Luciana arrivò in sala da pranzo, una mano premuta sulla bocca.
Poi tirò su un sospiro, come a raccogliere coraggio, e tutto d’un fiato disse:
«È arrivato. Aspetta in stazione. È solo. Dice che mamma non è voluta partire.»
Per un attimo nessuno reagì, poi presero a parlare tutti insieme, fino a che Dante sbatté un pugno sulla tavola, appropriandosi del suo ruolo di fratello maggiore.
«State zitti!», urlò « Cosa significa che non è voluta partire?»
Luciana rispose come tra sé e sé:
«Non me l’ ha detto, il motivo. Ma deve essere qualcosa di serio. Non sarebbe mai venuto da solo.»
Fu a questo punto che Milena, la più giovane dei nipoti, si alzò da tavola e corse in camera sua. Si buttò sul letto e scoppiò in singhiozzi.
Amava tanto sua nonna. Fin da bambina aveva sentito in lei una vitalità di solito estranea alle persone di quell’età.
Da lei aveva appreso a essere forte, a non lasciarsi intimidire dalle compagne più prepotenti, a non giudicare, a rispettare ogni diversità.
Ora capiva che doveva aver avuto dei motivi veramente seri per non essere partita.
Aveva intuito, dai discorsi che ultimamente le faceva sua nonna, che qualcosa era cambiato in lei. Quando erano andati a trovarla, a Pasqua, le era anche sembrato che fosse mutato il suo approccio con gli altri famigliari: l’aveva osservata mentre ascoltava le recriminazioni ora dell’uno ora dell’altro, le lamentele per il lavoro, per il carovita, per le vacanze saltate, per la disubbidienza dei rispettivi figli. Sembrava che non li udisse veramente, come fosse assorta in altri pensieri. Rispondeva con cenni del capo, brevi commenti, sorrisi di comprensione. Ma soprattutto taceva.
«Mi hanno stancata tutti», prese a dire, come se ci fosse qualcuno ad ascoltarla. E intanto chiudeva la valigia, e controllava ancora una volta che il biglietto aereo fosse nella borsetta, e fermava le persiane.
«Mi ha stancata lui, con i suoi ridicoli tradimenti, con il suo paternalismo, con le sue recriminazioni. Te ne ho date, di cose, in questi cinquant’anni, mi ha detto ieri. Mi hanno stancato i figli, e i nipoti, egoisti, opportunisti, capaci solo di arrivare qui in massa, per le feste, e solamente perché in città i divertimenti non mancano. Mai a chiedermi mamma, hai bisogno. O a dirmi: nonna, ti voglio bene. Ma tutti: fai, devi, dammi. So bene che è stata Luciana a organizzare la festa. Per ammansirmi, sperando che io dica sì, te li do io i soldi per il negozio che vuoi aprire. Ma io, queste nozze d’oro, non le festeggerò. Che sono d’oro matto, queste nozze.»
Prima di lasciare la casa, le cadde lo sguardo sulla foto che ritraeva lei e Milena. Un groppo le strinse la gola. Milena, che era diversa da tutti loro.
Il caffé gli bruciò il palato. Imprecò fra i denti, e sbatté la tazzina sul banco. Il cameriere lo guardò sollevando le sopracciglia, poi riprese ad asciugare i bicchieri. Cazzo hai da guardare, ringhiò Umberto in silenzio. Almeno arrivassero presto, pensò. Che lo sappiano subito che la madre non vuole più né me, né loro.
La rabbia gli premeva dietro le costole, e spingeva per uscire e lacerargli la carne.
Dopo cinquant’anni sua moglie gli ha aveva detto: ti lascio. Così, di punto in bianco, ti lascio, gli aveva detto, poi se n’era andata in camera, chiudendosi la porta alle spalle. Dopo tutto quello che lui aveva fatto per lei. Pensò alle donne che aveva lasciato, per lei. Avventure, ma anche storie importanti. Pensò ai figli che le aveva permesso di avere, per quella sua stupida voglia di maternità. Fosse stato per lui, uno sarebbe stato più che sufficiente. Solo un fastidio, i figli. Pensò alle ore di straordinario, fatte per racimolare qualche soldo in più, per la casa, e le vacanze, e gli studi dei figli. Ti lascio, gli aveva detto.
«Chissà cosa farà, adesso, senza di me. Ho fatto sempre tutto io, in cinquant’anni», masticò fra i denti, dirigendosi in bagno.
Lo specchio sopra il lavandino gli rimandò l’immagine consumata di un viso grigio di stanchezza. Gli salì un tremito, dentro, e la rabbia lo abbandonò di colpo, lasciandogli un buco fra il cuore e la pancia. Un vecchio cane abbandonato, gli venne da pensare.
Poi scoppiò a piangere, con dei singhiozzi raschianti, che si annodavano in gola.
Il tassista sistemò le valige nel bagagliaio, poi chiese dove dovesse portarla.
Lei non rispose. Se ne stava assorta, e fu riportata alla realtà dalla voce che per la terza volta le chiedeva, stavolta perentoriamente: « Allora dove la porto, signora?»
«All’aeroporto”, rispose.
Mentre il taxi procedeva lentamente sulla strada intasata dal traffico, ebbe modo di riflettere, ripercorse molte delle tappe principali della sua vita di moglie, di madre, di nonna.
Scosse la testa come per scrollarsi da un insetto invisibile. Forse non era necessario andarsene, sarebbe stato troppo doloroso anche per lei, pensò. La raggiunse una consapevolezza mai avuta prima: avrebbe dovuto chiarire a tutti che non era più disponibile a richieste che non tenessero conto delle sue esigenze. Sapeva che le cose non sarebbero radicalmente cambiate, ma avrebbe parlato, oh sì, che avrebbe parlato!
Toccò la spalla del tassista:
«Scusi, non all’aeroporto, mi porti in stazione», disse
Promise a se stessa che non avrebbe più permesso a nessuno di disporre del suo tempo e che avrebbe preteso rispetto per ogni sua scelta. Da tutti. A cominciare da Umberto. Ci aveva tentato, in passato, ma poi si era arresa. Questa volta, però, sapeva di avere una grande determinazione.
Il biglietto aereo l’avrebbe conservato, per ricordarle la sua decisione. Non sarebbero stati soldi buttati. In fondo stava comunque intraprendendo un viaggio: verso una libertà ottenuta non con rivoluzione, ma con la riflessione.
Alla stazione, ad aspettarla, c’erano Umberto e Milena. Lui non le disse niente: si avvicinò e le fece una carezza sulla guancia. Lei lo guardò negli occhi, poi accolse fra le braccia Milena e sorrise.
Più tardi le avrebbe parlato. Ma sapeva che avrebbe avuto in lei un’ alleata formidabile.