Racconti a 4 mani: venerdì si vota (qui)

Venerdì 3 settembre, dalle 10 del mattino fino alle 16, si vota per i Racconti a quattro mani.
Non verranno considerati validi i voti che arriveranno prima delle 10 o dopo le 16 di venerdì.
Chi venerdì fosse impegnato ma volesse votare può comunque farlo, inviandomi una mail a
raccontiaquattromani@gmail.com
mail che poi renderò pubblica, copiandola.
Ricordo che si vota qui, nei commenti.
Ricordo che se si vota si vota per sei racconti, non per uno, tre o quattro.
o tutti e sei oppure il voto viene annullato.
Ricordo che al primo racconto verranno assegnati 6 punti
5 punti al secondo
4 punti al terzo
3 punti al quarto
2 punti al quinto
1 punto al sesto.
I primi sei racconti verranno poi impaginati per primi nell’e-book dalla mia amica “t”.
Do per scontato che nessun partecipante voti per se stesso…
La copertina sarà di Mario Bianco.
Nell’e-book non ci sarà nessun riferimento alla votazione; ci sarà sarà solo scritto che I racconti a quattro mani 2010 si sono svolti in questo blog.
Grazie a tutti e buon settembre

A 4 mani. Ci siamo

I 21 racconti, grazie a tutti i partecipanti.
Mancano: il voto e l’e book.
Vi tango aggiornati

1 – Il primo figlio (12lug10)

2 – A caccia di arcobaleni (13lug10)

3 – La Confraternita della bañacauda (19lug10)

4 – La casa del mais (20lug10)

5 – E poi (21lug10)

6 – Il tempo necessario (23lug10)

7 – Anni sereni (24lug10)

8 – Strategie di mercato (27lug10)

9 – Antiferesi (28lug10)

10 – Take away (29lug10)

11 – Istantanee d’anniversario (30lug10)

12 – Beautiful monster (05ago10)

13 – Wisteria (08ago10)

14 – L’ultimo giorno (09ago10)

15 – Complesso vocale (10ago10)

17. I giorni difficili (14ago10)

16 – Due zone diversamente influenzate (12ago10)

17 – I giorni difficili (14ago10)

18 – Contrazioni (15ago10)

19 – Andirivieni (17ago10)

20 – “Il mio amico Osvaldo” (18 ago10)

21 – “Duevoci” (19ago10)

A 4 mani, 21° racconto: “Duevoci”

Caro diario,
non è la prima volta che apro le tue pagine bianche per riempirle con le mie parole piene di angoscia e di tormento contrastato. Sono dimagrita di un altro chilo, ormai non riesco più a controllare il mio peso perché ho perso l’interesse per il cibo, come per qualunque altra cosa che non riguardi lui. Lui, il mio amore e la mia trappola. Mi sento legata ad un qualcosa che non mi appartiene più da molto…forse da sempre.
Lo guardo, ma lui non mi vede, è così sicuro di avermi accanto a sé che non sposta il viso per accertarsi della mia presenza nella sua vita. Non tende più la mano per toccarmi, siamo come legati da un filo invisibile che però ha il peso di una catena. Sento che essa sta andando a fondo, sempre di più, trascinando i nostri corpi senza vita, che non osano opporsi, che avvertono l’oscurità che li circonda, ma non reagiscono.
Ho parlato tanto in questi anni, ma ogni mia parola si è schiantata nel vuoto di uno schermo che non ha mai ascoltato, è arrivata ad un cuore gelido che non ha mai voluto il mio calore.
Ho amato questo cuore più di quanto lui amasse me, ma ormai la mia mano e me stessa siamo diventati freddi. Freddi in ogni senso, freddo è ormai il mio sentimento, come il suo sguardo quando gli sono davanti. Anche quando dice di amarmi, il suono di queste parole mi sembra freddo.
Non riesco a mettere la parola “fine”, troppo tempo abbiamo passato insieme e troppe cose ci hanno legato, uniti fin dal mio primo bacio alla sua prima volta, provando insieme forti esperienze…o forse erano solo tappe necessarie di un percorso di vita…mi chiedo sempre come sarebbe stato affrontarle con qualcun altro.
Chi può dire se amore o curiosità ci hanno spinti l’uno nelle braccia dell’altro e se abitudine o vera unione ci abbiano legato insieme per così tanto tempo.
E’ una ragnatela, mi sento in trappola tra i fili di questa prigione che più mi allontano e più mi richiama a sé, sono inerme in questa gelida gabbia confusa con sentimento.
Non ho il coraggio di prendere quelle forbici che attendono la mia presa, per tagliare i fili di questa ragnatela e scrollarmi le catene che porto addosso, per cominciare a volare.
Ho bisogno di volare.
Anche se dovessi avere vita breve come una farfalla dalle ali ramate, la vivrei libera senza catene, sentendo sul mio viso l’aria fresca che mi accarezza e che mi fa sentire nel corpo quel brivido che ormai, da troppo tempo, non riesco più a provare.

Caro diario,
rileggendo queste pagine ormai ingiallite e dimenticate dall’esigenza di vivere, non riesco ad indossarne, ormai, nemmeno una parola… saranno,forse, i chili abbondantemente ripresi dal germogliante riverbero delle mie ali. Ebbene sì.
Ho finalmente imparato a volare. Da sola.
Ho imparato l’arte dell’equilibrio e le acrobazie tra i rivoli di vento…mentre fingi di assecondarlo in realtà stai preparandoti ad andargli contro,o incontro, forse. Sapessi che sensazione! Gli entri dentro d’improvviso e sinuosamente, come in un tango, che ti cinge e ti volteggia come fa la passione con gli amanti. Una danza che balli da sola,conducendoti.
Da tempo non costeggio più le rive dei miei ricordi. Ho capito che non serve, nemmeno camminare su quell’orlo in punta di piedi per timore di disturbare la malinconia, quella che ad un tratto, furtiva come una ladra, ti getta addosso i coriandoli dei giorni passati, senza chiederlo.
Per questo evito gli orli e le rive.
Preferisco i campi di grano, il fruscio indorato delle sue spighe, gli spazi aperti dei campi sui quali correre a piedi scalzi, senza direzione, se non quella scombinata di passi incerti.
Come potevo preferire le sbarre certe dell’abitudine all’incertezza della libertà? Come potevo scegliere lui a me, con l’illusione che si trattasse di un noi? Mi trattenevo vigliacca dietro la sottana dell’amore, senza il coraggio di rivelarne la sua crudele nudità. Il mio corpo scheletrico ricoperto a stento da un’ipocrita sottana di seta, riluceva di bugie, seducendo solo la mia inettitudine, l’idea di un desiderio fantasma, mentre lui spegneva la abatjour e voltandosi dall’altra parte si addormentava.
Non leggevamo più, come facevamo un tempo, prima di addormentarci e i nostri dischi non accompagnavano più il caffè la domenica mattina o le sere di pioggia le nostre cene, quando l’umidità profumava di muschio la nostra casa. Quando raramente lo facevamo era un consenso implicito alla consapevolezza di una fine.
Quello che mancava ad entrambi non aveva nulla a che vedere con l’amore. Mancavamo a noi stessi. Semplicemente. Eravamo l’uno la morsa dell’altro. L’ombra indistinta di due corpi troppo vicini per distinguersi.
L’amore non può fondarsi sulla dipendenza, se non nella misura in cui la si vuole. Io pendevo letteralmente dalle sue labbra. Senza iniziativa. Senza un desiderio che non fosse il suo. Non osavo chiedere, solo rispondere alle sue voglie.
Prenderne consapevolezza fu doloroso. Le abitudini dell’amore, per quanto le disprezziamo vivendole, sono le prime a mancarci, a toglierci il fiato alle volte. Il suo pigiama a righe, il suo spazzolino, la sua vecchia pipa e tutti quegli oggetti così quotidiani, assumono la sacralità delle reliquie. Oggetti  che ti ricordano chi eravate, o pensandoci oggi, chi ancora non eravate. La distanza era l’unica soluzione possibile. C’è voluta tanta forza per rimanere ferma e coerente alla decisione presa, ma per ambire ad un amore maturo, dovevo necessariamente cadere dal suo albero per essere pronta.
Tutti i sospiri che attanagliavano le mie notti, oggi sono respiri a pieni polmoni.
Ho imparato a desiderare, a soddisfare le mie voglie.
Ho imparato ad amarmi.
Sono pronta ad amare.

