Paolo Roversi, con il romanzo L’innocenza dell’iguana, Maria Rosaria Selo, con Pucundria, e il sottoscritto, con il noir Bastardo posto, a Incontri D’autore, trasmissione condotta da Alessandra Rauti. La mia intervista, di circa 5 minuti, è dal minuto 10,55 fino alla fine
Bastardo posto, la cui ristampa uscirà il 31 gennaio 2025, ha una sua storia. E tre copertine, che spiego. Copertina 1, il libro mai uscito. Non ricordo il giorno preciso, l’anno era il 2009. Con la Newton Compton avevo già pubblicato La donna che parlava con i morti (4000 copie di tiratura, più ristampa di 1500; ora ristampato da Golem). La casa editrice nella pubblicazione che fa per il suo quarantennale, annuncia l’uscita di Bastardo posto. Dopo l’editing e la definizione della copertina, ecco il gran giorno, o meglio quello che doveva essere il gran giorno: la stampa del libro. Ricevo però una mail. Meglio rinviare. Incasso il colpo dico: va bene… oddio, avevo anchje prenotato uno spazio al salone del libro, e la scrittrice Laura Costantini, che avrebbe dovuto presentarmi, aveva già prenotato e pagato il biglietto aereo. Comunque, dopo altri mesi di attesa, vedo che la Newton prende ancora tempo. Ci accordiamo per la restituzione del manoscritto. Copertina 2, quella del libro che pubblicò Perdisa Pop nel 2010. Era andata così. Quando la Newton mi aveva firmato la liberatoria, avevo inviato il manoscritto a sei, sette editori. Il primo a rispondermi fu Luigi Bernardi, creatore della collana Perdisa Pop. Due giorni dopo mi arriva la proposta di pubblicazione da parte di un editore medio-piccolo, ma comunque più grande di Perdisa. Rispondo che pubblicherò con Luigi Bernardi. Forse fu un errore (uno dei miei tanti errori), forse no: perché ebbi la fortuna di trovare in Luigi un maestro e un amico. Copertina 3, quella realizzata da Golem per il libro che uscirà il 25 gennaio. La foto della copertina nasce da un altra foto, della bravissima fotografa Marina Magri. Un autoscatto. Avrei voluto che fosse la foto della copertina del mio primo libro (Dicono di Clelia, con Mursia), ma non feci in tempo a farla passare in casa editrice. Avrei voluto insomma per copertina la schiena dell’amica blogger, e soprattutto bravissima fotografa, Marina Magri. Dicevo: il libro esce con Golem. C’è stato un altro editore che mesi fa si è fatto avanti, ma anche in questo caso ho risposto che Golem, e la sua ad Francesca Piazza (con la quale collaboro), vengono prima.
Anni fa, in un’intervista dichiarai che per me scrivere è come respirare. Non è più così. E non sento la mancanza – o forse un po’ sì – della scrittura. I motivi per cui non sta scrivendo? Credo siano essenzialmente due. Durante il periodo del Covid provai un forte disagio per il clima di odio che si respirava. Di notte guardavo giornali di altri paesi. Rammento che feci un confronto: tra giornali italiani, dove in ogni pagina trovavi improperi contro i no vax, e quelli spagnoli, che la parola no vax non la citavano nemmeno. Comunque durante il primo o secondo lockdown scrissi La suora. Una sera camminando col cane ricordo che mi domandai: dove vorresti essere ora? Chiusi gli occhi e… mi sorpresi. Invece di vedere il mio paese, Cortona, vidi il lago d’Orta. Tornai a casa e scrissi così il primo capitolo de La suora. Il protagonista vive solo, in una baita in Valsesia: era quello che sognano, credo. Lontano dalla pazza folla.
