Le piastrelle a terra sono fresche mentre il caffè riscalda la tazzina. Barbara si accorge che lo zucchero di canna non basta a vincere l’amaro, scosta il piattino e si veste.
Il sacchetto dello zucchero raffinato troneggia sugli scaffali del supermercato, come un piccolo buddha bianco. Sarà lui l’oggetto del dissidio che porterà alla dissoluzione, sembra saperlo già, a vedere dal modo con il quale si sfalda e scende a cascata nel contenitore di casa, grano dopo grano.
O forse no, forse nessun calcolo può prevedere se un comune accordo rimarrà tale o se si dividerà all’infinito senza tregua.
“Siamo la misura di tutte le cose”, si ripeteva come un mantra, uno dei tanti, Alfredo. Vecchie reminescenze filosofiche del liceo: con “uomo” Protagora intese il singolo individuo e con “cose” gli oggetti percepiti attraverso i sensi. Quindi, pensava Alfredo, anche gli altri individui. Anche Barbara, con la quale aveva tanto condiviso, diventava “cosa” con cui misurarsi e di cui egli stesso diventava misura. Nel misurare non c’è giudizio ma solo constatazione: due cose comparate misurano uguale o hanno lunghezze diverse. “Ognuno sia conforme a sé”: un altro mantra, quello della sospensione del giudizio. Che lo zucchero preferito, raffinato e non più di canna, possa davvero costituire lo scarto? Questo insignificante dettaglio dell’esistenza, del ménage quotidiano, può davvero diventare il pretesto delle differenze che separano, delle “differenze negative”, come le aveva battezzate Alfredo? Poteva questa differenza di misura aprire un baratro tanto profondo? Ad Alfredo sembrava inverosimile. Sarebbe stato come cancellare di colpo tutti gli eventi e le cose che invece erano state misurate con ugual metro, con analogo criterio. No, era una sciocchezza. Ci rise sopra.
– Perché ridi?
– Pensavo a quando usavo le zollette, prima di incontrarti e di come tu mi avessi convinto all’etica del consumo equo solidale e contro il processo inquinante della raffinazione.
– E adesso?
– “E adesso” e adesso lo usi tu.
– Se sei ancora convinto, non devi per forza adeguarti a me. Si vede che sto invecchiando: quello di canna lo trovo insufficiente per zuccherare…
Barbara si alza ma il suo sguardo è scostante, non ha voglia di nulla, le sembra che una folla esanime di decimali la stia rincorrendo, come a cercare il valore esatto di una soluzione irrazionale.
– La coerenza non è mai stato il tuo forte – (azzarda Alfredo)
– Credi? Credi che la coerenza sia di questo mondo?
– Forse è il caffè che non va bene, potresti cambiare marca.
– Ci ho pensato, ma non credo… comunque adesso sei tu che potresti spiegare a me, se ti va, perché con il caldo che fa chiudi tutte le tapparelle, mi sembra assurdo, manca l’aria.
– Aria calda, apri la finestra ed entra aria calda, la casa è tutta al sole di giorno, se la tieni chiusa almeno resta fresca.
– Sì ma allora di notte apriamole queste tapparelle.
– Apriamo le finestre, ti va? Solo le finestre, mi sembra un buon compromesso, con le tapparelle abbassate altrimenti le zanzare mi uccidono.
– Mordono solo te… facciamo così: mi metto sul divano, porta chiusa, al buio, finestre spalancate.
Alfredo in un istante si rende conto o forse solo inizia a presagire, che gli eventi stiano barcollando, come prima di un salto o appena subito dopo, quando si atterra. Con l’esito di rimanere stabili o perdere la strada. Quanto può dire di conoscere Barbara? Quanto possiamo dire di conoscere in generale chi abbiamo intorno? Alfredo ricordava stupito di quando il padre raccontò anni addietro alla madre – una vita trascorsa insieme, come usava nelle generazioni precedenti – di essersi fatto fare l’unica volta la barba in vita sua dal barbiere solo in occasione del loro matrimonio. E di come la madre rimase del tutto sbalordita di fronte all’aneddoto raccontato in vecchiaia da quell’uomo, che poteva dire di conoscere come il maggiore dei suoi figli. Un aneddoto insignificante, un dettaglio per un osservatore esterno, con l’occhio non abituato alla grana fine della misura più intima e prossima di coloro che abbiamo attorno e a cui vogliamo bene; un dettaglio però di quelli che rivelano molto di una persona abitudinaria come il padre.
E adesso? Adesso si trovava di fronte a questa inattesa estraneità, a questa nuova mancanza di comune misura con Barbara: quello che è sembrato essere per molto tempo il loro massimo comun denominatore era divenuto, per un’alchimia ancora tutta da comprendere – ma l’avrebbero mai compresa? – un numero diverso, dissonante, la cui frequenza, le cui armoniche erano ancora una volta non divisibili secondo un metro comune. Non coincidevano, generando una musica sghemba, scoordinata, della quale sorridere con imbarazzo.
