La prima volta che vidi Giulio pensai all’orsacchiotto sbilenco e dagli occhi sbilenchi – o almeno, così lo ricordo – con cui giocavo da bambina. Ho ripensato a quell’immagine, stamattina, quando mi sono fermata nell’atrio con lui.
Un’immagine dimenticata, tornata con il sole che illuminava i molti lavaggi della maglietta azzurra di Giulio, e i suoi occhi, e i suoi occhiali.
Guardavo i suoi occhiali io, mentre lui, girandosi leggermente, mi chiedeva di indovinare cosa avesse dentro lo zaino.
I suoi occhiali, già: gli hanno insegnato ad aggiustare la stanghetta destra con lo scotch, sono mesi che va avanti così, la stanghetta però, ogni tanto si ribella e rende ancora più precario il suo sguardo… ma forse questo lo sto pensando ora, perché so.
– Allora me lo dici o no? Cosa c’è nel mio zaino?, mi ha chiesto nuovamente, sempre girato, con lo zaino strapieno.
– Non saprei. Oggi è l’ultimo giorno di scuola, giusto?
– Ho i regali per i compagni. Poi parto, non li vedo più…
– Come parti? Per andare dove?
– Non lo so, neanche Emilia lo sa.
So bene dove vai, ho pensato.
Eccola Emilia. Lo stava aspettando con il motore acceso e con suo figlio Francesco, che va all’asilo. Ho acceso una sigaretta guardandola, ma più che di fumare avevo voglia di dire cose cattive a quella donna.
Per dieci mesi Giulio è stato il fratello maggiore del piccolo Francesco, e io, dal piano di sotto li sentivo giocare, sentivo Francesco correre e Giulio cantare, ed ero contenta di quell’allegria oltre il soffitto. Ma ero anche contenta di non essere come la vicina della mia infanzia che terrorizzava mia madre: Vado dall’amministratore, sentirà le sue, cara signora. Mia madre, che mi costringeva a usare i feltri sul pavimento incerato, e guai se il volume della radio era un po’ più alto, respingeva sempre le mie ragioni. Quando diventai più grande, se la incalzavo si torturava il mento con la mano, Se ci fosse tuo padre non avresti il coraggio di dire questo, sibilava. Per lei, io esagero sempre. Cumuli di ghiaccio, fra noi.
Ma per Giulio è molto peggio, cazzo.
Ora che Emilia aspetta un altro figlio per Giulio non c’è più posto. La casa, dice Emilia, è troppo piccola. Giulio, ragazzino usa e getta.
Giulio, dalla prossima destinazione sconosciuta: altra casa, una casa famiglia, stavolta. Spero tu sia più fortunato, piccolo.
Quando Giulio, in ascensore, mi aveva detto, cercando di aggiustare quello strazio di stanghetta – Ora che arriva un fratellino a Francesco non mi possono più tenere -, non ci avevo creduto. Aveva ricacciato in tasca il rotolino di scotch: non gli era riuscito proprio un bel lavoro.
La portinaia che sa tutto, perché – secondo me – origlia alle porte (è stata lei a dire a tutto il condominio che mio marito se n’è andato) però ha confermato. Giulio è stato un bambino usa e getta.
Mancava un particolare: la data di partenza. Ora c’è anche quella. Ultimo giorno di scuola, ultimo giorno nella famiglia che aveva bisogno di un figlio tappabuchi.
Adesso lo sto guardando, nascosta dalle persiane del mio soggiorno. Credo sia l’ultima volta che lo vedo. Sta salutando, goffo, qualcuno che, dalla mia visuale, posso solo immaginare. Mi viene in mente solo Emilia, è un’idiota quella donna. Quando le dissi che l’avvocato Dalmazi del primo piano si era sparato mi aveva guardata sorridente. Le avrei sputato in faccia allora, perché Dalmazi era un uomo dai modi garbati e un ottimo avvocato, le vorrei sputare ora, per Giulio. Ho bisogno di un fazzoletto: le lacrime ricacciate scendono poi dal naso. Meglio che vada di là, da mio figlio. E’ di buon umore oggi, ha voglia di parlare. E io devo ascoltarlo.
Il verde dura pochissimo. Se nessuna delle macchine davanti gira a sinistra forse ce la faccio a passare in questa tornata. Dovrei fare in tempo a fermarmi anche in lavanderia. Poco tempo tra l’uscita dell’ufficio e il rientro a casa. Un tempo contratto, da dividere tra mia madre e mio figlio Lele che adesso è all’allenamento: ma se dio vuole da domani va in vacanza anche la squadra di calcio. Ho bisogno di allentare il ritmo anch’io: lezioni di inglese, il calcio, le visite al suo migliore amico che sta dall’altra parte della città… queste mi sa che dureranno fino ad agosto.
Fortuna che c’è parcheggio sotto casa di mia madre.
E Giulio? Dove sarà ora? Non so come funziona. Dormirà già stasera in un’altra casa?
Devo correre, si sta facendo tardi.
Mamma… Lascia stare, stiro io, vorrei dirle, ma non mi permetterebbe di metter le mani su ricami che ringiovaniscono grazie al suo rapido arroventarli, in punta di ferro.
– Mamma scusa, cosa sono tutti questi biglietti per terra,?
Mi mostra la borsa, compiaciuta: l’ha ripulita e svuotata da foglietti vari, che però poi sono caduti. Ha aspettato me affinché li raccogliessi. Ha la schiena a pezzi, porta il busto e non ha certo la forza per piegare le gambe o pulire con la paletta.
– Mamma sei pazza? Cosa sono questi scontrini?
Mi guarda con la fierezza di un bimbo impaurito. Anche in fondo allo sguardo di Giulio c’era paura, stamattina: perché non l’ho abbracciato? è così esile.
– Spiegami, per favore.
Gli scontrini per terra sono della pasticceria che c’è qui sotto casa. Significa rischiare, mamma, perché il diabete va alle stelle, insomma: significa essere deficienti…
Guarda il vuoto, avrei voglia di abbracciarla. No, le darei modo di sciogliere lacrime e lingua: mio marito, il passato, le vicine di casa…
Da un po’ evito lo specchio del corridoio di casa mia perché mi ha mostrato – a sorpresa – lo stesso suo modo di deglutire.
– Ciao mamma, vado a prendere Lele.
– Senti…
La sua voce trema, ora l’abbraccio…
Il vapore inutilizzato ha formato una chiazza sotto il ferro da stiro.
– Perché stasera non venite da me tu e Lele, è un po’ che non si fa vedere.
Oggesù, mamma. Lele non sopporta te e forse nemmeno me. Una cena fredda? Lele rimpiange la sua vita di prima, suo padre.
Cos’avrà per cena Giulio stasera?
– Va bene, mamma. Cosa prepari?