Questo dovrebbe essere l’incipit di questo racconto, ma è stile indiretto libero, perché infatti l’amico di Veniero personalmente non conosce nessun Osvaldo. È Veniero che conosce Osvaldo, e che stasera, 20 luglio 2010, non riesce ad uscire dal cerchio soffocante dell’aneddotica corriva a proposito di costui, che in teoria è assente, dando molto sui nervi al suo amico. Che
– A parte il fatto, – gli dice, – che “Veniero” è un nome da cretino!
– Pazienza, – risponde serafico Veniero, – a te sembra forse che Gernando sia un nome intelligente? A proposito di nulla, Osvaldo l’altro giorno…
– Non mi chiamo Gernando – fa presente l’altro molto seccamente.
– Non ha nessunissima importanza – ribatte Veniero, da autentica carogna, – facevo un esempio: come dire: se mi fossi chiamato Gernando sarei stato, essenzialisticamente, alcunché di meglio? O Samuele? O Babila? O Ermintrude? O…
– Vacci piano, – lo interrompe l’altro. – Mia zia acquisita si chiama Ermintrude!
– E la mia no, – conclude Veniero. Soggiungendo minaccioso: – Hai qualcosa da ridire, forse?
– Senti – gli dice l’altro, mollando giù il boccale della birra, che è una moretti; nel toccare con un secco ss-tòck! il tavolo con la spessa base, il boccale spedisce un lungo baffo dorato verso l’alto, che nella luce violaceo-petulante del localino modajuol-scorreggione in cui si trovano acquista riflessi cangianti, poco addicevoli a qualunque cosa sia nata per essere ingerita, – io mi sono emeritamente rotto il cazzo di sentir parlare del tuo amico Osvaldo; o me lo fai conoscere, e allora la cosa è diversa, oppure mi metto io a parlare del mio amico Osmino con tutti quanti, per un mese da ora, in ogni momento della veglia, ovunque io trovi un pajo d’orecchie in cui versare le più squallide res gestae relative.
– Aspetta, – gli fa Veniero, alzando una di quelle due mani tozze e grassocce che lo rendono simile a un putto, con la faccia dai tratti tondi, gli occhî a mandorla soffocati nelle palpebre rosacee dalle lunghe ciglia corvine, le gote bombate, la bocca fiorita, la fossetta sul mento, – non tanta fretta. Questa è l’ultima che ti racconto. Ora, Osvaldo è ipertricotico, e ha sempre avuto il cruccio di una certa disidratazione alla peluria delle braccia, dell’interno coscia e dell’epigastrio, essendo abituato a lavarsi con genuino sapone Pears, mattina e sera. Ha rimediato facendosi lo shampoo, anche sul corpo…
– E quando ha cominciato a mettersi i bigodini ai peli delle orecchie?
– … Mai, che io sappia. Ma – dice, e s’illumina, estraendo il telefonino – potrebbe essere un’idea. Anzi, sai che quasi quasi lo chia…
L’amico gli strappa l’apparecchio di mano.
– Veniero, – intìma, – tu non chiamerai Osvaldo. Non stasera, non da qui, non in mia presenza.
– Non avevi detto di volerlo conoscere, qualche secondo fa?
– E adesso ti dico che se lo incontro ammazzo te e lui.
– A proposito, Osvaldo mi ha d…
– Osmino, invece, è solito sostenere…
– Aspetta. Quando O…
– No! egli suole…
I due lasciano le rispettive voci a sopraffarsi a vicenda, rimanendo liberi di alzarsi, guardarsi in cagnesco, rimboccarsi le maniche, l’uno fumando dal naso, l’altro dalle orecchie. Intravedo il cameriere che si protende nella loro direzione, per sentire che piega stanno prendendo le cose, pur non abbandonando il bancone – almeno non finché la situazione non sia degenerata nella maniera più scandalosa.
Ma non è lui ad interrompere questo scambio di vedute.
