi d’accordo con te, ascolta, mi stai ascoltando?».
Che tranello mi stai tendendo?
«Voglio rivederti, salutarti per l’ultima volta; e poi ci tengo a farti conoscere Anna, è una donna dolcissima, ha sofferto tanto in vita sua… Ilaria, io spero che anche tu voglia salvare i nostri giorni belli, ricordi quando marinavamo la scuola e andavamo al fiume? Ricordi Venditti? Cantavamo sempre “Ricordati di me…”».
A Ilaria viene da piangere: ha paura di lui e di se stessa.
Ho scelto Antonio perché Antonio a letto mi fa sentire una donna mentre Giacomo a letto era bravo solo a fare il buffone?
Brutta bestia il senso di colpa, e ancor più brutto il sentirsi sporca. Colpevole. Una sera, dopo aver fatto l’amore con Antonio, aveva aspettato che lui si addormentasse per raggiungere il computer e digitare “Giacomo Guidi, professore di matematica” su google.
Se ti uccidi, ho smesso di vivere…
Poi era diventato un rituale quel controllo sulla rete. Ogni giorno. Non se lo sarebbe mai perdonata. Geloso, possessivo, infantile, noioso, ma buono, buono come il pane. E lei lo aveva fatto soffrire. All’amor non si comanda, ma nemmeno al senso di colpa.
«Verrò, verrò da sola, promesso» gli dice.
Te lo devo.
Quando Antonio torna a casa litigano. Lei insiste: «Giacomo, stavolta è sincero. Voleva che parlassi con la sua fidanzata…»
«Ilaria, è un trucco della balle. Dai cinquanta euro alla prima mignotta un po’ sveglia e quella al telefono dice tutto quello che vuoi. Quand’è che vuole vederti?».
«Ci siamo accordati per domani».
«Ma certo, domani, così non ho il tempo per andare a Trino per fare le verifiche necessarie. E Trino non è proprio a due passi».
Alkla fine raggiungono un accordo: lei sarebbe andata da sola all’incontro in trattoria, lui l’avrebbe aspettata fuori, pronto a intervenire.

Ilaria mette piede per la prima e unica volta in vita sua alla Locanda del vento il giorno dopo, venerdì. La fanno accomodare in un tavolo piccolissimo, vicino all’uscita, apparecchiato per tre. Si sente stremata, ha voglia di fuggire. L’appuntamento è per le 8 in punto, ma alle 8 e 7 minuti Giacomo, un ansioso che non tarda mai, anzi, che arriva sempre in anticipo, non è ancora arrivato. «Le confido una cosa nella speranza che il professore non si arrabbi con me…» le sussurra il cameriere versandole dell’acqua.
«La signorina Anna è incinta, stanno facendo tardi, perché avevano appuntamento dal ginecologo».
Dio sia lodato, pensa Ilaria: allora è vero, Giacomo è rinato per davvero, ha un nuovo amore, diventerà padre, e lei, quindi, potrà smettere di avere paura di lui e di torturarsi coi sensi di colpa. Posso finalmente divorziare, sposarmi con Antonio.
Il professor Guidi arriva alle 8 e 12. Solo. Ilaria con uno scatto si alza.
«Se non vedo la tua nuova compagna me ne vado subito via» gli dice mentre lui si china ad appoggiare per terra la bottiglia di acqua minerale.
«Ilaria ti prego, io e la mia compagna aspettiamo un bambino e ginecologo ha consigliato ad Anna il riposo assoluto, del resto non è più una ragazzina, senti, che ne dici se mangiamo in fretta un boccone? Anch’io non vedo l’ora di rincasare».
«Non mi fido di te. Guarda che ho preso delle precauzioni».
«C’è anche il tuo nuovo amore, qui?» dice Guidi ma senza girarsi per osservare il resto della clientela.
«Giacomo, io voglio andarmene» dice ancora Ilaria.
«Ilaria, fermati, regalami solo pochi minuti… possiamo anche non cenare. Ti capisco sai? Ti prego: regalami sono due minuti, poi sparirò, credimi».
Ilaria decide di sedersi.
“Era calmo, mi convinse la sua calma; tremava solo un po’” dichiarerà Ilaria quando fu interrogata.
“E si ricorda cosa è successo in quei due minuti? L’ha visto che prendeva la bottiglia?”
“Sì, ma è tutto così confuso”
Infatti trema un po’ il professore Giacomo Guidi mentre, da sotto il tavolo, afferra la bottiglia di acqua minerale.
Succede tutto così in fretta. Svita il tappo, alza la bottiglia sopra la sua testa versandosi addosso tutto il contenuto; Ilaria sente che sta per succedere qualcosa, cosa sta combinando Giacomo che, ora, ha il viso e la camicia bagnati?
«La nostra canzone… “Ricordati di me”» dice canticchiando e regalandole, anche, un sorriso ancora. L’ultimo. Poi con la mano destra aziona un accendino e porta la fiammella sotto la gola. E diventa fuoco, fiamme, nervi che bruciano, urla di paura della gente che fugge.
Prima di svenire Ilaria fa in tempo a vedere il volto dell’uomo – amato e poi rifiutato – diventare fuoco.
Qualcuno chiamò i pompieri, ma fu inutile: il principio di incendio fu sedato da Vincenzo; prontamente puntò l’estintore verso la sedia, la tovaglia, la bottiglia di minerale piena di benzina, quel che restava del corpo del professore.
La Locanda era salva. Solo un tavolo per due persone era da buttare.
“Signor Vincenzi. Perché ha detto alla signora Ilaria che il professore aveva una fidanzata e che
questa fidanzata era incinta?”:
“Me lo aveva confidato lui, pensavo fosse vero”.
“E la storia delle visita ginecologica?”.
“Verso le 19 e 30 il professore ha telefonato alla Locanda, ho risposto io; mi disse che avrebbe tardato, appunto per la visita. Potete cointrollare i tabulati”.

