È un pomeriggio di novembre, nebbioso e reumatico. Nel silenzioso soggiorno della vetusta casa di riposo “Anni sereni” di Burgonzio, gli anziani ospiti consumano la merenda. Improvvisamente, dall’esterno, provengono voci concitate.
“Stia attenta, mi fa cadere!” “Maman, l’assistente sa fare il suo lavoro” “Non è vero. E con l’osteoporosi, se cado, mi frantumo come un vaso Ming!” “Maman, casomai ti incolliamo e ritorni nuova”.
La porta si spalanca ed entrano un giovane uomo e un’anziana donna che si regge a un bastone e a un’assistente. La direttrice la riceve sorridendo: “Benvenuta, signora Reverchon!”
“Contessa Maria Lodovica Adelaide Reverchon, vedova del conte Pier Camillo Gustavo Avogadro, ma può chiamarmi signora Maria Lodovica o contessa Avogadro. Vorrei riposare, sono provata! Ordini alla cameriera di portare dentro i miei bagagli; voglio distendermi”
“Maman, non è una cameriera ma un’assistente specializzata!” “Dodo, quante storie. Assistente, cameriera, cosa cambia? È sempre al mio servizio!”
L’uomo scuote la testa e si congeda, con il rimorso per non aver spiegato alla madre le loro difficoltose condizioni economiche. La donna, aiutata dalla direttrice, si ritira per riposare.
Era di venerdì pomeriggio. Guardo dalla finestra, c’è la merla che viene sempre nel cortile a sbecchettare il resto del pane che ci butto. Apro quando non ci sono le assistenti altrimenti mi sgridano che entra il freddo e si prende qualcosa poi faccio cadere dal fazzoletto le briciole. Finché ci riesco, perché con la sedia a rotelle c’è un po’ da tribolare.
L’è rivata, la signora. Tutti, anche quei che con la testa sono più di là che di qua, hanno avuto come un scosòn. E come la gridava, oh si si.
Mica sono una signora, me. La mia casa è la cascina giù a Contrazzano subito dopo la riseria, ma oramai, vuota. Mi chiamo Ranghino Luigia, di anni ottantatrè. Da ragazza ero una mondariso, poi hanno aperto la fabbrica e facevo l’operaia. Mi manca, la mia casa. È che sono caduta e si è rotto qua, operazione ospedale e tutto, ma l’osso non si è ‘tacato bene. E dopo i figli per carità ognuno ha le sue cose da fare e insomma si sono messi d’accordo e io pazienza. O si spaccava tutte le porte che non ci passo e poi se ti succede qualcosa mamma? Cosa fai là tutta sola? E allora mi hanno portato alla casa di riposo “Anni sereni”, in mezzo alle risaie come a Contrazzano, freddo uguale umido uguale, e in più si paga. Adesso mi metto dietro a guardare cosa fa la signora, c’è tanto di quel tempo da far passare. Qua si aspetta solo che di morire, certe volte si sente l’assistente che dice è il diciannove, avvisa i parenti e il giorno dopo si libera il letto, bon.
E io allora guardo fuori, poi magari ci chiedo cosa c’è di cena, che di fame ne ho sempre.
”Ce la faccio da sola, ho detto! Aspetto mio figlio, ha promesso di portare i ragazzi.”
Maria Lodovica si trascina fino al divano, accanto alla sedia a rotelle su cui russa placida la Lugia. “Fortunata lei, che riesce a dormire, io non chiudo occhio! Il materasso è rigido, il cuscino è alto e i reumatismi mi fanno soffrire!” La signora Luigia, a tutte quelle grida, apre un occhio e la sbircia.
“Meno male che starò qui pochi giorni. Mio figlio Edoardo ha prenotato nella residenza esclusiva “L’eldorado”. Quello è il mio posto! Io sono una contessa, cosa faccio in questo edificio ammuffito sperduto tra le risaie? Voi siete vecchi rimbambiti e aspettate la vostra ora. Io sono in ottima forma e potrei dedicarmi alle mie attività, se avessi i miei spazi.
Mio marito, il conte buonanima, viaggiava e io restavo a casa con il bambino e i domestici. Dipingevo, ricamavo e suonavo il pianoforte. So fare ancora tutto benissimo!”
Si volta a guardare la signora Luigia, che la fissa immobile.
“Spero che mio figlio arrivi presto. Da mesi non vedo i miei nipoti. Studiano in collegio e poi svolgono molte attività: equitazione, tennis, pianoforte. Sono impegnatissimi e non hanno mai un minuto libero. Non come quei ragazzini che passano la giornata davanti al televisore!”
La porta d’ingresso si spalanca ed entra un uomo distinto, allampanato e abbronzato, che cammina appoggiandosi a un bastone da passeggio.
Maria Lodovica e la Luigia si scambiano un’occhiata e fissano il nuovo ospite, curiose e interessate.
Nel soggiorno piomba un silenzio indagatore e numerosi occhi si accendono di stupore.
E la parla semper. Son sicura che se mi viene da rispondere non mi ‘scolta, e allora sto zitta e penso. Sono abituata a far silenzio. C’è un solettino, si sta meglio di ieri. Mi ricordo la mattina che prendevo su la bice* e andavo a lavorare. C’è la vita nei fossi, se ascolti. Me lo diceva sempre mio marito che nella testa ho qualcosa che gira diverso. Mi son sempre piaciute le bestie. Avevo gatti cani, alla mia casa. E le rane, ma te le hai viste che belle le rane? Mio zio faceva l’acquaiolo: girava con la vanga a fare gli argini per allagare le risaie. Mi piaceva tanto vedere l’acqua che svoltava di qua e di là, lui la comandava.
Poi ha fatto silenzio anche lei.
C’è entrato un signore, dritto ‘me un bachet. Ah distinto, sisi, un po’ maròn, come quei che vanno a prendere il sole apposta. Un forestiero di sicuro.
Il distinto signore prima si guarda intorno e poi si dirige, tra sguardi muti, verso Maria Lodovica e la Luigia: “Permettete, gentili signore? Sono la morte, vengo a prendervi. Vi accompagno? Ho giusto due posti liberi.”
“Oh, finalmente! L’eldorado l’ha mandata a prendermi! Lo dicevo che sarei rimasta qui per poco.” esclamò Maria Lodovica. “Un minuto, faccio preparare i bagagli. Però, signor Lamorte, stia attento ad accompagnarmi all’automobile. Ho l’osteoporosi e, se cado, mi frantumo come un vaso Ming!”
L’ho ‘vardat. È alto e ha gli occhi di piccione. Sul momento non so, mica siamo pronti a dire sì no e poi. Fuori comincia a calare la nebbia, qualcuno tossisce. Di vedere passare i giorni dietro al vetro non sono capace e poi adesso non devo più badare a nessuno. Ci ho detto: “Andiamo”.
* termine dialettale usato nel vercellese, la femminilizzazione di bici.