A 4 mani, 20° racconto: «Il mio amico Osvaldo»

Questo dovrebbe essere l’incipit di questo racconto, ma è stile indiretto libero, perché infatti l’amico di Veniero personalmente non conosce nessun Osvaldo. È Veniero che conosce Osvaldo, e che stasera, 20 luglio 2010, non riesce ad uscire dal cerchio soffocante dell’aneddotica corriva a proposito di costui, che in teoria è assente, dando molto sui nervi al suo amico. Che
– A parte il fatto, – gli dice, – che “Veniero” è un nome da cretino!
– Pazienza, – risponde serafico Veniero, – a te sembra forse che Gernando sia un nome intelligente? A proposito di nulla, Osvaldo l’altro giorno…
– Non mi chiamo Gernando – fa presente l’altro molto seccamente.
– Non ha nessunissima importanza – ribatte Veniero, da autentica carogna, – facevo un esempio: come dire: se mi fossi chiamato Gernando sarei stato, essenzialisticamente, alcunché di meglio? O Samuele? O Babila? O Ermintrude? O…
– Vacci piano, – lo interrompe l’altro. – Mia zia acquisita si chiama Ermintrude!
– E la mia no, – conclude Veniero. Soggiungendo minaccioso: – Hai qualcosa da ridire, forse?
– Senti – gli dice l’altro, mollando giù il boccale della birra, che è una moretti; nel toccare con un secco ss-tòck! il tavolo con la spessa base, il boccale spedisce un lungo baffo dorato verso l’alto, che nella luce violaceo-petulante del localino modajuol-scorreggione in cui si trovano acquista riflessi cangianti, poco addicevoli a qualunque cosa sia nata per essere ingerita, – io mi sono emeritamente rotto il cazzo di sentir parlare del tuo amico Osvaldo; o me lo fai conoscere, e allora la cosa è diversa, oppure mi metto io a parlare del mio amico Osmino con tutti quanti, per un mese da ora, in ogni momento della veglia, ovunque io trovi un pajo d’orecchie in cui versare le più squallide res gestae relative.
– Aspetta, – gli fa Veniero, alzando una di quelle due mani tozze e grassocce che lo rendono simile a un putto, con la faccia dai tratti tondi, gli occhî a mandorla soffocati nelle palpebre rosacee dalle lunghe ciglia corvine, le gote bombate, la bocca fiorita, la fossetta sul mento, – non tanta fretta. Questa è l’ultima che ti racconto. Ora, Osvaldo è ipertricotico, e ha sempre avuto il cruccio di una certa disidratazione alla peluria delle braccia, dell’interno coscia e dell’epigastrio, essendo abituato a lavarsi con genuino sapone Pears, mattina e sera. Ha rimediato facendosi lo shampoo, anche sul corpo…
– E quando ha cominciato a mettersi i bigodini ai peli delle orecchie?
– … Mai, che io sappia. Ma – dice, e s’illumina, estraendo il telefonino – potrebbe essere un’idea. Anzi, sai che quasi quasi lo chia…
L’amico gli strappa l’apparecchio di mano.
– Veniero, – intìma, – tu non chiamerai Osvaldo. Non stasera, non da qui, non in mia presenza.
– Non avevi detto di volerlo conoscere, qualche secondo fa?
– E adesso ti dico che se lo incontro ammazzo te e lui.
– A proposito, Osvaldo mi ha d…
– Osmino, invece, è solito sostenere…
– Aspetta. Quando O…
– No! egli suole…
I due lasciano le rispettive voci a sopraffarsi a vicenda, rimanendo liberi di alzarsi, guardarsi in cagnesco, rimboccarsi le maniche, l’uno fumando dal naso, l’altro dalle orecchie. Intravedo il cameriere che si protende nella loro direzione, per sentire che piega stanno prendendo le cose, pur non abbandonando il bancone – almeno non finché la situazione non sia degenerata nella maniera più scandalosa.
Ma non è lui ad interrompere questo scambio di vedute.
È Osvaldo, difatti, che poi sarei io, e sono arrivato qua or è mezz’ora, inseguendo una voglia di moretti. Mi ricordo vagamente una pubblicità della stessa, c’era una tizia biondissima, direi con le gambe da cavalla. Che invidia. Invidio le gambe dei cavalli, intendo. Corrono veloci. Mi piace correre veloce, a me. Io del cavallo ho solo il crine. Ed è così che ho visto Veniero, laggiù al bancone, chiacchierare con quel tizio cólla faccia da sociopatico paffuto, con la zazzerina nera, e le maniglie dell’amore che la posizione sullo sgabello mette in mostra così bene. Veniero, quel testadicazzo fissato con le battute – mi ha perseguitato, da quando mi conosce, con ‘sta storia dei peli.
Poi gli s’è scaldato il sangue. Divertente!, mi sono detto, massì.
– Ciao, Veniè.
Eccolo che si volta.
– Non ci posso credere! Ecco, questo è Osvaldo – e m’ìndica all’amico suo. L’amico di Veniero mi guarda fisso per un minuto buono e non dice niente. Allora, chi ammazzi, tu?
– Che mi racconti, Osvaldo?
Che ti racconto?
– Mah, solite storie, e tu?
– E come va cól tuo vello bestiale? – ride.
Ecco che comincia.
– Bene. Anzi: un pochino meglio.
Il tizio continua a fissarmi. Con aria divertita, anzi proprio da presa per il culo.
– Non ti si vede mai in certi giorni, che fine fai, dove ti nascondi?
– Sto a casa, guardo la TV.
– Beh, noi andiamo a fare un giro. Vieni?
– Ok. – Paghiamo e usciamo. Veniero avanti, dietro di lui l’amico – che non so nemmeno come si chiama, ora che ci penso –, e io a chiudere la fila con quelle maniglie dell’amore che m’ondeggiano davanti, ben visibili anche adesso che non è più sullo sgabello.
È notte fonda, c’è una bella luna. Ed ecco che mi prende il solito prurito su tutto il corpo e una specie di bollore in bocca, e quel fastidio ai denti.
Che mi stanno crescendo, così come i peli, d’altro canto.
Dopo altri tre passi decido di azzannare Veniero. Lo faccio rapidamente.
– Oddio – fa in tempo a dire l’altro.
Ma io sono addosso anche a lui, e lo inchiodo a terra con le zampe. Adesso mi fissa, sì, ma cól terrore negli occhi, non più con sarcasmo. Tutto sfolgorante di bel pelo fulvo luccicante sotto il plenilunio, prima di recidergli la carotide gli chiedo:
– Scusa, ma com’è che ti chiami, poi?
Con una vocetta strozzata:
– Osmino,
risponde.

Questo dovrebbe essere l’incipit di questo racconto, ma è stile indiretto libero, perché infatti l’amico di Veniero personalmente non conosce nessun Osvaldo. È Veniero che conosce Osvaldo, e che stasera, 20 luglio 2010, non riesce ad uscire dal cerchio soffocante dell’aneddotica corriva a proposito di costui, che in teoria è assente, dando molto sui nervi al suo amico. Che

– A parte il fatto, – gli dice, – che “Veniero” è un nome da cretino!

– Pazienza, – risponde serafico Veniero, – a te sembra forse che Gernando sia un nome intelligente? A proposito di nulla, Osvaldo l’altro giorno…

– Non mi chiamo Gernando – fa presente l’altro molto seccamente.