Quell’imbarazzo che rimase sulla faccia di Alfredo quando guardò con affetto una Barbara lontana, immersa nel suo caffè addolcito dallo zucchero bianco.
*Il termine “antiferesi”deriva dal verbo “anthuphaineô”, utilizzato da Euclide negli “Elementi” (libro VII, proposizione 1). La parola è composta da “huphaireô”, che in questo caso significa “sottrarre un po’ per volta”, e dal prefisso “anti-”, cui oggi siamo soliti dare un senso di opposizione tra due cose, ma che può anche indicare, in modo più neutro, l’idea di due cose che stanno una di fronte all’altra, che si corrispondono. L’antiferesi, quindi, è una “sottrazione reciproca”. Si tratta, originariamente, di un metodo sistematico dato da Euclide per trovare il massimo comun denominatore tra due numeri.
[…]
È quantomeno curioso il fatto che Euclide, pur evocando esplicitamente questo metodo come un mezzo possibile per determinare se due grandezze “a” e “b” sono commensurabili o meno, non lo utilizzi mai in una dimostrazione di incommensurabilità.
(da Benoît Rittaud “La favolosa storia della radice quadrata di due”, pag. 272 e 275)
Allora, una spiegazione così lunga per il titolo la dice lunga. Anche se ringrazio gli autori per avermi spiegato il significato del termine. Ma giuro che lo avrei capito lo stesso, leggendo il racconto. Perché questo racconto ha il pregio di raccontare il nulla, un nulla che ci appartiene nella vita quotidiana delle coppie. Che poi è la cosa più difficile da raccontare. E’ effettivamente un racconto che sfoggia una certa cultura, ma in fondo leggere vuol dire (quando ci dice bene o abbiamo saputo scegliere) imparare. Quindi, grazie agli autori che entrano nella mia piccola classifica.
1) Anni sereni
2) Il primo figlio
3) Antiferesi
4) la casa del mais
5) la confraternita della banacauda
6) strategie di mercato
7) E poi
8) A caccia di arcobaleni
8) il tempo necessario
Mi è piaciuto molto. Leggero ed elgante nel raccontare la sotterranea pesantezza del vivere.
Toglierei la spiegazione finale. Non amo le note e le spiegazioni quando c’è di mezzo la narrativa (di solito non adotto mai un libro di narrativa che ogni tot pagine mette una noterella a spiegare questa o quella parola). Il titolo rimane per qualcuno comprensibile, per altri misterioso, amen. Se poi voglio sapere che significa, prendo in mano un dizionario o un ‘enciclopedia. Altrimenti mi tengo il mistero e il titolo così com’è.
Non è tardi, vero? tornare indietro e dire bello, bello davvero.
il commento 11 è puro genio.
che lo accetto è implicito, ma non scusarti, non hai niente da “ammettere”, almeno con me. un abbraccio.
Non si tratta di fare i populisti, Lucy, non è una colpa nè aver cultura (ci mancherebbe…), nè averne poca, è ovvio. Ma l’impressione che ho avuto da questo racconto è che le 4mani, di cultura, abbiano voluto far sfoggio. A cominciare dal titolo.
Mia impressione, ripeto. Una sensazione che ho avuto anche leggendo l’arci-famoso L’eleganza del riccio, dove l’autrice, con una invadenza irritante rispetto ai personaggi, sembra che stia sempre lì a dire: ehi, guardate quante cose so, io.
E poi sarà che il caffé io lo prendo amaro… e “il piccolo budda bianco” lo lascio sugli scaffali del supermercato…
Comunque mi hai fatto ridere, con il finale del tuo commento…
Milvia
@Lucy non è un vanto , affatto e ammetterlo costa, forse non sai quanto.
Ho apprezzato il tuo commento, ti chiedo solo di accettare anche il mio, tutto qui!
Sinceramente ho faticato a finirlo. Il prologo mi ha annoiata, non perchè incomprensibile, ma perchè volutamente dotto, ripetitivo nelle “misure” al punto da sottrarre equilibrio a tutto il racconto. Che racconto non è, a mio impudico parere, dal momento che manca di narratività.
In un 6000 battute bisogna tenere il ritmo e qui c’è una sproporzione palese, che stanca ancor prima di arrivare ai fatti.
Niente da eccepire sulla scrittura, uno spunto originale solo per modo in cui è affrontato, che è già un ottima cosa, ma non basta.