«Lucilla, amore mio perdonami» sta dicendo Vincenzo. Ha sentito un rumore, dev’essere Simona. Non gli importa adesso. Che senta, che sappia: tutto.

Qualcuno scattò una foto, non me ne curai

Fotografie, pensieri in libertà.
Se dico fotografia ripenso alla kodak di mio padre e alle foto che scattava quando andavamo in ferie; ogni tanto – raramente – ne scattava qualcuna in casa.
E penso anche alle serate con i miei. La televisione la guardavamo al bar, tre volte alla settimana: giovedì, sabato, domenica. Le altre sere trascorse in casa le passavamo o a giocare a shangai, o a rubamazzetto oppure a sfogliare gli album con le foto scattate dal babbo…
Se penso alle foto non posso che ricordare mio fratello Fabrizio, che morì nel 1963. Lui aveva 10 mesi, io 6 anni. L’unica foto (ce l’ho davanti a me, appesa) gli fu scattatta da morto, con un vestitino bianco…
Non mi piace farmi fotografare, forse perché non so sorridere.

E comunque, ci sono due fotografie che vorrei avere, o su carta o digitali, ma che non avrò mai.
La prima. Mercoledì 26 giugno 1991, la mia laurea (a Lettere, Torino, in storia del Risorgimento con il professor Nada, presi 110). Quel giorno c’erano con me mia figlia (nata dal primo matrimonio) e mia sorella Silvia.
Pensavo di essere elegante, io. Un paio di pantaloni grigio perla, stiratissimi, una camicia con le righe azzurre, sottili sottili. Appena mi vide il professor Narciso Nada mi disse: «Ma anche oggi si è vestito da sessantottino?» (boh).
Dopo anni di studio e lavoro (fabbrica, portiere di notte, collaboratore de La Sesia) quella lauerea, sudata, rappresentava e rappresenta ancora tanto per me.
Ai fotografi (che in queste occasioni scattano le foto e poi ti chiedono se vuoi il servizio) dissi che no, non mi interessava nemmeno una foto ricordo.
E poi c’è un’altra foto che mi piacerebbe avere. Bologna, libreria Irnerio, sabato 26 febbraio 2011.
Luigi Bernardi (la persona a cui debbo di più in campo editoriale) presentò me e il mio Bastardo posto.
MI sarebbe piaciuto avere una foto con Luigi.
Qualcuno ne scattò, non me ne curai.