– Non ha nessunissima importanza – ribatte Veniero, da autentica carogna, – facevo un esempio: come dire: se mi fossi chiamato Gernando sarei stato, essenzialisticamente, alcunché di meglio? O Samuele? O Babila? O Ermintrude? O…

– Vacci piano, – lo interrompe l’altro. – Mia zia acquisita si chiama Ermintrude!

– E la mia no, – conclude Veniero. Soggiungendo minaccioso: – Hai qualcosa da ridire, forse?

– Senti – gli dice l’altro, mollando giù il boccale della birra, che è una moretti; nel toccare con un secco ss-tòck! il tavolo con la spessa base, il boccale spedisce un lungo baffo dorato verso l’alto, che nella luce violaceo-petulante del localino modajuol-scorreggione in cui si trovano acquista riflessi cangianti, poco addicevoli a qualunque cosa sia nata per essere ingerita, – io mi sono emeritamente rotto il cazzo di sentir parlare del tuo amico Osvaldo; o me lo fai conoscere, e allora la cosa è diversa, oppure mi metto io a parlare del mio amico Osmino con tutti quanti, per un mese da ora, in ogni momento della veglia, ovunque io trovi un pajo d’orecchie in cui versare le più squallide res gestae relative.

– Aspetta, – gli fa Veniero, alzando una di quelle due mani tozze e grassocce che lo rendono simile a un putto, con la faccia dai tratti tondi, gli occhî a mandorla soffocati nelle palpebre rosacee dalle lunghe ciglia corvine, le gote bombate, la bocca fiorita, la fossetta sul mento, – non tanta fretta. Questa è l’ultima che ti racconto. Ora, Osvaldo è ipertricotico, e ha sempre avuto il cruccio di una certa disidratazione alla peluria delle braccia, dell’interno coscia e dell’epigastrio, essendo abituato a lavarsi con genuino sapone Pears, mattina e sera. Ha rimediato facendosi lo shampoo, anche sul corpo…

– E quando ha cominciato a mettersi i bigodini ai peli delle orecchie?

– … Mai, che io sappia. Ma – dice, e s’illumina, estraendo il telefonino – potrebbe essere un’idea. Anzi, sai che quasi quasi lo chia…

L’amico gli strappa l’apparecchio di mano.

– Veniero, – intìma, – tu non chiamerai Osvaldo. Non stasera, non da qui, non in mia presenza.

– Non avevi detto di volerlo conoscere, qualche secondo fa?

– E adesso ti dico che se lo incontro ammazzo te e lui.

– A proposito, Osvaldo mi ha d…

– Osmino, invece, è solito sostenere…

Aspetta. Quando O…

No! egli suole…

I due lasciano le rispettive voci a sopraffarsi a vicenda, rimanendo liberi di alzarsi, guardarsi in cagnesco, rimboccarsi le maniche, l’uno fumando dal naso, l’altro dalle orecchie. Intravedo il cameriere che si protende nella loro direzione, per sentire che piega stanno prendendo le cose, pur non abbandonando il bancone – almeno non finché la situazione non sia degenerata nella maniera più scandalosa.

Ma non è lui ad interrompere questo scambio di vedute.

È Osvaldo, difatti, che poi sarei io, e sono arrivato qua or è mezz’ora, inseguendo una voglia di moretti. Mi ricordo vagamente una pubblicità della stessa, c’era una tizia biondissima, direi con le gambe da cavalla. Che invidia. Invidio le gambe dei cavalli, intendo. Corrono veloci. Mi piace correre veloce, a me. Io del cavallo ho solo il crine. Ed è così che ho visto Veniero, laggiù al bancone, chiacchierare con quel tizio cólla faccia da sociopatico paffuto, con la zazzerina nera, e le maniglie dell’amore che la posizione sullo sgabello mette in mostra così bene. Veniero, quel testadicazzo fissato con le battute – mi ha perseguitato, da quando mi conosce, con ‘sta storia dei peli.

Poi gli s’è scaldato il sangue. Divertente!, mi sono detto, massì.

– Ciao, Veniè.

Eccolo che si volta.

– Non ci posso credere! Ecco, questo è Osvaldo – e m’ìndica all’amico suo. L’amico di Veniero mi guarda fisso per un minuto buono e non dice niente. Allora, chi ammazzi, tu?

– Che mi racconti, Osvaldo?

Che ti racconto?

– Mah, solite storie, e tu?

– E come va cól tuo vello bestiale? – ride.

Ecco che comincia.

– Bene. Anzi: un pochino meglio.

Il tizio continua a fissarmi. Con aria divertita, anzi proprio da presa per il culo.

– Non ti si vede mai in certi giorni, che fine fai, dove ti nascondi?

– Sto a casa, guardo la TV.

– Beh, noi andiamo a fare un giro. Vieni?

– Ok. – Paghiamo e usciamo. Veniero avanti, dietro di lui l’amico – che non so nemmeno come si chiama, ora che ci penso –, e io a chiudere la fila con quelle maniglie dell’amore che m’ondeggiano davanti, ben visibili anche adesso che non è più sullo sgabello.

È notte fonda, c’è una bella luna. Ed ecco che mi prende il solito prurito su tutto il corpo e una specie di bollore in bocca, e quel fastidio ai denti.

Che mi stanno crescendo, così come i peli, d’altro canto.

Dopo altri tre passi decido di azzannare Veniero. Lo faccio rapidamente.

– Oddio – fa in tempo a dire l’altro.

Ma io sono addosso anche a lui, e lo inchiodo a terra con le zampe. Adesso mi fissa, sì, ma cól terrore negli occhi, non più con sarcasmo. Tutto sfolgorante di bel pelo fulvo luccicante sotto il plenilunio, prima di recidergli la carotide gli chiedo:

– Scusa, ma com’è che ti chiami, poi?

Con una vocetta strozzata:

– Osmino,

risponde.

il 18 agosto, un’eccezione

Ci sono i miei ricordi cortonesi, i miei ricordi degli anni della fabbrica ma, in questo blog, sebbene io racconti di incontri o di scampoli delle mie giornate, in questo blog, dicevo, non parlo quasi mai della mia vita.
Questo blog è soprattutto un piacevole passatempo ed è anche un luogo virtuale che mi ha permesso, poi, di conoscere per davvero persone speciali.
Nacque, questo blog, per scherzo. Dissi a un mio cugino acquisito: Stanno per uscire due miei libri, fammi un sito.
Mi disse, Aspetta, e comincia a vedere come ti trovi con questa cosa qua.
Era il 23 marzo del 2006…
Dicevo, questo blog non è un diario.
Qui scrivo quel che mi passa per la testa…
Io, lo sapete, scrivo: articoli e libri (magari non per molto…).
Il 18 agosto del 2005 morì mio fratello Moreno, aveva trent’anni.
Scrissi una lettera (che prima apparve sul giornale che dirigo), che per me è una preghiera.
Da rileggere, da condividere, anche.
E’ nella sezione ricordi (il primo) di questo blog, si intitola Fratello fragile.
Questo blog non è un diario ma il 18 di agosto di ogni anno lo è, almeno un po’.
Solo per un giorno.

