La (mia) suora ha poteri magici. Piccoli, ma li ha. Il libro, uscito a dicembre 2021, ogni tanto si ribella all’oblio. Stamattina: 112° posto nella classifica investigatori privati (ebook, Amazon). In classifica generale, invece, è al 7289° posto. Il cartaceo, invece, è fermo da oltre un mese: 282,534.
Una ribellione, s’intende, da poco. La suora in un mese si è ribellata tre volte. Traduzione: tre persone hanno acquistato l’ebook. E presto la classifica scenderà (più alto è il numero più scendi… dalle stelle).
Buffo, no? che uno faccia un post per tre ebook acquistati? Ma – tanto per restare su suore e dintorni – è quanto passa il convento.
(e comunque ti vien da pensare: hai dedicato mesi e mesi a qualcosa che negli ultimi 30 giorni ha vendute tre copie tre e prima non lo sai, ma di sicuro non hai fatto favile… eppure insisti…)
L’attore e regista pirandelliano, Giovanni Mongiano, legge (nel video solo un breve spezzone) il primo capitolo de La suora durante la presentazione a Crescentino (Vercelli), un paio di settimane fa.
Io credo che le migliori presentazioni siano quelle con delle letture brevi del libro. Chessò, cinque minuti di lettura e poi cinque minuti di riflessioni dell’autore, moltiplicato per tre fa mezzora. La restante mezzora va via per la presentazione iniziale, le domande finali. Quella di Crescentino mi è piaciuta, perché a parlare è stato il libro (ho sempre pensato che parlare in pubblico per parlare bene di sé o del proprio libro non sia una gran cosa…).
Cose da fare. 1. Manoscritto “Il sentiero dei papaveri”. L’ho inviato a destra e manca. Nel frattempo devo riscriverlo. In genere un mio manoscritto lo rivedo sei sette volte. 2. Ho due racconti da parte, fatti e finiti. Ne ho in mente altri due. Devo scriverli prima che scappino via della mente. 3. Finire l’editing dei racconti che sono stati fatti durante l’ultimo corso di scrittura che ho tenuto (gratuitamente). 4: Mettere a posto gli appunti dell’ultimo corso di scrittura e poi inviarli ai singoli partecipanti. 5. Preparare un corso di giornalismo che terrà tra breve. 6. Terminare di leggere tre libri iniziati (e magari scrivere delle recensioni sul blog che ho sul Fatto). 7. Aumentare le ore lontano dal mac. E poi….
Dal momento che l’altro ieri sera, portando a spasso il cane, ho perso il cellulare, cosicché la giornata di ieri l’ho passata tra carabinieri (per la denuncia), Vodafone (nuovo telefono e nuova sim mantenendo il numero vecchio), aggiornamento delle applicazioni (che odio), ecco, ho pensato che per evitare che accada di nuovo il sistema migliore sia quello di lasciarlo a casa il più spesso possibile, il cellulare. Un modo di vivere alternativo, in cui parlo nel libro “Il sentiero dei papaveri”.
Alcune pagine di Bastardo posto (Perdisa Pop, 2010)
Tutti i mesi tremila dollari versati nella banca della sua città, Auburn. Jenny controlla on line, ma che i soldi siano stati versati glielo conferma sua madre, via telefono, dagli Stati Uniti. Quelli, se e quando riuscirà a tornare a casa, ci sono. Poi altri mille euro ogni mese, ma non ne ha ancora visto uno. Tuddia le ha detto che la pagherà, può fidarsi, deve fidarsi, e poi Jenny, badante informatica, non ha bisogno di niente: le portano tutto, dalla biancheria intima alle sigarette. Roba di marca, certo. Ha solo sette euro e qualche centesimo, lei, ora, racimolati di nascosto e con paura nei giorni brutti da incubo, in Puglia.
Quell’uomo, che la paga così bene, e che bada a non farle mancare niente, le fa paura. I primi tempi no, i primi tempi Jenny si sentiva riconoscente. L’aveva tolta dalla strada, le aveva offerto un lavoro. Meglio pulire la merda a un vecchio in stato comatoso che prostituirsi e prendere botte e, negli scampoli di tempo, perché lei era stata così scema da dire che era un’esperta, effettuare operazioni on line per una banda di delinquenti di varie nazionalità, che trafficavano in droga e donne da una masseria nel Salento. La ragazza americana, ma di origine italiana, era una hacker. «Ma adesso è una bella zoccola di lusso, la guardi, la guardi signor Tuddia». La prima volta che l’aveva visto, a lei era stato chiesto, ordinato, di fare la cameriera. Quella sera d’agosto non l’avrebbero portata nell’appartamento di Gallipoli dove, solitamente, riceveva depravati che doveva accontentare, altrimenti erano calci e pugni. Le avevano detto che lei, con quel signore, doveva dimostrasi gentile, pronta a tutto. Cercò di studiarlo, guardandolo di sottecchi. Era un tavolo da sei. Un albanese, due americani poi tre italiani, due li conosceva bene Jenny, il terzo, Filippo Tuddia, era una novità. Gli americani erano nuovi della banda, Jenny aveva solo intuito che prima avevano lavorato nei paesi arabi. Droga, sicuramente droga. Lei sapeva, e gli italo–albanesi sapevano che lei sapeva, dal momento che a volte le chiedevano di tradurre mail, fare l’interprete. Non quella sera; quella sera c’era Tuddia che traduceva dall’americano all’italiano e viceversa, mentre cenavano.