Cose che dico ai miei corsi di scrittura, nel primo incontro

Una traccia di quello che in genere dico quando tengo dei corsi di scrittura.

Possiamo scrivere tutti un libro e che cosa è il talento?
La mia risposta è: non lo so.
Serve un corso di scrittura? Almeno un po’ sì, può servire.
Nei miei corsi io racconto due cose. In un’intervista mi chiesero:; Dove nasce il talento di Remo Bassini? Risposi così: “Io credo che il talento di Primo Levi sia nato nei campi di concentramento, nel suo vissuto, insomma. Il mio potrebbe essere nato nei campi di concentramento che ho dentro”.
Nei miei corsi cito anche Edoardo De Filippo. Mentre teneva un corso per aspiranti attori fu intervistato dalla Rai. Disse: «Chi frequenta i miei corsi in genere mi chiede: qual è il segreto per diventare attori? E io gli rispondo: la risposta ce l’hai tu, dentro di te».
Penso sia la stessa cosa.
Chi vuole scrivere lo faccia, Mettendoci tutta la volontà che ha, e senza ascoltare i giudizi degli altri, soprattutto all’inizio.
I complimenti di parenti, amici, di blogger (nei blog si legge: Ma come scrivi bene? In genere chi lo scrive vuole essere ripagato da un analogo complimento) sono deleteri. Illudono.
Ma attenti anche alle stroncature.
Sulle stroncature faccio un esempio che mi riguarda.
Anni fa mandai un manoscritto a un piccolo editore, che stimo (anche perché legge i manoscritti).
La sua risposta fu per me un pugno nello stomaco. Non c’era nulla che gli piacesse di quel libro. Uno schifo, insomma.
All’incirca un anno dopo trovai un altro editore che me lo pubblicò, non solo: con quel libro vinsi addirittura un primo premio a un concorso letterario.
Allora, gli insegnamenti che si traggono da questa mia esperienza sono tre.
Uno. Non esistono giudizi infallibili. La storia dell’editoria è piena di bocciature illustri.
Due. Mai fidarsi, nel bene o nel male, di un solo giudizio. Cercatene, possibilmente di più persone che ritenete oneste intellettualmente
Tre. Torno a quella mia esperienza. Avevo già pubblicato undici libri (mi pare). Mi chiedo: Avessi ricevuto una risposta così tranciante quando inviai il primo manoscritto? Non ne sono certo, ma probabilmente avrei smesso di scrivere. O per sempre o per un bel po’.
I consigli, i pareri degli altri servono: il difficile è cercare quelli giusti.
E comunque, dico una cosa nota, trita e ritrita.
Chi vuole scrivere un libro deve esercitarsi quando può e deve soprattutto leggere, magari autori con stili diversi. Se ci si innamora di un solo autore si corre il rischio di scimmiottarlo.
Molti, quando dico che bisogna scrivere e leggere, mi rispondono che manca il tempo. Vero. Il tempo manca a tutti quelli che lavorano, che devo crescere figli, che hanno problemi vari.
Torno a me, alla mia esperienza di vita.
All’età di 26 anni mi iscrissi a Lettere. Lavoravo in fabbrica, avevo famiglia (oggi ho un figlio di 13 anni, allora avevo una figlia di 3 anni), avevo qualche problema di salute (e non era roba da poco).
Tutti i giorni la mia vita era questa: sveglia all’alba, corsa alla stazione per prendere il treno che da Vercelli mi avrebbe portato a Torino, autobus, due ore di lezione a Palazzo Nuovo (Torino), ancora autobus dalla facoltà alla stazione di Torino Porta Susa, quindi treno, quindi arrivo a Vercelli dove avevo il tempo per mangiare un boccone prima di iniziare il turno dalle 2 alle 10 (14-22). Poi ritorno a casa, caffettiera da tre, studio finché non crollavo. Ma ore notturne a parte, in quegli anni imparai che si può studiare (e quindi anche pensare, e quindi anche scrivere mentalmente) in tutte le pause che la vita ci concede. Anche pause piccolissime, di pochi minuti.
Ricordo di fabbrica. Mezz’ora di pausa mensa. Finito di mangiare, mancavano ancora 5, 10 minuti al fischio della sirena; e io tiravo fuori dalla mia tasca il libro di poesie di Pascoli su cui avrei dato il primo esame. Cinque minuti: quello che leggeva restava impresso.
Faccio così anche adesso: i miei libri li penso quando porto a spasso il cane, quando devo fare una coda, quando posso insomma. E se ho appresso un piccolo bloc notes per annotarmi cose che mi passano in mente tanto meglio.
Quando lavoravo e studiavo rinunciavo ad andare al cinema o a teatro (amo tantissimo andarci) o a passeggiate primaverili o quando arrivava la prima neve. Volevo laurearmi. Ora è la stessa cosa quando scrivo un libro. E non è facile facile, perché magari ci si sente in colpa con le persone che ci vivono accanto… Ma si tratta di scegliere e di volere.