A 4 mani, 19° racconto: Andirivieni

Cara amica mia,
ho sempre l’impressione di non avere mai abbastanza tempo per te. Ti penso, mi dico che avrei voglia di vederti, e poi di colpo è trascorso un altro mese. Ho nostalgia di quando ragazzine avevamo quei lunghi pomeriggi per noi, le domeniche e le vacanze: quanto abbiamo parlato e quante cose ci siamo raccontate…ecco, oggi vorrei un po’ di quello che è stato e la lontananza non aiuta.
Da qualche giorno qui fa un caldo feroce e io sono più stanca del solito. Non riesco a concentrarmi né a trovare lo slancio per avanzare nel mio lavoro. Puoi immaginare la fatica di essere ripartita da zero e il ricostruirmi pezzo dopo pezzo. Tutto ciò ha assorbito gran parte delle mie energie e la solitudine mi pesa. Mi capita da un po’ di tempo di osservare le coppie che incontro per strada. Mi commuovono quelle di anziani che hanno ancora gesti di tenerezza e di affetto: una porta tenuta aperta nonostante il procedere incerto, mani scarne che si intrecciano, dita nodose che sistemano un colletto piegato male, un braccio offerto per attraversare una strada. Le guardo e penso che vorrei per me proprio quella cosa lì, adesso e anche fra quarant’anni, invece del deserto affettivo in cui vivo.
Ti abbraccio


Mia carissima amica,
mi colpisce l’espressione ‘deserto affettivo’. Sono le stesse parole che uso per riferirmi agli studenti che vedo vagare per i corridoi della scuola con gli occhi gonfi di pianto o con lo sguardo di sfida trepida. A casa un po’ se la ridono, un po’ alzano le braccia quando mi sentono ripetere questa accoppiata sostantivo-aggettivo. Forse avrebbero cominciato seriamente a preoccuparsi per la mia salute mentale, se l’altro giorno avessero sbirciato il mio commento in un inglese stentato all’intervento dell’esperto in Risoluzione costruttiva di conflitti a scuola sul blog School mobbing and emotional abuse. Tra le cause dei disturbi del comportamento menzionavo la nostra (posso dire nostra?) formula, spacciandola per emotional desert. Una bidella con il pallino della psicoterapeuta fa ridere e i miei non riescono a farsene una ragione. Scrivi dell’impressione di non avere tempo sufficiente per me. Ti devo smentire. Tu scrivi e in me cresce il desiderio di riprendere il filo dei nostri racconti infiniti. Non ce la facciamo proprio a vederci?

Ecco, vedi, cara e paziente amica lontana, quando scrivo ‘deserto affettivo’ penso a qualcosa di molto concreto. Quando tu esageri o ti preoccupi troppo, hai i tuoi accanto che ti riportano alla realtà, magari ridendo di te o sbuffando. Loro ci sono, sono una realtà e ti fanno da specchio, da argine, da sostegno, a volte forse da ostacolo. Li vedi, li senti, li tocchi, puoi persino annusarli. Io, invece, di specchio ho solo quello vero, davanti al quale mi faccio le domande e mi dò le risposte. E ci metto tutto, da sola: la comprensione, l’ironia, l’affetto, la severità… ma proprio non mi basta.
I ragazzi della tua scuola vagano nei corridoi presi da altri pensieri, credo. Noi adulti non possiamo certo sollevarli dai loro dolori e le nostre esperienze individuali non possono proteggerli dalle loro sofferenze. Questo del resto vale per tutti, ma troppo spesso ce lo dimentichiamo e pensiamo che gli altri debbano alleviare le nostre pene.
Ora ti saluto e vado a spasso con il cane. Gliela devo questa passeggiata mattutina nel bosco: è l’unico che si sempre è sorbito le mie elecubrazioni e inquietudini, senza mai dar segno di cedimento. Al massimo, ha mostrato il suo dissenso sbadigliando.
Ho tanta voglia di incontrarti, ma sarà in autunno o in inverno. Salutami la tribù.

E allora non sarà né l’autunno, né l’inverno del nostro scontento. Non vedo l’ora di vederti. La carta, anche quella virtuale, è troppo indulgente e insieme troppo opaca per quello che devo, che voglio, che posso dire solo a te. Qui non capirebbero, lo interpreterebbero come un atto di accusa nei loro confronti. So che tu avrai la pazienza di ascoltarmi e di aspettare…


Gentile Silvia,
vedo dall’elenco dei messaggi di mia moglie che quello inviato a lei è l’ultimo prima del suo malore. La prego di non allarmarsi, ma mi sento in dovere di comunicare a lei, per l’antica amicizia che vi lega, quello che le è successo ieri. Nel primo pomeriggio ricevo una chiamata dal cellulare di Verena. Qualcuno mi pregava di andarla a prendere in località Borghi. Può immaginare il mio stupore poiché il luogo dista chilometri dalla scuola dove lavora. L’ho trovata lì, incapace di dirmi come ci fosse arrivata. Al pronto soccorso, dove abbiamo atteso per ore, non sono andati oltre la formula generica di ‘stato confusionale’. Hanno comunque disposto un ricovero per accertamenti. Da mesi, ormai, Verena passa ore al pc, spesso con uno strano sorriso che tenta di nascondere quando mi avvicino a lei. Non so di che cosa si tratti; sono certo che comprenderà il divieto che ho imposto a Verena di usare il computer, ora che è in ospedale e in seguito, a casa. La saluto,
Saverio


Caro Saverio,
grazie di avermi informato delle condizioni di Verena. Anche se di lei so solo quello che Verena in tutti questi anni mi ha raccontato, sono sicura che saprà aiutarla al meglio. Mi permetta però qualche riflessione, proprio da vecchia amica. I medici parlano di ‘stato confusionale’. Io non sono in grado di fare diagnosi, ma forse si tratta più di uno smarrimento e di tanta stanchezza: da mesi mi scrive dei suoi pensieri ‘strani’, così come mi ha sempre scritto di lei e dei ragazzi, del lavoro, della sua vita, con realismo e buon senso. È una donna sensibile che coltiva il suo mondo interiore, ma è anche una persona concreta. Vietarle del tutto l’uso del computer, delle email e dei suoi amatissimi blog, è un po’ come tagliarle le ali. Le stia vicino, le dimostri che il ‘deserto affettivo’ di cui tanto ci siamo scritte non è per lei la realtà quotidiana, che intorno a sé ha persone in carne ed ossa che le vogliono bene e che non è sola.
Mi tenga informata e appena possibile riprenderò i contatti con Verena.
Silvia

A 4 mani, 18° racconto: Contrazioni

Il podere Landini era l’ultimo del giro di vendita per quella giornata. Era situato a ridosso della golena e per arrivarci era necessario seguire la sterrata che si srotolava sopra l’argine maestro come un nastro ondeggiante.
Giorgio imprecò contro le buche che costellavano il fondo ghiaioso, maledicendo la polvere bianca che si sollevava densa per poi ricadere sul cofano e sui vetri dell’auto.
Era stanco di quel lavoro che lo portava a viaggiare da un punto all’altro della pianura, per convincere i proprietari delle aziende agricole all’acquisto dei mangimi e degli integratori zootecnici Moroni:
la nostra filosofia è dare enfasi ai prodotti di salvaguardia della salute delle vostre bestie.
Ne avrebbe avuto bisogno lui, di qualcosa che lo enfatizzasse: gli costava sempre più fatica mettersi in auto, macinare chilometri lungo strade che si perdevano tra distese di granturco e campi di barbabietole e trifoglio, per incontrare bovari e contadini e sfoderare la sua parlantina a promettere mirabolanti risultati.
Inoltre, da qualche giorno, sentiva uno strano tremolio alla palpebra destra, una vibrazione incontrollabile che si presentava a tratti, un fremito fastidioso che lo portava a strizzare gli occhi ripetutamente. Come in quel momento. Con la mano libera dalla guida si allentò il nodo della cravatta, sbottonò il colletto della camicia e lanciò un’occhiata allo specchietto retrovisore sperando di intercettare quella corrente nervosa che portava l’occhio a titillare sgradevolmente…
Nulla da fare. La palpebra si contrasse di nuovo, ma ciò che poteva vedere nel rettangolo bombato dello specchietto era solo la strada. Polvere, granturco, una roggia che qualche camparo aveva appena aperto, un mucchietto di stracci rossi e qualche cespuglio. Rallentò di colpo. Mucchietti di stracci rossi che apparivano all’improvviso alle sue spalle non rientravano nel panorama usuale delle sue giornate!