Quando solamente il titolo richiede righe di spiegazioni vuol dire che non ci siamo.
scusate, ma qui tira aria di populismo. sta’ a vedere che mo’ facciamo a gara a chi può vantare la cultura più bassa possibile, come se averne un po’ di più e magari specializzata, fosse una colpa in un contesto “popolare” come questo, di scrittori in erba, si sarebbe detto ai tempi di donna letizia. io lascerei sul comodino la cultura alta e meno alta: qui c’entra la voglia di capire e apprezzare, cioè dare-saper dare un giudizio. ogni persona onesta e normodotata ne è capace. che poi si leggono fior di cavolate per mano di critici accreditati!
sicome che ho fata la seconda lementare in provincia di rovigo soto il fassismo non sono buona gnanche a legere e a scrivere, me non mi piace sto raconto, massa difìssie par i me’ gusti. forse cussì va mellio.
:DD
Mi piace il commento conciso di Sonia. Breve, ma molto azzeccato, e da me (che ho una cultura simile a quella di Fausto), pienamente condiviso, quel suo “eh?”.
Milvia
@Sonia scusa è proprio andata così. ero convinto che l’eh! fosse riferito a me.
Un caro saluto
fausto
sarà che preferisco la matematica raccontata a quella da svolgere quindi a me questo pezzo è piaciuto. e ritengo che, nella dimensione del racconto, una scrittura di questo tipo trovi la sua giusta misura.
@Lucy, credimi leggo tutti i commenti volentieri, soprattutto i tuoi, e imparo imparo, continuo ad imparare e sono contento di partecipare a questi concorsi o come si vogliono chiamare, per incontrare persone che hanno tanto da insegnare( e non lo dico con ironia).Ma voglio farti capire che come lettore mi pongo semplicemente davanti agli scritti per trovare piacere nella lettura, e se dopo una pagina mi fanno passare la voglia di continuare perchè dovrei mentire?
L’ho scritto anche sulla nota sopra io ho una cultura medio-bassa , ma ho letto moltissimo, come tanti, e molti libri li ho gustati, altri bevuti altri riportati in biblioteca alcune volte anche incazzato. Non trovo niente di male ad esprimermi così. E comunque a tutti ho fatti i complimenti non per essere simpatico ma perchè penso che se non piacciono a me sicuramente ci sono tanti lettori che li apprezano e applaudono e di questo non posso che esserne felice.Mi conosci un pochino no?.
Un abbraccio dal falconiere .
Fausto, credo ci sia stato uno scambio di persona: forse rispondi a Lucy, visto che non ho ancora avuto il piacere di scambiare quattro righe con te.
A meno che il qui pro quo non nasca dal mio “eh?”, non riferito al tuo commento (che condivido tra l altro) ma al racconto che, da beata ignorante non ho capito molto.
in ogni caso ricambio il saluto.
@ Fausto: credo che “eh?” scritto da Sonia sia riferito ai commenti precedenti e non al tuo.
Probabilmente ha scritto mentre scrivevi tu e non ha neanche letto il tuo commento.
Mi permetto di intervenire, cosa che non faccio mai, solo perché conosco bene Sonia. Siccome i fraintendimenti sul web sono frequenti è sempre meglio chiarire subito, quando è possibile.
Ma, meglio di me, scriverà l’interessata.
@Sonia, partecipo come autore e come autore accetto tutte le critiche e porto a casa cercando di imparare.
Partecipo anche come lettore , un comune lettore della strada, con una cultura medio-bassa che entra in una libreria per acquistare un libro da leggere, apro una pagina a caso e leggo poi decido se acquistarlo o no. Se leggi tutti i miei commenti ti accorgerai se questo è o no il mio atteggiamento. non acquisto mai un libro leggendo la presentazione sul retro, non mi fregano più , sono appassionato di musica e non leggo le recensioni , , la musica si ascolta, ognuno ha i propri gusti e sensibilità.
Nessuna polemica solo un parere da uomo della strada in tutto il concorso a 4 mani.
Remo ha espressamente chiesto a tutti di esprimere un parere, io lo sto facendo, tutto qui.
Un caro saluto.
Marchetti Fausto
Indubbiamente il protagonista sa “misurare”, visto che questo termine è ripetuto continuamente, anche quattro volte in due righe. Poi è un esperto conoscitore di tipi di zucchero, che sa far cadere “grano a grano” (beato lui, io ci ho voluto provare e me ne sono rovesciato addosso un fiotto), però ha un equilibrio fragile, rotto, non ho capito bene se dal fatto che le zanzare pungano solo lui (ci credo, con tutto quello zucchero che mangia) o dallo stupore della madre che il padre si fosse fatto una solo volta la barba dal barbiere (circostanza che senz’altro per noi tutti è foriera di dubbi sulla reale identità di una persona.)
Un racconto in cui tutto è pesante, anche il titolo con tanto di nota e soprattutto lo sfoggio di “cultura” filosofico matematica che ne annulla la già esile trama.