Quando il capobanda albanese, rivolgendosi a Tuddia, l’aveva indicata definendola una hacker, Jenny si era accorta che quell’uomo alto ed elegante che prima non l’aveva degnata di uno sguardo, cominciava a squadrarla con attenzione. Fissandola con uno sguardo freddo, lontano. “Da depravato”, pensò Jenny. Dopo aver servito i caffè, ipotizzò che quella sera avrebbe dovuto prostituirsi con l’unico che sorseggiava senza far rumore, Tuddia insomma. Finito di bere il caffè, il capo albanese, alzandosi imitato dagli altri, le disse che il signor Filippo Tuddia aveva qualcosa da dirle. Appena furono soli, e lui le fece cenno di sedersi, Jenny fece finta di non capire l’invito. Con un movimento brusco, Tuddia, indicandole una sedia, le disse: «Dimmi di te. Raccontami la tua storia, voglio portarti via, farti lavorare». Si sedette, Jenny, stupita. «Sono esperta di informatica, l’ho studiata all’università della mia città, Auburn, lei signor Tuddia è pratico della contea di New York?…». Il mattino successivo, all’alba, salendo nell’auto di Tuddia – si accomodò dietro con lui perché Tuddia aveva un autista –, Jenny si sentiva strana. Certo, quell’uomo le aveva proposto di fare la badante a suo padre, sette giorni su sette per sei mesi, poi lui, parola di Filippo Tuddia, l’avrebbe pagata e le avrebbe regalato il biglietto aereo per tornare a casa, ma quell’uomo era anche amico delle bestie che avevano costretto lei e altre disgraziate come lei a prostituirsi. Non poteva, non riusciva a credere che la sua vita stesse cambiando così, grazie a un incontro. Ma quando lei, salita in macchina, disse, implorando, che avrebbe voluto tanto telefonare a sua madre che non sentiva da mesi, e quando vide che quell’uomo le porgeva il telefono, lei, dopo aver chiamato sua madre – «Sto bene mamma, ti voglio bene, non piangere mamma, poi ti spiegherò» –, si sentì riconoscente e pronta a soddisfare qualsiasi richiesta anche stravagante di quell’uomo. Cercò perfino, dentro la macchina, di ringraziarlo e, con lacrime di gratitudine, di abbracciarlo, perché la masseria e Gallipoli si stavano allontanando per sempre, ma dovette fermarsi Jenny, perché Tuddia, con fermezza e con garbo, le ordinò di stare seduta al suo posto. Fu un viaggio di diverse ore e di silenzi. Un paio di fermate, per la benzina e per andare in bagno. Prima di arrivare Tuddia le spiegò meglio: avrebbe dovuto lavorare per lui ventiquattro ore su ventiquattro, come badante e come informatica. Non aveva scelta, Jenny. Ma era contenta: niente più botte, niente più prostituzione. Pensò che sua madre avrebbe preferito così.
Su don Luisito Bianchi, ancora. La prima volta che lo vidi, mentre stavamo mangiando (volle assaggiare la panissa vercellese), gli dissi, scherzosamente: Quando parli di Dio mi fai pensare che esita per davvero. Non ebbe nessuna reazione a quella battuta da due soldi. Mi diede l’impressione di essere diventato pensieroso, era colpa, mi domandai, di quelle mie parole?
Anni dopo, siamo a Trino Vercellese, abbiamo presentato un suo libro (I miei amici. Diari) e abbiamo cenato, anche. Mi fa compagnia mentre fumo il mezzo toscano parlandomi della sua vita e di Dio. «Ho vissuto per lui… spero sia tutto vero.»
Sono due gli scrittori con cui ho avuto uno scambio epistolare intenso: Luisito Bianchi e Luigi Bernardi. Entrambi non ci sono più. Ma mentre di Luigi custodisco le mail , le lettere che mi scrisse don Luisito le ho perse (con altre a cui tenevo: è la mia specialità perdere cose a cui tengo). Ci scrivevamo usando la penna stilografica. Leggendo questo vecchio articolo (marzo 2006) capirete perché.
