Caro diario,
non è la prima volta che apro le tue pagine bianche per riempirle con le mie parole piene di angoscia e di tormento contrastato. Sono dimagrita di un altro chilo, ormai non riesco più a controllare il mio peso perché ho perso l’interesse per il cibo, come per qualunque altra cosa che non riguardi lui. Lui, il mio amore e la mia trappola. Mi sento legata ad un qualcosa che non mi appartiene più da molto…forse da sempre.
Lo guardo, ma lui non mi vede, è così sicuro di avermi accanto a sé che non sposta il viso per accertarsi della mia presenza nella sua vita. Non tende più la mano per toccarmi, siamo come legati da un filo invisibile che però ha il peso di una catena. Sento che essa sta andando a fondo, sempre di più, trascinando i nostri corpi senza vita, che non osano opporsi, che avvertono l’oscurità che li circonda, ma non reagiscono.
Ho parlato tanto in questi anni, ma ogni mia parola si è schiantata nel vuoto di uno schermo che non ha mai ascoltato, è arrivata ad un cuore gelido che non ha mai voluto il mio calore.
Ho amato questo cuore più di quanto lui amasse me, ma ormai la mia mano e me stessa siamo diventati freddi. Freddi in ogni senso, freddo è ormai il mio sentimento, come il suo sguardo quando gli sono davanti. Anche quando dice di amarmi, il suono di queste parole mi sembra freddo.
Non riesco a mettere la parola “fine”, troppo tempo abbiamo passato insieme e troppe cose ci hanno legato, uniti fin dal mio primo bacio alla sua prima volta, provando insieme forti esperienze…o forse erano solo tappe necessarie di un percorso di vita…mi chiedo sempre come sarebbe stato affrontarle con qualcun altro.
Chi può dire se amore o curiosità ci hanno spinti l’uno nelle braccia dell’altro e se abitudine o vera unione ci abbiano legato insieme per così tanto tempo.
E’ una ragnatela, mi sento in trappola tra i fili di questa prigione che più mi allontano e più mi richiama a sé, sono inerme in questa gelida gabbia confusa con sentimento.
Non ho il coraggio di prendere quelle forbici che attendono la mia presa, per tagliare i fili di questa ragnatela e scrollarmi le catene che porto addosso, per cominciare a volare.
Ho bisogno di volare.
Anche se dovessi avere vita breve come una farfalla dalle ali ramate, la vivrei libera senza catene, sentendo sul mio viso l’aria fresca che mi accarezza e che mi fa sentire nel corpo quel brivido che ormai, da troppo tempo, non riesco più a provare.
Caro diario,
rileggendo queste pagine ormai ingiallite e dimenticate dall’esigenza di vivere, non riesco ad indossarne, ormai, nemmeno una parola… saranno,forse, i chili abbondantemente ripresi dal germogliante riverbero delle mie ali. Ebbene sì.
Ho finalmente imparato a volare. Da sola.
Ho imparato l’arte dell’equilibrio e le acrobazie tra i rivoli di vento…mentre fingi di assecondarlo in realtà stai preparandoti ad andargli contro,o incontro, forse. Sapessi che sensazione! Gli entri dentro d’improvviso e sinuosamente, come in un tango, che ti cinge e ti volteggia come fa la passione con gli amanti. Una danza che balli da sola,conducendoti.
Da tempo non costeggio più le rive dei miei ricordi. Ho capito che non serve, nemmeno camminare su quell’orlo in punta di piedi per timore di disturbare la malinconia, quella che ad un tratto, furtiva come una ladra, ti getta addosso i coriandoli dei giorni passati, senza chiederlo.
Per questo evito gli orli e le rive.
Preferisco i campi di grano, il fruscio indorato delle sue spighe, gli spazi aperti dei campi sui quali correre a piedi scalzi, senza direzione, se non quella scombinata di passi incerti.
Come potevo preferire le sbarre certe dell’abitudine all’incertezza della libertà? Come potevo scegliere lui a me, con l’illusione che si trattasse di un noi? Mi trattenevo vigliacca dietro la sottana dell’amore, senza il coraggio di rivelarne la sua crudele nudità. Il mio corpo scheletrico ricoperto a stento da un’ipocrita sottana di seta, riluceva di bugie, seducendo solo la mia inettitudine, l’idea di un desiderio fantasma, mentre lui spegneva la abatjour e voltandosi dall’altra parte si addormentava.
Non leggevamo più, come facevamo un tempo, prima di addormentarci e i nostri dischi non accompagnavano più il caffè la domenica mattina o le sere di pioggia le nostre cene, quando l’umidità profumava di muschio la nostra casa. Quando raramente lo facevamo era un consenso implicito alla consapevolezza di una fine.
Quello che mancava ad entrambi non aveva nulla a che vedere con l’amore. Mancavamo a noi stessi. Semplicemente. Eravamo l’uno la morsa dell’altro. L’ombra indistinta di due corpi troppo vicini per distinguersi.
L’amore non può fondarsi sulla dipendenza, se non nella misura in cui la si vuole. Io pendevo letteralmente dalle sue labbra. Senza iniziativa. Senza un desiderio che non fosse il suo. Non osavo chiedere, solo rispondere alle sue voglie.
Prenderne consapevolezza fu doloroso. Le abitudini dell’amore, per quanto le disprezziamo vivendole, sono le prime a mancarci, a toglierci il fiato alle volte. Il suo pigiama a righe, il suo spazzolino, la sua vecchia pipa e tutti quegli oggetti così quotidiani, assumono la sacralità delle reliquie. Oggetti che ti ricordano chi eravate, o pensandoci oggi, chi ancora non eravate. La distanza era l’unica soluzione possibile. C’è voluta tanta forza per rimanere ferma e coerente alla decisione presa, ma per ambire ad un amore maturo, dovevo necessariamente cadere dal suo albero per essere pronta.
Tutti i sospiri che attanagliavano le mie notti, oggi sono respiri a pieni polmoni.
Ho imparato a desiderare, a soddisfare le mie voglie.
Ho imparato ad amarmi.
Sono pronta ad amare.