Una stanchezza, violenta e smisurata di esistere

Essere poeta non è la mia ambizione.
E’ la mia memoria di stare solo.

La solitudine di Pessoa, nei suoi aforismi (quelli chelti da Tabucchi ne “Il poeta è un fingitore”), è la solitudine di altri, penso a Fenoglio, penso alla Wolf, e mi viene in mente una fotografia di Morselli, oppure ripenso ai manoscritti di Achille Giovanni Cagna, quando si sentiva uno scrittore incompreso. Son mille gli esempi, “I mali oscuri”.

Una solitudine voluta, cercata, sentite (leggete) qua, Pessoa:
Ho sempre rifiutato di essere compreso. Essere compreso significa prostituirsi.

E ancora:
Guardo da lontano la vita,
senza mai interrogarla.

Disincanto, fuga dal ballo in maschera della vita?
(La solutidine del poeta, però, può essere la solitudine di tanti: quando Pessoa scrive
Sei solo. Nessuno lo sa. Taci e fingi
non eccede, forse, in una sorta di autocommiserazione?, che tocca tante altre persone che non si sfogano, poi, con un pezzo di carta).

Forse il poeta, il fingitore, è solo colui che sa trovare le parole giuste
Una stanchezza, violenta e smisurata
di esistere…

Ma che nella propria arte trova consolazione:
Essere la stessa cosa in tutti i modi possibili, allo stesso tempo.

La vita e la morte, sempre, a braccetto: c’è quasi un’ansia di morte, nella vita del poeta (forse poco poetico, qui):
Se ti vuoi ammazzare, perché non ti vuoi ammazzare?

L’impennata consolatoria, però, un lampo che illumina:
Solo l’arte è utile. Fedi, eserciti, imperi, atteggiamenti: tutto passa. Solo l’arte resta, per questo l’arte si vede: perché dura.

La solitudine del poeta, dell’artista, o di chi di poesia e di arte si nutre, quindi, è una solitudine meno “dolorosa”?
Siediti al sole. Abdica
e sii re di te stesso.

Un re comunque sempre solo.
La celebrità è un plebeismo. Perciò deve ferire un’anima delicata…

Dice via, Pessoa, dal chiasso. Già.