A voler scrivere di don Luisito Bianchi si rischia: di andar fuori strada, di non riuscire a spiegare chi sia veramente questo scrittore, classe 1927, prete anche e soprattutto: perché in primo luogo, nel parlare di di lui, occorre spiegare, o perlomeno provarci, che intende lui per questa parola, “prete”.
«Ma tu come hai fatto ad arrivare fino a me?» mi domanda. E’ dicembre, io don Luisito e altre due persone parliamo del più e del meno in una pizzeria: ancora mezz’ora e poi – siamo in una città della Padania – ci sarà una presentazione dei suoi libri Sironi. Sul Blog di Giulio Mozzi – gli rispondo – lessi che la Sironi stava per pubblicare “La messa dell’uomo disarmato”. Il passa-parola è partito da lì. Mi ascolta incuriosito, anche un po’ divertito. Ti faccio ridere, vorrei dirgli, ma con affetto: come fai a non restare colpito da quest’omino che, con orgoglio, ti indica le sue scarpe e, con orgoglio, dice «Sono del 1968, me le regalò padre Escarré». Sembrano nuove. In realtà sono solo curate con amore, tutti i giorni «Purtroppo la chiesa, noi preti e le suore, abbiamo perso l’abitudine alla manualità…», dice. Ecco dove voleva arrivare don Luisito: che io abbia letto qualcosa su un blog è affare mio; che io e buona parte dell’umanità siamo ormai schiavi della posta elettronica e di internet a lui interessa relativamente: perché lui continuerà a passare con il panno, tutti i giorni, le scarpe che furono di padre Escarré, portandole, quando suola e tacco sono consunti, dal calzolaio. E continuerà, don Luisito, a scrivere con carta e penna (stilografica) i suoi libri.
Scocca l’ora della presentazione. Una bella sala, la libraia con le pile de “La Messa dell’uomo disarmato” e “Come un atomo sulla bilancia”, cinquanta persone circa. Nessun sacerdote, nessun monsignore. Non commenta don Luisto: se l’aspettava. Parliamo dei suoi libri. Quando racconta, spiega, ha gli occhi socchiusi, concentrato come stesse pregando. La gratuità è il punto centrale dell’esistenza di don Luisito ed è, al contempo, l’essenza del messaggio dei suoi libri. Don Luisito non ha voluto mai percepire stipendi per predicare il Vangelo: Mi sono mantenuto, sull’esempio di san Paolo.Per un prete la gratuità assoluta è un obiettivo irrinunciabile. E non parlo del denaro offerto per la Messa, che ai miei occhi era sterco offerto al clero, ma dell’importanza di provvedere da soli al proprio sostentamento. «Quando Gesù Cristo si è fatto uccidere in croce non l’ha fatto in cambio di uno stipendio… e quando i giovani partigiani andavano a combattere e a morire l’hanno fatto con gratuità…. io non li ho seguiti, non andai a combattere e mi spiace… ma cosa credete, un prete è anche un uomo e non è indifferente alla bellezza della donna: ecco, il mio primo atto come prete, la prima gratuità, fu rinunciare a questo….».
Nel 2015 per la casa editrice Historica ho pubblicato “Buio assoluto”, una raccolta con quattro racconti neri. Ne ripropongo uno, “Non ti scordar di me” che ho rivisto e tagliato per il web, meglio: per questo blog.
Non ti scordar di me
Ha cominciato a nevicare, un distinto signore in là con gli anni e una giovane donna – sembrano una foto in bianco e nero – sono immobili e stanno guardando verso l’altro lato della strada. Parlano, senza guardarsi. «Sono quasi trent’anni» mormora lui. «Emozionato?» Nessuna risposta. Come potrei non esserlo? Tu non sai… «Vincenzo, per quanto tempo lavorò con mamma?». «Tre anni e cinque mesi». «Lei quella sera salvò il locale dalla fiamme e due giorni dopo scomparve. Mamma fece di tutto per rintracciarla, voleva ringraziarla, sdebitarsi… E invece non poté nemmeno versarle la liquidazione. Sa Vincenzo? Io e mia sorella pensiamo che se lei fosse rimasto mamma non avrebbe chiuso la Locanda. Ma perché scappò? Che fretta c’era?» «Mi mancava il mare… Simona, mio nonno era un pescatore, mio padre un portuale. Solo a Genova mi sento veramente a casa». «Qualche volta ha pensato di tornare qui, a Trino? Anche solo per un saluto a mamma…». «Sì, ci ho pensato spesso». No ragazza, non avrei potuto guardare in faccia tua madre… «Non aveva nessun legame?» «Qualche conoscenza, clienti che mi si erano affezionati. Con un paio di loro mi sento ancora, è da loro che ho saputo della morte della signora Lucilla. Ma mi dica Simona: perché sua madre chiuse la Locanda del vento?». Forse per non litigare con tuo padre? Sarà vivo? Non m’importa, non te lo chiederò. «Quello che accadde quella sera lasciò un segno su mamma. Senza dimenticare che lei scomparve senza…» «Ha ragione: senza nemmeno un saluto. Non avrei dovuto». Invece ero giustificato. Ragazza tu non sai, non puoi capire. «Mamma sentiva l’esigenza di cambiare, di ricominciare. Comprò un pezzo di terra e ci fece costruire una serra, voleva vivere in mezzo ai fiori e ha vissuto tra i fiori finché la salute glielo ha concesso. Che dice, entriamo?»