Poi aggiungo questo. Non sono un vero docente di scrittura creativa. Ho rubato cose di qua e di là. Da Pontiggia, soprattutto. Poi da Flannery O’ Connor. Da Giulio Mozzi. Dalla mie esperienza.
Vi dico cose che ho imparato in vent’anni e che, se le avessi sapute, mi avrebbero fatto molto comodo quando iniziai a scrivere.

Certezze e un manoscritto

Mi piace la pioggia, ma non ho ombrelli per le certezze che son peggio della grandine.

Poi.
Senza voglia mi accingo a inviare (come ho sempre fatto) l’ultimo mio manoscritto (Il sentiero dei papaveri) a varie case editrici. Sapendo che…

Per esempio. Anni fa inviai un manoscritto a un piccolo editore. Nessuna risposta. Mesi dopo una traduttrice mi scrive: Se hai un manoscritto mandalo al tal editore, è in gamba; insomma, allo stesso. L’ho già fatto, risposi. Risposta poi del piccolo editore: scusa, mi era sfuggito, ma ne ricevo talmente tanti. Ora ti leggo.
Lesse, gli piacque, non ci accordammo.

Citazione del giorno.

siamo il silenzio dopo le parole

(anni fa, ascoltando la radio in auto, una frase di una canzone, mi pare fosse la Mannoia, ero distratto)

Il sentiero dei papaveri: bozza (notturna) della sinossi

Cortona. Stanotte alle 4 ho terminato la prima revisione del libro Il sentiero dei papaveri.
Prima di addormentarmi ho messo giù una bozza della sinossi.
Da rivedere, certo. Eccola (ripeto, una bozza).