Secondo motivo. Da qualche anno vedo pochissima gente. Anni fa, quando facxevo il giornalista, invece ne incontravo. Poi la sera andavo nella solita birreria (di un paese vicino) dove leggevo, oppure correggevo bozze, ma ogni tanto mi concedevo delle pause e con qualcuno parlavo. Oggi passo le mie giornale chiuso nel mio studio. Poca, pochissima attività giornalistica. Evuto gli inviti a incontri, tavole rotonde eccetera. Porto in giro il cane due volte al giorno, vado a trovare il mio vecchio, leggo parecchio, faccio degli editing, valuto degli inediti per la casa editrice Golem e aspetto il fine settimana quando mio figlio (15 anni a gennaio) gioca a basket. Lo porto pure agli allenamenti, ma sto in disparte, per conto mio. Anni fa dicevo che per scrivere occorrono due cose: leggere tanto, leggere la vita. Ecco, mi sa che non sto più leggendo la vita. Del resto l’ho scritto nell’ultimo libro scritto, due anni fa, Il sentiero dei papaveri. Meglio il silenzio – è questo il senso del libro – al rumore dei social. Che frequento, sempre meno.
A gennaio, comunque esce un mio libro, ma è una ristampa: Bastardo posto. Magari domani ne parlo. E buone cose a chipassa di qui.
La porta Georges Simenon Traduzione di Laura Frausin Guarino Adelphi Milano 2024 Pag. 142 euro 18
Parigi, intorno a place des Vosges. Luglio 1959. Il 42enne Bernard Foy vive da venti anni con la moglie 38enne Nelly in un appartamento al quarto piano di rue de Tourenne (III), all’angolo di rue des Minimes. Nel 1940 gli furono amputate entrambe le mani; era di pattuglia in un bosco tra la linea Maginot e la linea Siegfried; strisciava nella neve quando pare abbia toccato una mina, subito esplosa; si è risvegliato in un ospedale militare, già operato. Prima lavorava come meccanico in un garage delle Halles, durante il servizio militare a Épinal aveva conosciuto Nelly, che faceva la giovanissima maschera in un cinema; si erano sposati a inizio 1939 e stabiliti lì, a due passi dal place des Vosges (fra III e IV Arroindessement), dove lui era nato e dove sua madre, a quell’epoca, faceva ancora la portinaia (IV); Nelly aveva smesso di lavorare. Dopo il trauma è stata dura, col tempo hanno individuato le protesi artigianali adatte (da togliere ogni sera); lui si è vista riconosciuta una modesta stabile pensione da invalido di guerra; lei ha intrapreso la vita di magazziniera presso la ditta Delangle&Abouet in place des Vistoires (tra I e II), la più importante passamaneria di Francia, da poco pure promossa caporeparto. Bernard passa le giornate a osservare gli altri dalla finestra (spia ogni movimento), ad ascoltare i rumori (suo malgrado) dei vicini e della strada, a fare spesa e cucinare. Pensa di non essere più un vero uomo ed è convinto che lei possa e debba aver bisogno di altri (in certo modo giustamente). Si amano, fanno sesso volentieri e spesso, si confidano. Eppure, il tarlo ossessivo agisce sia in lui che, indirettamente, in lei, prodromo di tragedie forse, soprattutto da quando al primo piano si è trasferito il giovane fratello della collega, un illustratore poliomielitico su sedia a rotelle, ogni giorno assistito da un’infermiera. Nelly deve fargli commissioni, si ferma là per qualche minuto.
Il romanzo è molto bello. Di Simenon sappiamo quasi tutto (1903 – 1989, origine bretone, belga di nascita, francese d’adozione, non solo parigino d’elezione, quasi trecento romanzi, uno degli autori più letti al mondo) e la grande casa editrice milanese Adelphi sta ottimamente progressivamente garantendo la pubblicazione integrale dei suoi scritti. Questa lunga ansiogena novella originariamente del 1962, né noir né rosa, ma certo di ineluttabile amore, era inedita in italiano. La porta del titolo è quella brutta, con un colore spento e il pomolo di maiolica bianca, dell’allegro sereno 28enne vignettista Pierre Mazeron, il fratello dell’invadente opportunista Giséle, trasferitosi al primo piano dell’edificio in cui vivono marito e moglie. Probabilmente è noto quante volte vi è entrata attraverso Nelly, ma conta soprattutto quante volte Bernard avrebbe voluto aprirla! La narrazione è in terza fissa al passato su di lui, pur se i protagonisti sono anche la moglie, leale e semplice, sempre più bella e ormai pure un poco rotondetta, e soprattutto la dinamica di coppia che (come spesso accade) assume vita propria. Sullo sfondo i due medici (uno diabetico) che si interessano al caso clinico e umano, donne e uomini vicini e dirimpettai, negozianti e clienti delle botteghe consuete. L’ambiente è perlopiù quello dell’appartamento in cui la coppia abita e delle passeggiate che fanno insieme a braccetto (più o meno) per le strade della città; i dialoghi sono i loro, il detto e il non detto, significativo tanto quel che si esprime quanto quel che si pensa; la relazione si è adattata ed è evoluta in forme affettuose per due decenni; ora lui vive una crisi di gelosia, è contrariato e ossessionato, pensa alla morte; lei era una donna “vissuta” quando si sono conosciuti e non può che prenderne atto via via, a proprio modo. Una qualche garbata tragedia incombe, anche se l’autore è bravissimo a rendere plausibili molti finali dalle stesse premesse. Vario ordinario vino accompagna spesso i pasti. Si ballano le canzoni d’epoca, talora in giro e in piazza, difficile non entusiasmarsi.