Rallentò ancora, sino a fermarsi. La polvere si depositò, l’occhio diede un altro tremolio, e lui tornò a fissare la strada. Deserta, con la sua auto in mezzo ai piedi e il mucchio di stracci rossi di fianco alla carreggiata.
Giorgio non era un uomo di fegato e lo sapeva. Aveva frequentato l’istituto agrario del paese per non affrontare il viaggio in treno alla ricerca di qualcosa di più soddisfacente. Aveva interrotto gli studi di medicina per evitare lo stress degli esami e le code alla mensa. Si era adagiato nella routine della filosofia Moroni per non tenere testa alla figlia del capo, sua moglie, che premeva per il posto sicuro nella ditta del paparino. A dirla tutta, amava persino distribuire lo zimoferment (
prodotto innovativo formulato allo scopo di migliorare l’efficienza delle bovine), anche perché, in caso di problemi, chi ci avrebbe rimesso sarebbero state soltanto le interiora di una povera mucca, mica quelle di un cristiano. I suoi prodotti, beninteso, erano comunque capaci di performance eccezionali: anche le vacche stavano al sicuro.
Scosse la testa, allontanò i pensieri e diede una nuova sbirciata allo specchietto: il mucchio rosso era ancora là. Immobile.

Stracci, un mucchio di insignificanti resti… una vecchia camicia, una giacchetta perduta da un trattorista troppo preso dal lavoro… Forse una sacca, con qualche attrezzo decrepito… Non vale la pena fermarsi”.
Eppure rimaneva incollato a quella porzione di vetro che rifletteva nelle sue pupille il cumulo colorato. Spostò lo sguardo di qualche centimetro e incontrò finalmente i suoi stessi occhi. Erano quelli di sempre, l’identica sfumatura nocciola dell’iride, la piega obliqua del sopracciglio, l’arrendevolezza che lo faceva apparire mite e remissivo. Troppo. Insignificante e inetto: così appariva agli altri e, da qualche tempo, a se stesso.
Girò la chiave e finalmente spense il motore, senza staccarsi da quella immagine di sé che lo osservava.
Si rivide molti anni addietro, quando con i suoi compagni di gioco si sfidava ai tuffi dal ponte sulla Fiuma, il grande canale di irrigazione che costeggiava il paese. Rievocò il momento in cui sarebbe bastato poco, un nulla, per afferrare la mano di Riccardo che scivolava sotto. Sarebbe stato
sufficiente allungarsi, sporgersi in precario equilibrio, sfidare il coraggio vero, non quello artificioso del gioco, sentirsi capace di aiuto… Era rimasto fermo e aveva sentito lo scrollone di Giulio, che lo superava di corsa sbattendolo da parte, e si spenzolava, strappava su l’amico e lo metteva al sicuro.
Ma sei scemo? –, aveva urlato come un pazzo, ancora chinato su Riccardo che tossiva e sputava acqua dappertutto. – Sei scemo?? Non hai visto che andava sotto?”
Era rimasto ancora fermo, guardando i due, uno sdraiato, l’altro al suo fianco in ginocchio, e pensando a quello che aveva detto la maestra la mattina:

Il coraggio, se uno non l’ha, non se lo può dare”.
Ecco, se lo diceva la maestra, era vero, no? Questo voleva spiegare, ma era stato zitto, con Giulio che tirava in piedi Riccardo, occhi rossi e naso che colava, e l’occhiata che gli lanciarono entrambi, e poi la processione silenziosa fino a casa. Alla Fiuma non erano andati più.
Lo riscosse dai ricordi lo stridio di qualche uccello. Tornò a guardare lo specchietto, notò un movimento. Il rosso aveva mutato posizione?
Mise la mano sulla maniglia della portiera e spiò ancora il fondo della strada. C’era silenzio e sole e qualche ronzio lontano e se avesse visto il mucchio spostarsi, sarebbe sceso e sarebbe andato a controllare.
Ecco: un altro fremito, un debole svolazzo.
Fissò la mano poggiata sul volante, poi la strada bianca davanti a sé con i cespugli di rovi che si agitavano piano. C’era un’aria leggera, calda, quasi soffocante. Sufficiente a far muovere una vecchia camicia abbandonata sul terreno?

Sufficiente, sì”, mormorò piano.
Lasciò la maniglia, riprese il volante e rimise in moto. Il podere Landini non era lontano e quel pomeriggio avrebbe fatto buoni affari. Si concentrò sulla guida, mentre il muscolo della palpebra si contraeva ritmicamente.

riscrivo

Il 21 luglio avevo scritto
Arrivano i racconti, bene: mi raccomando, insieme al racconto anche delle brevi note sugli autori, grazie.

Alle ore 2 e 16 minuti del 14 agosto scrivo quanto segue:

Arrivano i racconti, bene: mi raccomando, insieme al racconto anche delle brevi note sugli autori, grazie. Almeno la metà di chi mi invia i racconti o mi scrive “te l’ho già mandata”, oppure “va bene quella dewll’anno scorso”, oppure mi scrive niente.

E poi: grazie a una persona che ha fatto il lavoro per me ora è possibile rivedere tutti i racconti di quest’anno, qui.

A 4 mani, 17° racconto: I giorni difficili

“I giorni difficili passano come tutti gli altri.”

Livia esce dal lavoro con quindici minuti di anticipo sul previsto senza dire il perché. In macchina mette il solito Vinicio Capossela. Guida con calma, aprendo completamente i finestrini dell’auto perché, ovviamente, l’aria condizionata si è rotta proprio ora che è estate. Controlla se ha la cartelletta verde sul sedile del passeggero. Bene, non l’ha dimenticata.

Paolo apre la custodia e mette il cd nel lettore dell’impianto Hi-Fi
Capossela mi è sempre stato sulle palle. Non riesco a capire come faccia Livia ad amarlo così tanto. Lei sicuramente avrà il volume al massimo in macchina mentre sta andando a fare quest’ultimo esame. Mi sono preso il pomeriggio di permesso ma non ha voluto che l’accompagnassi,  non era il caso dice, perdere mezza giornata di lavoro. Volevo starle  vicino come sempre, soprattutto ora che la vedo così in forma.

Sono quasi le quattro e l’appuntamento in Ospedale è per le cinque. Ferma al semaforo, i finestrini aperti senza l’effetto vento della velocità fanno solo entrare aria calda. Il tipo alla guida dell’auto accanto a lei gira un istante la testa, per darle un’ occhiata di sfuggita.
In quel periodo della sua vita Livia è un po’ troppo grassa. Ingrassare era una tragedia, fino a trent’anni. Tutti a dirle che non era importante, ma lei si ribellava a quell’ affronto estetico, come se fosse più importante di quello biologico.
Ora che i trenta sono passati, il peso è diventato un dettaglio trascurabile.

Paolo si siede sul dondolo in vimini, all’ombra sul balcone, una caraffa di acqua e menta colma fino all’orlo di cubetti di ghiaccio,  preme il telecomando dello stereo. Con la musica  inizia anche  il movimento oscillatorio della sedia.
Livia evita lo specchio ultimamente, dice che le medicine l’hanno fatta ingrassare. Non so. Io la trovo desiderabile  con quel vestitino bianco così leggero, io…Speriamo torni alla svelta  e su di morale così magari incrociamo le gambe stasera. Anche se da questa malattia non guarirà, i medici continuano a rassicurarci e incoraggiarci a vivere una vita normale.

I primi anni di matrimonio lei non si fidava di Paolo, del suo amore. Nei periodi in cui era più grassa poi, era certa che fingesse. Non può essere, pensava, che continui ad amarmi, che voglia ancora stare con me. Un ritardo di dieci minuti era perché un’altra lo aveva trattenuto.

Paolo ha amato quella ragazzetta dalla prima volta. Non riusciva a starle lontano, nonostante lei facesse di tutto per essere sgarbata. Alla fine glielo aveva detto della malattia cronica che l’avrebbe perseguitata per il resto della vita. Cosa importava, gli piaceva troppo, l’amore avrebbe superato tutto, il desiderio di stare con lei era più forte di ogni ostacolo.

La  mano di Livia esita sulla maniglia della porta della sala di attesa: sa già quello che l’attende. I volti sconosciuti che si trova davanti hanno l’ espressione di sempre: un sorriso strappato sulla bocca, i denti arenati sulla secca delle labbra, nella profondità degli  occhi riflessa, come specchio, l’immagine della propria angoscia.