Nella periferia violenta di una città senza nome c’è un locale, il Bar del Capitano.
Sembra un bar d’altri tempi, non c’è nemmeno la televisione.
Il protagonista (anche lui senza nome) ci mette piede il giorno di Carnevale. Il titolare, che tutti chiamano il Capitano, gli dice «Ti stavo aspettando.»
Poi gli dirà: «Sei uno scrittore.»
Il protagonista vorrebbe fuggire. Vive col padre, non lavora a causa degli attacchi di panico, e non vuol sentirsi chiamare scrittore: anni prima ha scritto un libro (solo 49 le copie vendute) ormai dimenticato.
Quello che non riesce a dimenticare è un giorno di pioggia, mai confidato a nessuno, un giorno che lo ha segnato; e invece, il giorno in cui entra nel bar rivive e racconta, come se fosse in trance, la sua storia segreta al Capitano.
Il Capitano gli dice: «Le pareti di questo bar sono fatte di storie belle e dolorose, come quella che mi hai raccontato tu…»
Per dieci mesi frequenterà quel bar (dove si fa il gioco dei nomi diversi: ognuno ha un nuovo nome), ascoltando storie incredibili, sembra che il bar le attragga, e rielaborando la sua storia segreta: mancavano delle pagine.
S’intrecciano storie, nei dieci mesi raccontati dal Sentiero dei papaveri, storie di dolore ma anche storie d’amore: come quella di Marina, vicina casa dello scrittore e cameriera del bar. È innamorata del protagonista, ma non è ricambiata. Non vuole legami, lui, gli basta Verena, una escort che accompagna in clinica, quando sta male. Giorno dopo giorno si sente sempre attratto da una frequentatrice del Bar, Rosa. Era un avvocatessa, ora vive tra gatti e galline, fuori città.
Nel romanzo non compaiono parole dell’epoca digitale. I personaggi non le citano. Sembra di essere negli anni 60 ma invece ci racconta i giorni nostri visti con gli occhi di chi cerca di vivere senza i nuovi feticci.
Ci sono semmai alcuni oggetti-simbolo di un mondo che sta scomparendo. Una vecchia sveglia, una radiolina transistor, una macchina da scrivere, penne stilografiche.
Il protagonista dice: «… la parola rete per me ha un significato preciso: trappola. E il navigatore è colui che naviga, non l’aggeggio che sta impedendo alla gente di usare la piccola bussola che avevano nel cervello.»
Ha qualcosa di magico il Bar del Capitano? Così parrebbe. Il Capitano ha visioni, pratica la meditazione, ha ricevuto insegnamenti da un prete strano, quasi un eretico: il Piccolo Prete.
Un giorno nel Bar entra la violenza. Non solo. Il Capitano e i suoi amici vengono interrogati, accusati d’essere una setta.
Sono colpevoli perché sognano di costruire nuove città. «L’inquinamento peggiore non si vede, arriva nella testa della gente e non fa fumi né puzza, ma pervade tutto, ed è potente.»
I Capitano dovrà fuggire, è il suo destino, da sempre. Prima di andarsene, allo scrittore-cantore racconterà la propria “storia spuntata”, tra ospizi ed elettroshock. E gli lascerà un compito: «Dovrai raccontare le storie della nostra storia».

Una breve spiegazione sul libro.
Per la storia di un gruppo di persone che decide di vivere in un proprio mondo mi sono ispirato alle spiegazioni sulla rivoluzione digitale di uno psicanalista, Emilio Mordini.
Nel personaggio del Piccole Prete c’è un po’ di don Luisito Bianchi, scrittore che ho avuto la fortuna di conoscere, unico sacerdote che rifiutò lo stipendio del sostentamento del clero, e c’è un po’ di un salesiano della mia città, don Piero Borelli. Entrambi non ci sono più, entrambi non ebbero una vita facile con le rispettive gerarchie. Nel Piccolo Prete c’è anche un terzo sacerdote, un “ricostruttore” insegnante di filosofia, che tenne un corso sulla meditazione anni e anni fa. Purtroppo non ricordo il suo nome.
Nella vicenda di Luca (una delle storie che il mio protagonista racconta) c’è il mistero del figlio dell’esploratore Augusto Franzoj. Un mistero non ancora svelato. Era figlio di Franzoj, ma non della donna con cui viveva il padre. Fu lui a trovare il corpo del padre, morto suicida, ma poi scomparve nel nulla.
La storia del Capitano, una sorta di messia o di Che Guevara, ci sono analogie con la biografia della poetessa Mariella Mehr.
La storia delle due città. Una ricorda la città anabattista di Munster, che fu distrutta da Cattolici e Protestanti, l’altra Kronstadt, che si ribellò, e per questo fu distrutta, quando vide che il sogno comunista era destinato a restare solo un sogno.
E poi ci sono tanti riferimento ai miei vecchi libri. Dal bar delle voci rubate a Bastardo posto. Ma la storia è una storia tutta nuova. Con elementi autobiografici, disseminati in qualche pagine e in personaggi diversi.
Il personaggio principale è uno scrittore che ha pubblicato un solo libro e che non sa se continuerà a farlo.
Lo farà, scrivendo Il sentiero dei papaveri.