Vi racconto una storia divertente. Vera. Accaduta nella piccola redazione di un piccolo giornale di una piccola città. Una storia che starebbe bene in un film di Pupi Avati. Io l’ho raccontata in un mio libro (Il bar delle voci rubate), cambiando però il luogo… del fattaccio. Non un giornale ma una piccola ditta. Protagonista uguale però: una segretaria neo assunta. La storia è questa.
C’è una festicciola stasera al giornale. La nuova segretaria, appena assunta, per ringraziare il direttore e i colleghi (giornalisti, grafici, altra segretaria) ha chiesto il permesso di poter festeggiare. Permesso accordato. Alle 17 il giornale si ferma per mezz’ora. La nuova segretaria ha fatto la cose in grande: una decina di bottiglie e due grandi vassoi di paste, del miglior pasticciere della città. Che è bravo ma caro. Non ha badato a spese, insomma. «Siamo solo in quindici, non cinquanta» le dice il direttore durante il brindisi alle 17 in punto. Poi pacche sulla spalle, sorrisi e pasticcini a go-go. Alle 17,30 stop, si riprende a lavorare. Dei due vassoi di paste ne è rimasto uno solo, sul grande tavolo della tipografia, dove insomma stanno i grafici. Verso le 20 la segretaria ha finito di lavorare. Prima di rincasare le viene voglia di mangiare un pasticcino: prima ha parlato e riso tanto, ma mangiato poco. Ed erano davvero buoni quei dolci. Va così in tipografia, ma il vassoio di pasticcini è scomparso. Chissà dove lo avranno messo, si domanda la ragazza, ma non osa chiedere e va a casa. L’indomani mattina, percorrendo la strada che da casa sua porta al giornale, incontra la moglie di un giornalista, che le dice: «Sei stata gentilissima, ieri sera i miei figli hanno mangiato i tuoi pasticcini. Grazie del regalo…». «Di nulla dice». (Giorni dopo, però, confida l’accaduto al sottoscritto…)
Svegliarsi oppure prima di addormentarsi, non importa. Importa essere davanti a una finestra o meglio un terrazzino con davanti il mare o un lago o una montagna o qualche albero dove perdersi con lo sguardo e con la mente che va, solitaria e leggera.
Facebook propone ricordi di cose scritte anni fa. Il 22 agosto del 2015 scrivevo…
Le storie che non si riescono a cogliere. Tre quattro settimane fa, vado a trovare i miei vecchi. Sono di fretta, come al solito. Mi parlano di un parente alla lontana, mai conosciuto, si è ucciso per amore, dicono. Ascolto, ma la mia testa è lontana. Poi la storia arriva. E’ arrivata, poche ore fa (sono a Cortona). Quel tuo parente alla lontana? Hai saputo? Biascico un: Mah, sì, ho sentito i miei che lo dicevano. Ora ascolto, la mia testa c’è. I funerali si sono svolti nella stessa chiesa in cui avrebbe dovuto sposarsi. Ha chiesto così, lo ha lasciato per iscritto. Il giorno dopo lui e il suo fratello gemello avrebbero compiuto quarant’anni. Il mondo gli era franato addosso. Aveva già comprato l’abito per il matrimonio, scelto la chiesa. Quando però aveva saputo che lei aveva un altro, non avevaq retto. E si era impiccato in bottega. M’han detto che la chiesa era gremita. In questa chiesa avrebbe dovuto sposarsi, diceva la gente durante la cerimonia. Un po’ come Michè di De Andrè.