Attraversano la strada. La giovane donna è carina ma trasandata, pallida, magra, troppo magra; l’uomo ha settantanove anni ma non sembra, ha un fisico asciutto e poche rughe sul volto affilato dove spiccano due occhi blu; e i capelli, ricci, brizzolati e forti, non sembrano i capelli di un vecchio. Hanno attraversato, sono arrivati. Sopra le loro teste una volta c’era l’insegna della Locanda del vento. Mentre Simona armeggia con la serratura della porta del locale, Vincenzo, accendendosi una sigaretta, dice: «Ci tenevo a tornare un’ultima volta. Grazie Simona». Ma si figuri… Vincenzo, ho un peso dentro…». «Un peso? Perché?». «Abbiamo deciso di vendere. Mamma non l’avrebbe mai fatto, ma mia sorella ha tre figli e ha perso il lavoro, io invece mi sono separata, devo trovare una casa più piccola». «Capisco». «Al posto della locanda costruiranno dei garage… entriamo» dice, ma fa un passo e poi si blocca. «Senta, mi perdona se la lascio solo? Se entro mi intristisco». Improvvisamente, si rannicchia e scoppia a piangere, appoggiando il viso al petto di lui. C’è gente che passa e li guarda, Vincenzo, dopo un attimo di smarrimento, si abbassa e avvicina le labbra sui capelli di lei. Sanno di neve. «Mi scusi sa, ma per me è un momento davvero brutto, vorrei cancellare gli ultimi sei mesi della mia vita… mi scusi, non voglio angustiarla». «Ma che dice, signorina?» sussurra dolcemente Vincenzo che, con delicatezza, prende tra le sue mani quelle di lei. Si sorridono. «Sopravviverò» sussurra lei. È da tanto… no, non è da tanto che le sue mani sono state accarezzate da un uomo, ma a lei sembrano così lontani quei giorni. Aveva ragione mamma, sta pensando ora, quando diceva che Vincenzo, oltre a essere bello, sembrava un nobile. Simona non sa, perché Lucilla non ha voluto che lo sapesse, che il portamento signorile di Vincenzo – dalla camminata da principe alla parlata con la erre francese – era anche la sua maledizione: tra una portata e l’altra la maldicenza l’aveva soprannominato “Maria la checca”. Simona, adesso, è indecisa. Vorrebbe confidarsi, in fondo lui era l’uomo di fiducia di mamma. Vorrebbe raccontargli della donna, la giovane vicina di casa, che le ha portato via il marito. Quando ha ricevuto la sua telefonata, (« Non sapevo che sua mamma è mancata, mi spiace… Vorrei tanto rivedere per l’ultima volta la locanda»), si è commossa e ha pensato: Piangeremo insieme, io e Vincenzo. Aveva voglia di sfogarsi con qualcuno. Ora però ci ha ripensato. Quando lui se ne andrà sarò di nuovo sola. «Facciamo così, lei entra, sta dentro tutto il tempo che vuole e io… vede là, il bar in fondo alla strada? L’aspetterò lì». Vincenzo annuisce, poi la guarda mentre si allontana camminando sulla neve che ora cade copiosa. Meglio così. «Arrivo» mormora, pensando ai suoi fantasmi.
