Il cancello si richiuse alle nostre spalle.
C’era il sole e avevo deciso di portarlo al mare. Percepivo il suo corpo accanto al mio liberare un’allegria. Non se l’aspettava, né di vedermi né di lasciare, per un giorno, l’istituto. La mattina, per me, si era schiusa su una nostalgia: la nostra infanzia, il mare, i giochi su piccole spiagge solitarie, scelte accuratamente per celare mio fratello al mondo e il mondo a lui.
Con una breve passeggiata raggiungemmo la stazione, mentre l’istituto, dietro di noi, rimpiccioliva sull’aguzzo del monte. La piccola stazione era bianca di calce e la luce irradiava dai muri rivelando le crepe e l’incuria. Un grosso ramarro, dal ventre palpitante, si stagliava sotto il cartello degli arrivi e delle partenze, assorbendo il calore di quel giorno. Eccetto noi, non c’era nessuno.
Tra poco arriva il treno, gli dissi e lui, orfano di voce, nel suo silenzio di sempre, alzò la testa come a cercarne traccia.
Lo sentimmo avvicinarsi, rassicurante nel suo placido clangore, possente corpo di balena che ci avrebbe condotto al mare. Mio fratello portò le mani alle orecchie, e un gemito gli salì aspro alla gola durante il tempo della stridula frenata, come se quel rumore avesse la molestia di una spinta. Lo presi per mano e lo aiutai a salire sul predellino. Si muoveva goffo, un orso in equilibrio su due zampe. Occupammo i primi posti, quelli accanto al finestrino lungo il corridoio del vagone ancora vuoto. Si sarebbe riempito, forse, più avanti, durante il tragitto, prendendo a bordo altri che, come noi, scendevano al mare.
Mio fratello guardava fuori il susseguirsi dei castagni e dei sambuchi, i ciuffi di robinie e di vitalbe, le piccole case che affioravano nel verde. D’improvviso si alzò e allargò le braccia di fronte al finestrino. Dondolò il corpo: era il desiderio di un abbraccio ed io lo abbracciai.
C’erano, tra di noi, anni tessuti di una segreta comprensione. Da bambini dormivamo insieme. Una sensibilità, che in lui tutto illuminava, sentiva la mia paura e gli guidava la mano a stringere la mia fino a quando non scivolavo nel sonno. Accadeva, allora, che la notte divenisse una culla e la stanza una pancia buia. Sognavo i sogni di mio fratello. Non so dire come avvenisse, ma nel sogno che lui sognava si rivelava il mondo. Io ero testimone della sua visione, l’unico che conoscesse la giustezza del suo cuore che non sapeva trovare alloggio nella lingua degli uomini.
Era il primogenito, atteso nel desiderio di una completezza e nato, invece, nel segno della mancanza. Mio padre e mia madre vissero la sua nascita come un lutto, ma il tempo li abituò all’imperfezione dell’amore. In seguito, con me, ebbero fortuna e il secondo figlio nacque assommando in uno quello che avrebbe dovuto essere spartito.
Sentimmo il treno rallentare e fermarsi nella stazione successiva. Sulla banchina una piccola folla aspettava di salire. Gente attrezzata per il mare, con borse di paglia e vestiti leggeri. Lungo il corridoio ci fu una confusione di corpi che dopo poco si calmò avendo trovato ogni viaggiatore il proprio posto. Avvertii uno smarrimento in mio fratello che, allo stesso modo di un bambino, cercò rifugio sulla mia spalla, celandovi il volto.
Va tutto bene, gli dissi, e gli passai una mano tra i capelli.
Questo fu sufficiente ad acquietarlo ed io m’accorsi che il suo petto di nuovo si scioglieva nel respiro.
Il paesaggio riprese a sfilare. I sambuchi lasciarono posto alle ginestre, le case si fecero più fitte, i declivi più dolci: il mare si stava avvicinando.
D’un tratto ci fu tra i piedi, spuntato non so bene da dove, un cagnetto dal pelo giallo ed arruffato. Scodinzolava, in cerca d’attenzione, nel modo dei cuccioli, un po’ sgraziato. Fu un attimo e mio fratello lo prese tra le braccia affondando il viso nella sua pelliccia, le mani ad allacciarlo con una stretta sbagliata, un gesto che soverchiava la misura. Il cane guaì. Una vecchia si avvicinò rapida. Mi è scappato, ci disse, mentre sistemavo le borse, e fece un sorriso formale davanti l’eccessiva tenerezza di quel l’uomo grande e grosso che ancora era chino sul suo cane.
Il cane guaì ancora e la vecchia tese le mani verso la bestiola che si divincolava, ma mio fratello continuava a tenere il viso affondato dentro al pelo e sembrava non accorgersi della presenza della donna. Lo scossi leggermente dicendo lascialo, e mio fratello parve risvegliarsi. Allentò la presa ed il cane balzò giù dal suo grembo. Poi mio fratello volse il viso verso la donna e le sorrise. Lei ebbe un grido, si chinò raccogliendo il cane e scappò via. Mio fratello abbassò il capo, sconfitto: la sua faccia, ancora una volta, aveva riflesso l’orrore degli altri e la sua offerta d’amore, ancora una volta, era stata rinnegata.
Era bambino quando, con le sue labbra mostruose, posava baci umidi e imprecisi sulle guance di mia madre che, di sera, entrava nella nostra stanza per augurarci la buonanotte. Lei si scansava, e gli diceva smetti, sei troppo grande per queste smancerie. Io la osservavo, lì accanto, tra le lenzuola, e quando lei si chinava verso di me, il sorriso tenero e disteso, provavo un senso di vergogna per quell’amore che mi veniva reso in disavanzo.
Avrei voluto difenderlo, sottrarlo agli sguardi di una madre, di un padre, della gente, di un dio, quello stesso dio che aveva dato orrore alla sua faccia, quello stesso dio che condannò Caino all’offesa davanti al gesto, elementare e giusto, di un’offerta senza sangue, come un frutto reciso dalla terra.
Il treno continuava ad andare. Di lì a poco avremmo raggiunto il mare.
Forse avremmo fatto il bagno e l’acqua, clemente, spoglia di sentenze, avrebbe dispensato su di noi la sua carezza equanime.