E a veder che crudel destino ora ne viene
ma che l’ombra ora ci prenda più mi addolora
il mio cuore mi dice che non può seguirti ancora
e nemmeno questa angustia sopportar

Paolo pensa che Vinicio si sbaglia, o non è mai stato innamorato. Nascondendo il dolore dietro una maschera per  non esserle di peso, perchè non si preoccupasse anche per lui, soprattutto nei lunghi periodi d’isolamento in ospedale, il suo cuore non ha mollato mai davanti a  nessun ostacolo.

Ecco, pensa Livia, i momenti più difficili sono passati. Paolo è sempre meno angosciato. Paolo è ancora con lei.
Non c’è stato modo di farlo desistere, e sì che le ha provate di tutte.
Ad essere insofferente, insopportabile, cattiva. A mandarlo a quel paese. Lui si incazzava e contraccambiava, provava a trattarla male ma poi tornava sempre   all’ Ospedale, a casa, nel loro letto.
Ogni volta che Livia tornava a casa dall’ Ospedale, non importa quanto debole fosse, facevano l’amore. Non appena rientrati in casa, qualunque ora fosse, riaffermavano così il loro diritto ad amarsi anche quando la paura blocca lo spirito.

Che farò lontan da te pena dell’anima
senza vederti, senza averti, né guardarti

Un amore impossibile? No, forse per te pianista mangiaparole . Le parole comunque le scegli giuste, la musica mi piace un po’ meno, ma forse devo ancora farci l’orecchio. All’inizio la tua musica era l’unico ostacolo tra me e Livia. Quando arrivavo in casa lei subito spegneva lo stereo, sapeva che mi davi i nervi. Ora, sta a vedere che comincio ad apprezzarti.
E’ l’ora della pennichella per Paolo, dondolìo  e musica sono i preliminari per il sonno.
Vai vai tanto non è  l’amore che va via
Vai vai l’amore resta sveglio anche se é  tardi e piove
ma vai tu vai rimangono candele e vino e lampi sulla strada del destino.
Paolo è decollato.
Corse in ospedale, flebo,  prelievi,  attese,  lacrime…
e poi abbracci, baci, carezze, mani che scivolano sui corpi, sussurri,sospiri…
e poi di nuovo stanze vuote, silenzi, eco di passi  assenti nella casa, colazioni tristi, cene in piedi…
e poi  lenzuola pulite, profumo di fresco, tenerezze , orgasmi.
Si sveglia in un lago di sudore, la musica sta finendo…

E’ arrivato il turno di Livia, il numero sul display è di una unità più basso di quello che ha in mano. Quando arriva l’ infermiera, distaccata e gentile lei le va incontro e quella le fa cenno di seguirla.

Ma non è l’amore che va via
il tempo sì ci ruba e poi asciuga il cuor.

Cosa? Il tempo rubato? Asciuga il cuor? No no, credo di non averla capita questa, ne parlerò con Livia. Tutto questo tempo  di sofferenze, la pazienza necessaria al tempo dell’attesa e del non-ancora ha contribuito a farci conoscere l’entità del nostro amore e la possibilità di continuare a godercelo a piccoli morsi,  piccoli passi nelle semplicità delle piccole cose che ogni giorno offre.

Nell’ambulatorio il medico non c’è ancora e l’ infermiera le fa le domande di rito: età, peso, allergie particolari a farmaci. Lei è in età fertile, dice infine: se è incinta l’esame non si può fare, danneggerebbe il feto.

Ed ecco perché quell’ infermiera sconosciuta, distaccata e gentile ha avuto la notizia della sua gravidanza prima di Paolo, suo marito.

A 4 mani, 16° racconto: Due zone diversamente influenzate

Il golfo di Napoli è al centro di due zone diversamente influenzate dalle correnti: l’una a Nord con correnti a direzione stagionale, l’altra a Sud con correnti a direzione costante. I due rami, sovrapponendosi, creano la circolazione generale della corrente determinandone le due direzioni. La prima è quella detta di Ponente. Segue il percorso Capri, Penisola sorrentina, Castellammare, Torre Annu
Fu in quel momento – in quel preciso momento – che l’uomo tolse il volume al televisore. Lo schermo continuò a proiettare immagini di aliscafi, turisti e ragazzi scalzi che giocavano a calcio su un pontile.
Si alzò. Provò a finire la birra.
Si era scaldata.
La versò nel lavandino, guardò l’orologio e terminò la sigaretta lasciata a metà.
Poi andò a prepararsi.

Era arrivata a casa pedalando veloce sul lungomare.
Salì le scale, si poggiò alla porta, scostò i capelli che l’afa le aveva appiccicato al viso ed entrò.
Si spogliò camminando verso la doccia.
Dentro. Sotto l’acqua fredda, a spegnere quel dolore che spesso riemergeva. Soprattutto quella sera.
Alzò il viso, chiuse gli occhi, si fece pettinare i capelli dall’acqua.

L’uomo andò in bagno. Si insaponò la faccia e si rase con il bilama. Pelo e contropelo. Entrò in doccia. Dopo essersi asciugato tornò nella stanza del televisore.
Da quando viveva da solo aveva perso l’abitudine dell’ordine. Teneva gli abiti su divani, sedie e poltrone. Pescò dal mucchio.
Si vestì davanti al televisore con le immagini mute di una signora che assomigliava a Marisa Laurito. Era su una terrazza affacciata su un golfo e spiegava come fare un liquore di limoni. Aveva un cesto di capelli fermati da un mollettone che sfidava il vento.
Diede un’occhiata all’orologio.
Ancora presto.
Si tolse la camicia per paura di macchiarla.
Marisa Laurito mostrava come sbucciare i limoni.
Senza staccare gli occhi dai suoi capelli prese una birra dal frigo e si sedette sull’unica poltrona libera dai vestiti.

L’acqua le scendeva lungo il corpo, percorso da brividi, scosso da carezze prolungate. Socchiuse le labbra per bere e lasciò che il trucco sgocciolasse lungo le guance, lasciò che le gocce giocassero sul seno e rimbalzassero sui capezzoli finendo verso l’inguine, sulle gambe, sulle unghie colorate di blu.
Afferrò la spugna a forma di stella, il sapone al papavero e iniziò a frizionare la pelle dalla pancia piatta.
Un pensiero, subito da cacciare, venne fuori appena sentì la spugna sul ventre. Lui partiva da lì quando giocavano sotto la doccia.
Aprì gli occhi. Scosse la testa come a volere ammazzare quel pensiero mentre la stella al papavero continuava a carezzarle il corpo.
Ma non era la mano di lui. No.

Il caldo lo stava assassinando. Non smetteva di sudare. Aprì la quarta birra e guardò l’orologio.
I minuti si sedimentavano con la lentezza di un insetto che muore.
Tornò allo schermo.
Intervistavano un sottufficiale della Capitaneria di porto. Dietro, un muro di facce fisse verso la telecamera.
Bevve la birra.
Si passò una mano sull’addome.
C’erano stati anni in cui giocava a pallavolo in B2. Aveva muscoli che vibravano sotto pelle: era il suo modo di amare una compagna che non c’era più. Ora quegli anni erano lontani. Lo stomaco premeva contro la maglietta come qualcosa di morto.
Pensò alla donna che avrebbe visto di lì a poco.
Questo offre la casa, pensò sollevando la birra a mo’ di brindisi.

Uscì dalla doccia e andò in camera costellando orme di gocce al papavero. Andò verso la finestra. Il mare era un po’ increspato, come i suoi pensieri. Non aveva molte cose eleganti, la sua sensualità usciva ugualmente, lo sapeva bene. Afferrò un paio di pantaloni in mussola e una camicia leggera, molto scollata. Sandali bassi: la sua altezza era sufficiente a svettarla verso ogni altitudine di uomo. Lui era alto…
Ma stasera non sarebbe uscita con lui.
Via quel pensiero.