È entrato, ora, il vecchio Vincenzo Maria. Fa un passo, scrutando la semioscurità. Gli sembra d’intravedere sé stesso, tra i sette tavoli. Ci sono ancora, sette meno uno però: manca quello del professore, quello vicino all’uscita. Rivede Lucilla che cucina. A Simona, che ha otto anni, e all’altra sorella, Marta, che ne ha undici, bada una zia di Lucilla. Il marito fa il camionista ed è un tipo strano: non gli piace la Locanda, fa solo smorfie quando va a trovare la moglie. Non mi ha mai rivolto la parola, cazzi suoi. Non eravate felici, non eravate una coppia. Mai un sorriso, uno sguardo di complicità. Risente il rimbombare delle voci, ha un soffitto troppo basso il locale. È indeciso, Vincenzo, non sa se aprire una finestra oppure usare la torcia tascabile che si è portato appresso. All’incontro con la Locanda del vento non è arrivato impreparato. Cerca una sedia, erano di legno massiccio, forse di quercia, non le solite sedie sghembe di una delle tante osterie del vicino Monferrato. Si accomoda sulla prima che trova. Ha preferito restare nella penombra: al buio si ricorda meglio. «Ho venduto l’anima al professore» dice a voce alta. Vuole che le sue parole arrivino alle pareti macchiate d’umido e scrostate, alle travi in legno del soffitto, alla cucina, anche. «Guidi, la prima volta che mettesti piede qui dentro pensai che eri matto. Ti feci accomodare al al tavolo numero sette, quello per le coppie. Cominciasti a dire che in quel tavolo potevano mangiarci tre persone. “È per due”, ti dissi, ma tu insistevi. “Basta stringersi, e due persone ci stanno”. Niente, la tua insistenza mi esasperava. Scappai in cucina, venni da te Lucilla. “Abbiamo un cliente matto, stasera”… Lucilla, avevamo un’intesa perfetta io e te e poi… la cucina era piccola e noi ci sfioravamo, e quando succedeva io non vedevo l’ora che succedesse ancora..». Si blocca, guarda verso l’ingresso: no, Simona non è tornata. Ha avuto paura che fosse dietro di lui. Ha parlato troppo. Simona deve continuare a pensare che lui, ventonove anni fa, se ne andò per colpa del professor Guidi.
Non puoi certo raccontarle la storia di un bacio negato, ucciso… Ripensa a quella sera, ora. Il professor era diventato un cliente fisso. Quella sera, quando erano rimasti soli, Lucilla si era messa a piangere come una bambina, e lui, invece di consolarla, chiederle, era andato oltre, stringendola forte e cercando di baciarla. «Che fai?». Nei giorni successivi calò il gelo. Solo parole di lavoro: «Una carbonara al tavolo sei», «Fritto misto al due». Sembra un lamento, una nenia quello che ora esce dalla bocca di Vincenzo. «Lucilla, ti spiavo quando andavi in bagno a cambiarti, e quando capitava avrei voluto sfondare la porta». Povera checca, ti eri illuso che le lacrime di Lucilla, quella sera, fossero per te. Ventinove anni fa. È la fine di ottobre del 1982. Vincenzo, col suo piccolo bloc notes, sta aspettando che il professor Guidi si decida a ordinare; continua a non piacergli questo nuovo cliente di mezza età, dal sorriso ebete, sudaticcio. Veste senza gusto: stasera ha un orribile completo marrone un po’ stazzonato, una camicia giallo canarino, niente cravatta. Ogni tanto, torna sull’argomento. «Sono convinto che due persone, in questo tavolo, ci possano mangiare». Sa bene che Vincenzo si limiterà ad ascoltarlo. «Cosa desidera? Ha visto il piatto del giorno?» In genere mangia un risotto, verdura, beve due calici di vino, chiude con un caffè e del gelato alla crema. I clienti si sono abituati a vederlo arrivare e ad andare via con una bottiglia piena di acqua minerale. Sempre allo stesso tavolo. Il più piccolo, il sette, vicino all’uscita. Ma quella sera di ottobre, mentre Vincenzo gli serve il caffè, il professore, poggiandogli una mano sul braccio, con una voce diversa, autorevole, gli dice: «Devo parlarle, ma da solo. Domani pomeriggio farò una camminata nel bosco, ha presente il bosco che qui a Trino chiamano della Partecipanza? Ci vediamo all’ingresso, magari un quarto alle cinque?». «Se lo scordi» risponde secco Vincenzo. Sono i giorni del gelo tra lui e Lucilla, dopo il bacio negato. Il giorno appresso si presenta al parco, puntuale. Appena lo vede, il professore va subito al sodo. «Ho bisogno di un complice, ora le spiego». E mentre spiegava, nella testa di Vincenzo rimbomba un mantra: Sei più matto di quanto pensassi, sei più matto di quanto pensassi… Ma Vincenzo è arrabbiato con Lucilla. Rivede i suoi occhi, risente la sua voce. “Come osi?”. Fu “Maria la checca” a rispondere: «Ho capito. Ha detto che pagherà bene. Bene quanto?». «Ci possiamo dare del tu?». «Qui sì, ma non alla Locanda». «Ho saputo che vorresti tornare a vivere dove c’è il tuo mare. Ti bastano i soldi per comprarti una casa davanti al mare?».