Nel buio Miché se n’è andata dal mondo perché ti restasse il ricordo del bene profondo che aveva per te…
Ringrazio mio cugina Sara per avermi permesso d’essere più preciso; lei c’era a salutarlo per l’ultima volta
Una richiesta di risarcimento superiore a 300mila euro, di una primaria che (dirigevo il giornale La Sesia) mi aveva querelato per diffamazione. Per anni, avanti e indietro davanti ai giudici. Al mio fianco alcuni medici, alcuni dipendenti asl, alcuni parenti di pazienti e, appunto, alcuni pazienti… così per cinque anni, finché arrivarono le assoluzioni, primo e secondo grado. i pazienti dicevo. Una di loro non la dimenticherò mai. Nonostante la chemio e gli attacchi di panico venne a testimoniare per me. Alla fine dell’udienza in cui fu sentita mi disse: Finché sarò viva sarò sempre al suo fianco. Il 10 agosto 2009, sono in Puglia. Mi arriva la telefonata di un medico amico. Anna è volata via. Ogni 10 agosto guardo il cielo e la saluto. Ciao Anna, e grazie
Due cose due. Mi sono legato alla casa editrice Golem, come scrittore: dopo Forse non morirò di giovedì,La suorae Il sentiero dei papaveri, quest’anno verrà ripubblicata, ma solo in ebook, La donna che parlava con i morti e, a gennaio 2025 verrà ripubblicato il libro a cui più tengo, Bastardo posto. Non solo. Faccio parte dello staff della casa editrice di Francesca Piazza, che è l’azionista di maggioranza, come consulente editoriale: leggo manoscritti che vengono inviati all’editore, faccio qualche editing e… poi si vedrà. Ho pubblicato con editori grandi, come Fanucci e Newton Compton, editori di prestigio, come Fernandel e Perdisa, editori amici, come I buoni cugini. Ho deciso di legarmi a Golem perché mi trovo bene con Francesca Piazza e Fabrizio Falchero (azionista che non compare nello staff, ma c’è) e con le collaboratrici di Francesca Piazza come Sofia Ragusa; mi sto trovando bene così come mi trovavo bene quando pubblicavo con Perdisa Pop e con Luigi Bernardi. Lo sfaff di Golem.
Poi. Ho trovato due appunti che ho scritto per la prima presentazione de Il Sentiero dei papaveri: Li copio e incollo.
E’ per me il libro più difficile da presentare. Penso non sia giusto spiegarlo, ho letto recensioni, pareri e mail he dicono cose diverse sul Sentiero dei papaveri. Io di questo libro posso e voglio dire una sola cosa: che parla della memoria della mia vita e della memoria della vita di generazioni vicine alla mia. Dopo la rivoluzione agraria e la rivoluzione industriale stiamo vivendo questa, la rivoluzione digitale… ecco non voglio dare giudizi, semmai Il sentiero dei papaveri è un invito alla riflessione.
Ci sono due pagine che, a mio avviso, spiegano un po’ questo discorso sulla memoria. La prima e l’ultima. Nella prima pagina c’è un gesto, nell’ultima pagina una frase. Prima pagina, diciamo ai giorni nostri: il protagonista apre la finestra per vedere che tempo fa. C’è stato un tempo in cui lo facevo… non voglio dire se quel tempo fosse migliore o peggiore dell’attuale, voglio solo ricordare che fa parte della mia vita e della vita di tanti di noi. La domanda che mi pongo è: ce lo vogliamo ricordare? Nell’ultima pagina c’è una frase, ma non è ai giorni nostri, è una frase che, così ho ipotizzato, possa essere pronunciata tra una ventina d’anni. La frase è questa: … più nessuno sa, oggi, che cosa sia un camino.