L’uomo salì in auto e guidò mezz’ora sotto il sole. Parcheggiò e camminò fino al luogo dell’appuntamento. La vide davanti alla vetrina a specchio di un bar.

La donna aveva fatto la strada velocemente. Pochi minuti per svuotare quei minuti dall’angoscia dell’attesa. Chiusa la bici con la catena si era messa con le spalle alla vetrina, il posto dell’appuntamento.

L’uomo vide i suoi capelli, di un nero tanto pitturato da sembrare una parrucca, l’abito inutilmente sexy, il trucco che le donne usano ai primi incontri come una difesa e una sfida.
Finalmente ci conosciamo, gli stava dicendo l’estranea.
Provò a confrontarla con le foto del sito per single in cui si erano conosciuti. Tentò di trovare una somiglianza con quelle immagini piene di splendore. Cercò una traccia, un appiglio, qualcosa a cui ancorare la disperazione che montava dentro.
Poi si vide nella vetrina. Vide il sudore che  macchiava la camicia, l’addome che tendeva il cotone, la sua faccia smarrita.
L’immagine di una donna che lo attendeva sotto la doccia salì come una bolla d’aria nella palude dei ricordi e quando toccò la superficie ed esplose anche il nulla in cui galleggiavano i suoi giorni esplose e l’uomo si disgregò su quel marciapiede, davanti a quella donna e sotto quel sole assassino.

La donna lo scorse arrivare. La prima cosa che notò fu la maglietta con la faccia di Che Guevara. Il Che, stava a ore a parlarne. Una volta da un viaggio sull’isola le aveva portato un perizoma con la stella del Che. Indossalo,  voglio vedere come ti sta… Che tristezza…
“Perché sono qui?”
Il pensiero saltò alla volta in cui lui, il lui vero, le toglieva il bikini su quella barca blu e rosa lentamente e le baciava il collo alzandole i riccioli biondi. Si erano sdraiati e fusi sul fondo della barca.
Andò via lasciando la bici legata al palo.

A casa l’uomo cancellò il profilo dal sito web e smise di mendicare incontri.
La donna tornò il giorno dopo a recuperare la bici. Qualcuno le aveva bucato le gomme. Il sellino era stato tagliato con  un  coltellino.
Fuori dalle loro abitazioni il mare continuò a separarli per gli anni a venire facendo, tutto sommato, il proprio dovere.

A 4 mani, 15° racconto: Complesso vocale

Non la trovava. Dopo un’altra ora di inutili affanni, sdraiato sul divano o accovacciato sulla poltrona, Filippo Tarchini cominciò a far i conti con la sconfitta: il nulla, il vuoto. Non un motto di spirito, una battuta valida, un’arguzia. Solo un continuo smarrirsi in una favola astrusa di cani parlanti con gatti sordi; una roba assurda, da autori privi di fantasia. Gli mancava qualcosa, stavolta. La sua padronanza, il suo slancio immaginifico, l’antica capacità di dar vita a un bisbiglio, un soffio o un sussurro, lo stavano abbandonando. Così, il discorso conclusivo di Mario Annibaldi, sindaco di Lucca, non quagliava. Il nulla, appunto, si stagliava ancora più nitido sullo sconforto, privandolo di un solo attimo di sano ottimismo. Il blocco si stava tramutando in doloroso ristagno.
Aprì un libro, il solito Fanfani, con la vaga fiducia di trovarvi una parola, una possibilità visionaria, uno spiraglio di sogno. Invano. Trovò solo una parola
arida, “infrastruttura”, non in grado, di sicuro, di procurargli stimolo alcuno. La mancanza continuava a circondarlo.
L’orologio a muro indicava l’approssimarsi di una nuova alba, un altro giorno infruttuoso stava spirando.
Allora, Filippo Tarchini, con la voglia di sgranchirsi un po’ muscoli, si alzò. I passi risuonarono sul tavolato in uno strano frastuono. I fogli, sparsi sullo scrittoio, sul tavolo riunioni, sul tavolino in soggiorno, continuavano a fissarlo. Bianchi, di un bianco immacolato, apparivano ora qua ora là, urlandogli in faccia tutta la sua incapacità. Dopo un po’, stanco di tali visioni, tornò a sdraiarsi, stavolta imbacuccato sotto un plaid di lana.
Ma, d’incanto, tutta la casa si trasformò ai suoi occhi. Intorno a lui sparirono i colori. I muri, i mobili di palissandro, l’abat jour ambrata, la natura morta di Jacopo da Cortona, il lampadario a soffitto, la sciarpa, i guanti, il soprabito, il portafoglio appoggiato su un ripiano: tutto bianco. Solo una mosca, volando da uno spazio all’altro, marcava di tanto in tanto un punto. Un punto sporco, sinistro, si mostrava a Filippo al modo in cui si mostra il maligno. Stava fissa solo pochi istanti, poi volava via. Ad ogni passaggio si udiva un ronzio via via più fastidioso, poi, quando di nuovo si posava, la sagoma scura appariva più voluminosa.
“Ora ti ammazzo, bastarda!” Lanciò una scarpa, con una forza smisurata, con tutta la rabbia accumulata dai giorni di stallo. Colpì la mosca, sopra l’armadio, vicino al soffitto. Un vaso di cristallo, urtato di rimbalzo, cascò, frantumandosi in migliaia di spicchi brillanti. Un rivolo limaccioso cominciò a mostrarsi intorno alla carcassa. Poi il liquido giallognolo colò piano sull’intonaco bianco, prima curvando a sinistra poi puntando in basso, in un tragitto bizzarro. Quando finì di aggrumarsi, lo sguardo di Filippo fu conquistato dall’impronta lasciata sul muro. Davanti a lui un simbolo, un avviso, una minaccia. Gli ricordava un film di Kubrick.
Pur raffigurata in modo approssimativo, appariva ora, con tutto il suo carico di ambiguità, una limpida,
grandissima E.
Ecco, disse, riconoscendo l‘impasse. Stupidamente, essere preda della privazione vocale è dannatamente esasperante e
d elimina qualunque possibile percorso semantico percorribile. Che succede? Perché queste E adesso entrano dappertutto? Liberatemi ve ne prego! E’ incredibile, credo che se continuerò per altre due, tre righe diventerò sempre meno libero e razionale. Ed esprimere pensieri, idee, istanze e desideri, speranze e convergenze politiche degne del Presidente della Regione (ché per quello concorre alle elezioni) diverrà difficile, forse impossibile. Me misero! Aiutatemi, deh!
Wilma Bellacci, la governante di casa Annibaldi, richiamata da un vociare sempre più concitato che sembrava provenire dalla biblioteca, si accostò per bussare. Quando entrò, trovò Filippo Tarchini, il ghost writer del Dottor Mario, come lei confidenzialmente lo chiamava, riverso
accanto al tappeto, la bocca spalancata e tanti piccoli frammenti scuri ai lati della labbra che sembravano colare come lava da un vulcano. Parevano schegge di natura ferrosa. Si avvicinò aggiustandosi gli occhiali sul naso: erano le minuscole lettere scivolate dai martelletti della Olivetti 32 con cui Filippo si ostinava a scrivere tutto, dai discorsi alle risposte di ringraziamento. Wilma diligentemente le raccolse. Qualcuno le avrebbe aggiustate, rimontandole ad una ad una da dove erano scivolate. Le ordinò scrupolosamente per facilitare il lavoro, ma si accorse che mancava la E. Dove diavolo era finita? Sollevò il tappeto: niente. Andò a prendere la scopa e passò ogni centimetro quadrato della biblioteca, sotto ogni mobile o suppellettile: niente. Filippo giaceva esanime, ancora svenuto. Avrebbe potuto essere sotto il suo corpo. Chiamò Osvaldo, il cuoco, e insieme lo sollevarono delicatamente e lo stesero sul divano. Niente nemmeno lì sotto.
Dato il protrarsi dello stato di incoscienza, fu chiamato il medico di famiglia. Costui auscultò Filippo Tarchini, il quale, dopo aver annusato un tampone imbevuto d’ammoniaca, si svegliò e incominciò a tossire. Il dottor Razio, gli sollevò la maglietta della salute e con lo stetoscopio premuto appena sotto le scapole gli intimò “dica 33”. Filippo, guardando nel vuoto, si sforzò ma non riuscì a pronunciare alcunché. Poi, d’improvviso, dopo l’ennesimo incoraggiamento del medico, finalmente parlò: “Tre, tre, tre belle pere, sette le mele delle megere, sette le pesche, sette le tette delle tedesche…”. Sembrava non potersi fermare più, continuò a cantare quella specie di filastrocca per alcuni minuti fino a che un conato di tosse un po’ più forte lo fece avvampare. E, prima che riuscisse a mettersi la mano davanti alla bocca, finalmente sputò il martelletto della lettera E.
Wilma, dopo averlo asciugato, lo allineò con cura fra la di e la effe.