Ilaria Belli, moglie del professor Giacomo Guidi, ma ex moglie secondo le sue ferme intenzioni, aveva giurato che dopo le patetiche minacce di suicidio, le telefonate notturne, le scenate in strada, non avrebbe più incontrato l’uomo con cui aveva vissuto diciannove anni, «fortunatamente senza avere figli». Durante l’ultimo incontro, in uno studio legale, lui aveva dato di matto, andando a sbattere con violenza la testa contro il muro. Con Antonio, il suo compagno, un bel capitano dei carabinieri, da Torino si era trasferita, o meglio, nascosta, a Sampeyre, tra i monti del cuneese. Per un anno non lo aveva rivisto, ma una sera, al telefono, risente la sua voce. Ha voglia di urlare, ma le manca il fiato. «Ilaria, ti prego non riattaccare…». Deve riattaccare, invece, chiamare Antonio, che tutti i giorni, per amore suo, fa avanti e indietro da Torino. Invece resta in ascolto, paralizzata dalla paura. E se lui fosse lì, a Sampeyre? «Sai Ilaria, sono felice. Lo sono perché ho trovato la donna della mia vita e quindi io e te possiamo accordarci per separazione e divorzio». Non lo stare ad ascoltare, metti giù e chiama Antonio. «Ascolta Ilaria, tra pochi giorni io e Anna partiamo, quindi vorrei vederti, mettermi d’accordo con te, ascolta, mi stai ascoltando?». Che tranello mi stai tendendo? «Voglio rivederti, salutarti per l’ultima volta; e poi ci tengo a farti conoscere Anna, è una donna dolcissima, ha sofferto tanto in vita sua… Ilaria, io spero che anche tu voglia salvare i nostri giorni belli, ricordi quando marinavamo la scuola e andavamo al fiume? Ricordi Venditti? Cantavamo sempre “Ricordati di me…”». A Ilaria viene da piangere: ha paura di lui e di se stessa. Ho scelto Antonio perché Antonio a letto mi fa sentire una donna mentre Giacomo a letto era bravo solo a fare il buffone? Brutta bestia il senso di colpa, e ancor più brutto il sentirsi sporca. Colpevole. Una sera, dopo aver fatto l’amore con Antonio, aveva aspettato che lui si addormentasse per raggiungere il computer e digitare “Giacomo Guidi, professore di matematica” su google. Se ti uccidi, ho smesso di vivere… Poi era diventato un rituale quel controllo sulla rete. Ogni giorno. Non se lo sarebbe mai perdonata. Geloso, possessivo, infantile, noioso, ma buono, buono come il pane. E lei lo aveva fatto soffrire. All’amor non si comanda, ma nemmeno al senso di colpa. «Verrò, verrò da sola, promesso» gli dice. Te lo devo. Quando Antonio torna a casa litigano. Lei insiste: «Giacomo, stavolta è sincero. Voleva che parlassi con la sua fidanzata…» «Ilaria, è un trucco della balle. Dai cinquanta euro alla prima mignotta un po’ sveglia e quella al telefono dice tutto quello che vuoi. Quand’è che vuole vederti?». «Ci siamo accordati per domani». «Ma certo, domani, così non ho il tempo per andare a Trino per fare le verifiche necessarie. E Trino non è proprio a due passi». Alkla fine raggiungono un accordo: lei sarebbe andata da sola all’incontro in trattoria, lui l’avrebbe aspettata fuori, pronto a intervenire.
Ilaria mette piede per la prima e unica volta in vita sua alla Locanda del vento il giorno dopo, venerdì. La fanno accomodare in un tavolo piccolissimo, vicino all’uscita, apparecchiato per tre. Si sente stremata, ha voglia di fuggire. L’appuntamento è per le 8 in punto, ma alle 8 e 7 minuti Giacomo, un ansioso che non tarda mai, anzi, che arriva sempre in anticipo, non è ancora arrivato. «Le confido una cosa nella speranza che il professore non si arrabbi con me…» le sussurra il cameriere versandole dell’acqua. «La signorina Anna è incinta, stanno facendo tardi, perché avevano appuntamento dal ginecologo». Dio sia lodato, pensa Ilaria: allora è vero, Giacomo è rinato per davvero, ha un nuovo amore, diventerà padre, e lei, quindi, potrà smettere di avere paura di lui e di torturarsi coi sensi di colpa. Posso finalmente divorziare, sposarmi con Antonio. Il professor Guidi arriva alle 8 e 12. Solo. Ilaria con uno scatto si alza. «Se non vedo la tua nuova compagna me ne vado subito via» gli dice mentre lui si china ad appoggiare per terra la bottiglia di acqua minerale. «Ilaria ti prego, io e la mia compagna aspettiamo un bambino e ginecologo ha consigliato ad Anna il riposo assoluto, del resto non è più una