Perciò sono sicura che piacerà moltissimo e si candida già da ora fra i favoriti.
no, falcon, sbagli a parlare così. perché qualcuno dice colta riferendosi alla scrittura, perché definisco io colto un termine letterario con cui indicare un aspetto del racconto, tu lasci? a me pare che il racconto sia così scorrevole che chiunque lo può agevolmente leggere. anzi: molto più agevolmente di altri un po’ impapocchiati che ho letto. non scambiamo le emozioni strappacore, torcibudella per le uniche meritevoli di essere raccontate. non scambiamo per artistico il linguaggio enfatico. se tu hai capito qualcosa di me, sai quanto teorizzo e cerco di praticare una scrittura lineare, diretta, non esente però da un minimo di eleganza che tu mostri di apprezzare. ti spaventa la nota in calce al racconto? beh, posso convenire con te che poteva essere evitata, risultando dottorale. ma il racconto vero e proprio no, eh, fausto! ricréditi. e abbi maggior fiducia nelle tue possibilità di comprensione.
eh?
Racconto per gli addetti ai lavori specializzati. Per quelli come me che vanno di piccone e badile é da lasciare tranquillamente sugli scaffali con lo zucchero raffinato. Vorrà dire che aggiungerò al caffè un altro cucchiaio di zucchero di canna per addolcirlo come piace a me o forse mi berrò una birra che è meglio. Sono abituato a volare molto più in basso, anzi non volo più mi accontento di fare il falconiere.
Mi spiace che in uno scritto si faccia di tutto per farmi sentire ignorante, purtropo gli anni per me sono passati e non posso più recuperare.
Complimenti agli autori, ma per me è troppo.
Marchetti Fausto
le persone cambiano ma non ce ne accorgiamo tutto in un colpo. secondo me ce ne accorgiamo gradatamente, solo che non ne siamo consapevoli se non al punto di rottura. una formula, di fatto, matematica. un difficile equilibrio di “sottrazione reciproca”. io trovo che questo brano non sia nemmeno confrontabile agli altri senza con ciò intendere che questi ultimi siano non classificabili, bensì che esso sia, come dire, fuori concorso. e mi piace anche la leggerezza e lo sguardo sornione con cui gli autori sembrano stare alla finestra a leggerci.
poi.
secondo due mani si sono occupate dei discorsi diretti. altre due del resto. si nota, intendo, ma ci sta. non c’è scarto evidente se non nella scelta della forma. e anche questo non è cosa da poco.
a me è piaciuto molto
non volevo commentare più perhé mi ero un po’ seccata del fatto che “non si potesse” più di tanto criticare o scherzare. ma questo racconto mi spinge a ritentare perché mi pare abbia dei pregi da segnalare: di pulizia espressiva, insieme al fatto che racconta quel “niente” in cui ci si imbatte nella vita, che ti apre nuove prospettive: ironiche, disperanti, dolorose, non importa. si dice, con parola grossa, epifanìa, come credo ciscuno sappia: e questo racconto merita l’evocazione di un termine letterario colto. quanto alla matematica, è un linguaggio che si presta, se ho capito correttamente, ad illustrare il tema: che è quello di una qualche misurazione, contabilità, bilancio, ripartita, come se ne fanno nella vita a due. è lo spaccato, fatto di poco, che è la vita di tutti i giorni, in cui un gesto a volte fa irrompere una visuale mutata: perché le persone cambiano, e ce ne accorgiamo, se ce ne accorgiamo, di solito, tutto in un colpo. seimila battute equilibrate, scorrevoli ed eleganti. per me è il primo della lista.
Non so, ha qualcosa che non mi convince. Concordo con Milvia e con Morena.
Però è molto probabile che abbia delle qualità che a me sfuggono.
Non essere d’accordo, Sterno, è una cosa molto sana ed è lo stimolo per discussioni proficue. Ciò che ho scritto è la mia idea, non la verità, che, come sappiamo, non esiste, soprattutto quando si discute di parole.
Se a tutti piacessero le stesse cose avremmo l’appiattimento totale, anche nel confronto.
Non sono d’accordo Morena. Raccontare l’ordinario con due frasi è cosa assai comune, basta un minimo di sintesi. Trasformare l’ordinario in straordinario, invece, è cosa rara, e mi pare che il racconto lo dimostri.
non mi è piaciuto.
per la ragioni di morena, ma anche per questo insistere (che a me sembra) ammiccante sul tema della matematica.
Faccio mie le parole di Morena. Non trovo altro da aggiungere.
Milvia
Un bel giro di parole per dire una cosa che si poteva riassumere con due frasi.
Una bella scrittura ma troppo piena, troppo ‘colta’.
E mettere un titolo che richiede così lunga spiegazione è forse una scelta azzardata. Io preferisco i testi più semplici (che non significa banali)