Filippo Tarchini scrisse un discorso memorabile. Scaldava il cuore e accendeva gli animi.
Mario Annibaldi venne eletto con un plebiscito.

A 4 mani, 14° racconto: L’ultimo giorno

La prima volta che vidi Giulio pensai all’orsacchiotto sbilenco e dagli occhi sbilenchi – o almeno, così lo ricordo – con cui giocavo da bambina. Ho ripensato a quell’immagine, stamattina, quando mi sono fermata nell’atrio con lui.
Un’immagine dimenticata, tornata con il sole che illuminava i molti lavaggi della maglietta azzurra di Giulio, e i suoi occhi, e i suoi occhiali.
Guardavo i suoi occhiali io, mentre lui, girandosi leggermente, mi chiedeva di indovinare cosa avesse dentro lo zaino.
I suoi occhiali, già: gli hanno insegnato ad aggiustare la stanghetta destra con lo scotch, sono mesi che va avanti così, la stanghetta però, ogni tanto si ribella e rende ancora più precario il suo sguardo… ma forse questo lo sto pensando ora, perché so.
– Allora me lo dici o no? Cosa c’è nel mio zaino?, mi ha chiesto nuovamente, sempre girato, con lo zaino strapieno.
– Non saprei. Oggi è l’ultimo giorno di scuola, giusto?
– Ho i regali per i compagni. Poi parto, non li vedo più…
– Come parti? Per andare dove?
– Non lo so, neanche Emilia lo sa.
So bene dove vai, ho pensato.

Eccola Emilia. Lo stava aspettando con il motore acceso e con suo figlio Francesco, che va all’asilo. Ho acceso una sigaretta guardandola, ma più che di fumare avevo voglia di dire cose cattive a quella donna.
Per dieci mesi Giulio è stato il fratello maggiore del piccolo Francesco, e io, dal piano di sotto li sentivo giocare, sentivo Francesco correre e Giulio cantare, ed ero contenta di quell’allegria oltre il soffitto. Ma ero anche contenta di non essere come la vicina della mia infanzia che terrorizzava mia madre: Vado dall’amministratore, sentirà le sue, cara signora. Mia madre, che mi costringeva a usare i feltri sul pavimento incerato, e guai se il volume della radio era un po’ più alto, respingeva sempre le mie ragioni. Quando diventai più grande, se la incalzavo si torturava il mento con la mano, Se ci fosse tuo padre non avresti il coraggio di dire questo, sibilava. Per lei, io esagero sempre. Cumuli di ghiaccio, fra noi.

Ma per Giulio è molto peggio, cazzo.
Ora che Emilia aspetta un altro figlio per Giulio non c’è più posto. La casa, dice Emilia, è troppo piccola. Giulio, ragazzino usa e getta.
Giulio, dalla prossima destinazione sconosciuta: altra casa, una casa famiglia, stavolta. Spero tu sia più fortunato, piccolo.
Quando Giulio, in ascensore, mi aveva detto, cercando di aggiustare quello strazio di stanghetta – Ora che arriva un fratellino a Francesco non mi possono più tenere -, non ci avevo creduto. Aveva ricacciato in tasca il rotolino di scotch: non gli era riuscito proprio un bel lavoro.
La portinaia che sa tutto, perché – secondo me – origlia alle porte (è stata lei a dire a tutto il condominio che mio marito se n’è andato) però ha confermato. Giulio è stato un bambino usa e getta.
Mancava un particolare: la data di partenza. Ora c’è anche quella. Ultimo giorno di scuola, ultimo giorno nella famiglia che aveva bisogno di un figlio tappabuchi.

Adesso lo sto guardando, nascosta dalle persiane del mio soggiorno. Credo sia l’ultima volta che lo vedo. Sta salutando, goffo, qualcuno che, dalla mia visuale, posso solo immaginare. Mi viene in mente solo Emilia, è un’idiota quella donna. Quando le dissi che l’avvocato Dalmazi del primo piano si era sparato mi aveva guardata sorridente. Le avrei sputato in faccia allora, perché Dalmazi era un uomo dai modi garbati e un ottimo avvocato, le vorrei sputare ora, per Giulio. Ho bisogno di un fazzoletto: le lacrime ricacciate scendono poi dal naso. Meglio che vada di là, da mio figlio. E’ di buon umore oggi, ha voglia di parlare. E io devo ascoltarlo.

Il verde dura pochissimo. Se nessuna delle macchine davanti gira a sinistra forse ce la faccio a passare in questa tornata. Dovrei fare in tempo a fermarmi anche in lavanderia. Poco tempo tra l’uscita dell’ufficio e il rientro a casa. Un tempo contratto, da dividere tra mia madre e mio figlio Lele che adesso è all’allenamento: ma se dio vuole da domani va in vacanza anche la squadra di calcio. Ho bisogno di allentare il ritmo anch’io: lezioni di inglese, il calcio, le visite al suo migliore amico che sta dall’altra parte della città… queste mi sa che dureranno fino ad agosto.
Fortuna che c’è parcheggio sotto casa di mia madre.
E Giulio? Dove sarà ora? Non so come funziona. Dormirà già stasera in un’altra casa?
Devo correre, si sta facendo tardi.
Mamma… Lascia stare, stiro io, vorrei dirle, ma non mi permetterebbe di metter le mani su ricami che ringiovaniscono grazie al suo rapido arroventarli, in punta di ferro.
– Mamma scusa, cosa sono tutti questi biglietti per terra,?
Mi mostra la borsa, compiaciuta: l’ha ripulita e svuotata da foglietti vari, che però poi sono caduti. Ha aspettato me affinché li raccogliessi. Ha la schiena a pezzi, porta il busto e non ha certo la forza per piegare le gambe o pulire con la paletta.
– Mamma sei pazza? Cosa sono questi scontrini?
Mi guarda con la fierezza di un bimbo impaurito. Anche in fondo allo sguardo di Giulio c’era paura, stamattina: perché non l’ho abbracciato? è così esile.
– Spiegami, per favore.
Gli scontrini per terra sono della pasticceria che c’è qui sotto casa. Significa rischiare, mamma, perché il diabete va alle stelle, insomma: significa essere deficienti…
Guarda il vuoto, avrei voglia di abbracciarla. No, le darei modo di sciogliere lacrime e lingua: mio marito, il passato, le vicine di casa…
Da un po’ evito lo specchio del corridoio di casa mia perché mi ha mostrato – a sorpresa – lo stesso suo modo di deglutire.
– Ciao mamma, vado a prendere Lele.
– Senti…
La sua voce trema, ora l’abbraccio…
Il vapore inutilizzato ha formato una chiazza sotto il ferro da stiro.
– Perché stasera non venite da me tu e Lele, è un po’ che non si fa vedere.
Oggesù, mamma. Lele non sopporta te e forse nemmeno me. Una cena fredda? Lele rimpiange la sua vita di prima, suo padre.
Cos’avrà per cena Giulio stasera?
– Va bene, mamma. Cosa prepari?