ragazzina, senti, che ne dici se mangiamo in fretta un boccone? Anch’io non vedo l’ora di rincasare». «Non mi fido di te. Guarda che ho preso delle precauzioni». «C’è anche il tuo nuovo amore, qui?» dice Guidi ma senza girarsi per osservare il resto della clientela. «Giacomo, io voglio andarmene» dice ancora Ilaria. «Ilaria, fermati, regalami solo pochi minuti… possiamo anche non cenare. Ti capisco sai? Ti prego: regalami sono due minuti, poi sparirò, credimi». Ilaria decide di sedersi. “Era calmo, mi convinse la sua calma; tremava solo un po’” dichiarerà Ilaria quando fu interrogata. “E si ricorda cosa è successo in quei due minuti? L’ha visto che prendeva la bottiglia?” “Sì, ma è tutto così confuso” Infatti trema un po’ il professore Giacomo Guidi mentre, da sotto il tavolo, afferra la bottiglia di acqua minerale. Succede tutto così in fretta. Svita il tappo, alza la bottiglia sopra la sua testa versandosi addosso tutto il contenuto; Ilaria sente che sta per succedere qualcosa, cosa sta combinando Giacomo che, ora, ha il viso e la camicia bagnati? «La nostra canzone… “Ricordati di me”» dice canticchiando e regalandole, anche, un sorriso ancora. L’ultimo. Poi con la mano destra aziona un accendino e porta la fiammella sotto la gola. E diventa fuoco, fiamme, nervi che bruciano, urla di paura della gente che fugge. Prima di svenire Ilaria fa in tempo a vedere il volto dell’uomo – amato e poi rifiutato – diventare fuoco. Qualcuno chiamò i pompieri, ma fu inutile: il principio di incendio fu sedato da Vincenzo; prontamente puntò l’estintore verso la sedia, la tovaglia, la bottiglia di minerale piena di benzina, quel che restava del corpo del professore. La Locanda era salva. Solo un tavolo per due persone era da buttare. “Signor Vincenzi. Perché ha detto alla signora Ilaria che il professore aveva una fidanzata e che questa fidanzata era incinta?”: “Me lo aveva confidato lui, pensavo fosse vero”. “E la storia delle visita ginecologica?”. “Verso le 19 e 30 il professore ha telefonato alla Locanda, ho risposto io; mi disse che avrebbe tardato, appunto per la visita. Potete cointrollare i tabulati”.
«Lucilla, amore mio perdonami» sta dicendo Vincenzo. Ha sentito un rumore, dev’essere Simona. Non gli importa adesso. Che senta, che sappia: tutto.
Fotografie, pensieri in libertà. Se dico fotografia ripenso alla kodak di mio padre e alle foto che scattava quando andavamo in ferie; ogni tanto – raramente – ne scattava qualcuna in casa. E penso anche alle serate con i miei. La televisione la guardavamo al bar, tre volte alla settimana: giovedì, sabato, domenica. Le altre sere trascorse in casa le passavamo o a giocare a shangai, o a rubamazzetto oppure a sfogliare gli album con le foto scattate dal babbo… Se penso alle foto non posso che ricordare mio fratello Fabrizio, che morì nel 1963. Lui aveva 10 mesi, io 6 anni. L’unica foto (ce l’ho davanti a me, appesa) gli fu scattatta da morto, con un vestitino bianco… Non mi piace farmi fotografare, forse perché non so sorridere.
E comunque, ci sono due fotografie che vorrei avere, o su carta o digitali, ma che non avrò mai. La prima. Mercoledì 26 giugno 1991, la mia laurea (a Lettere, Torino, in storia del Risorgimento con il professor Nada, presi 110). Quel giorno c’erano con me mia figlia (nata dal primo matrimonio) e mia sorella Silvia. Pensavo di essere elegante, io. Un paio di pantaloni grigio perla, stiratissimi, una camicia con le righe azzurre, sottili sottili. Appena mi vide il professor Narciso Nada mi disse: «Ma anche oggi si è vestito da sessantottino?» (boh). Dopo anni di studio e lavoro (fabbrica, portiere di notte, collaboratore de La Sesia) quella lauerea, sudata, rappresentava e rappresenta ancora tanto per me. Ai fotografi (che in queste occasioni scattano le foto e poi ti chiedono se vuoi il servizio) dissi che no, non mi interessava nemmeno una foto ricordo. E poi c’è un’altra foto che mi piacerebbe avere. Bologna, libreria Irnerio, sabato 26 febbraio 2011. Luigi Bernardi (la persona a cui debbo di più in campo editoriale) presentò me e il mio Bastardo posto. MI sarebbe piaciuto avere una foto con Luigi. Qualcuno ne scattò, non me ne curai.
Una traccia di quello che in genere dico quando tengo dei corsi di scrittura.
Possiamo scrivere tutti un libro e che cosa è il talento? La mia risposta è: non lo so. Serve un corso di scrittura? Almeno un po’ sì, può servire. Nei miei corsi io racconto due cose. In un’intervista mi chiesero:; Dove nasce il talento di Remo Bassini? Risposi così: “Io credo che il talento di Primo Levi sia nato nei campi di concentramento, nel suo vissuto, insomma. Il mio potrebbe essere nato nei campi di concentramento che ho dentro”. Nei miei corsi cito anche Edoardo De Filippo. Mentre teneva un corso per aspiranti attori fu intervistato dalla Rai. Disse: «Chi frequenta i miei corsi in genere mi chiede: qual è il segreto per diventare attori? E io gli rispondo: la risposta ce l’hai tu, dentro di te». Penso sia la stessa cosa. Chi vuole scrivere lo faccia, Mettendoci tutta la volontà che ha, e senza ascoltare i giudizi degli altri, soprattutto all’inizio. I complimenti di parenti, amici, di blogger (nei blog si legge: Ma come scrivi bene? In genere chi lo scrive vuole essere ripagato da un analogo complimento) sono deleteri. Illudono. Ma attenti anche alle stroncature. Sulle stroncature faccio un esempio che mi riguarda. Anni fa mandai un manoscritto a un piccolo editore, che stimo (anche perché legge i manoscritti). La sua risposta fu per me un pugno nello stomaco. Non c’era nulla che gli piacesse di quel libro. Uno schifo, insomma. All’incirca un anno dopo trovai un altro editore che me lo pubblicò, non solo: con quel libro vinsi addirittura un primo premio a un concorso letterario. Allora, gli insegnamenti che si traggono da questa mia esperienza sono tre. Uno. Non esistono giudizi infallibili. La storia dell’editoria è piena di bocciature illustri. Due. Mai fidarsi, nel bene o nel male, di un solo giudizio. Cercatene, possibilmente di più persone che ritenete oneste intellettualmente Tre. Torno a quella mia esperienza. Avevo già pubblicato undici libri (mi pare). Mi chiedo: Avessi ricevuto una risposta così tranciante quando inviai il primo manoscritto? Non ne sono certo, ma probabilmente avrei smesso di scrivere. O per sempre o per un bel po’. I consigli, i pareri degli altri servono: il difficile è cercare quelli giusti. E comunque, dico una cosa nota, trita e ritrita. Chi vuole scrivere un libro deve esercitarsi quando può e deve soprattutto leggere, magari autori con stili diversi. Se ci si innamora di un solo autore si corre il rischio di scimmiottarlo. Molti, quando dico che bisogna scrivere e leggere, mi rispondono che manca il tempo. Vero. Il tempo manca a tutti quelli che lavorano, che devo crescere figli, che hanno problemi vari. Torno a me, alla mia esperienza di vita. All’età di 26 anni mi iscrissi a Lettere. Lavoravo in fabbrica, avevo famiglia (oggi ho un figlio di 13 anni, allora avevo una figlia di 3 anni), avevo qualche problema di salute (e non era roba da poco). Tutti i giorni la mia vita era questa: sveglia all’alba, corsa alla stazione per prendere il treno che da Vercelli mi avrebbe portato a Torino, autobus, due ore di lezione a Palazzo Nuovo (Torino), ancora autobus dalla facoltà alla stazione di Torino Porta Susa, quindi treno, quindi arrivo a Vercelli dove avevo il tempo per mangiare un boccone prima di iniziare il turno dalle 2 alle 10 (14-22). Poi ritorno a casa, caffettiera da tre, studio finché non crollavo. Ma ore notturne a parte, in quegli anni imparai che si può studiare (e quindi anche pensare, e quindi anche scrivere mentalmente) in tutte le pause che la vita ci concede. Anche pause piccolissime, di pochi minuti. Ricordo di fabbrica. Mezz’ora di pausa mensa. Finito di mangiare, mancavano ancora 5, 10 minuti al fischio della sirena; e io tiravo fuori dalla mia tasca il libro di poesie di Pascoli su cui avrei dato il primo esame. Cinque minuti: quello che leggeva restava impresso. Faccio così anche adesso: i miei libri li penso quando porto a spasso il cane, quando devo fare una coda, quando posso insomma. E se ho appresso un piccolo bloc notes per annotarmi cose che mi passano in mente tanto meglio. Quando lavoravo e studiavo rinunciavo ad andare al cinema o a teatro (amo tantissimo andarci) o a passeggiate primaverili o quando arrivava la prima neve. Volevo laurearmi. Ora è la stessa cosa quando scrivo un libro. E non è facile facile, perché magari ci si sente in colpa con le persone che ci vivono accanto… Ma si tratta di scegliere e di volere.
Poi aggiungo questo. Non sono un vero docente di scrittura creativa. Ho rubato cose di qua e di là. Da Pontiggia, soprattutto. Poi da Flannery O’ Connor. Da Giulio Mozzi. Dalla mie esperienza. Vi dico cose che ho imparato in vent’anni e che, se le avessi sapute, mi avrebbero fatto molto comodo quando iniziai a scrivere.