È Osvaldo, difatti, che poi sarei io, e sono arrivato qua or è mezz’ora, inseguendo una voglia di moretti. Mi ricordo vagamente una pubblicità della stessa, c’era una tizia biondissima, direi con le gambe da cavalla. Che invidia. Invidio le gambe dei cavalli, intendo. Corrono veloci. Mi piace correre veloce, a me. Io del cavallo ho solo il crine. Ed è così che ho visto Veniero, laggiù al bancone, chiacchierare con quel tizio cólla faccia da sociopatico paffuto, con la zazzerina nera, e le maniglie dell’amore che la posizione sullo sgabello mette in mostra così bene. Veniero, quel testadicazzo fissato con le battute – mi ha perseguitato, da quando mi conosce, con ‘sta storia dei peli.
Poi gli s’è scaldato il sangue. Divertente!, mi sono detto, massì.
– Ciao, Veniè.
Eccolo che si volta.
– Non ci posso credere! Ecco, questo è Osvaldo – e m’ìndica all’amico suo. L’amico di Veniero mi guarda fisso per un minuto buono e non dice niente. Allora, chi ammazzi, tu?
– Che mi racconti, Osvaldo?
Che ti racconto?
– Mah, solite storie, e tu?
– E come va cól tuo vello bestiale? – ride.
Ecco che comincia.
– Bene. Anzi: un pochino meglio.
Il tizio continua a fissarmi. Con aria divertita, anzi proprio da presa per il culo.
– Non ti si vede mai in certi giorni, che fine fai, dove ti nascondi?
– Sto a casa, guardo la TV.
– Beh, noi andiamo a fare un giro. Vieni?
– Ok. – Paghiamo e usciamo. Veniero avanti, dietro di lui l’amico – che non so nemmeno come si chiama, ora che ci penso –, e io a chiudere la fila con quelle maniglie dell’amore che m’ondeggiano davanti, ben visibili anche adesso che non è più sullo sgabello.
È notte fonda, c’è una bella luna. Ed ecco che mi prende il solito prurito su tutto il corpo e una specie di bollore in bocca, e quel fastidio ai denti.
Che mi stanno crescendo, così come i peli, d’altro canto.
Dopo altri tre passi decido di azzannare Veniero. Lo faccio rapidamente.
– Oddio – fa in tempo a dire l’altro.
Ma io sono addosso anche a lui, e lo inchiodo a terra con le zampe. Adesso mi fissa, sì, ma cól terrore negli occhi, non più con sarcasmo. Tutto sfolgorante di bel pelo fulvo luccicante sotto il plenilunio, prima di recidergli la carotide gli chiedo:
– Scusa, ma com’è che ti chiami, poi?
Con una vocetta strozzata:
– Osmino,
risponde.
Questo dovrebbe essere l’incipit di questo racconto, ma è stile indiretto libero, perché infatti l’amico di Veniero personalmente non conosce nessun Osvaldo. È Veniero che conosce Osvaldo, e che stasera, 20 luglio 2010, non riesce ad uscire dal cerchio soffocante dell’aneddotica corriva a proposito di costui, che in teoria è assente, dando molto sui nervi al suo amico. Che
– A parte il fatto, – gli dice, – che “Veniero” è un nome da cretino!
– Pazienza, – risponde serafico Veniero, – a te sembra forse che Gernando sia un nome intelligente? A proposito di nulla, Osvaldo l’altro giorno…
– Non mi chiamo Gernando – fa presente l’altro molto seccamente.
– Non ha nessunissima importanza – ribatte Veniero, da autentica carogna, – facevo un esempio: come dire: se mi fossi chiamato Gernando sarei stato, essenzialisticamente, alcunché di meglio? O Samuele? O Babila? O Ermintrude? O…
– Vacci piano, – lo interrompe l’altro. – Mia zia acquisita si chiama Ermintrude!
– E la mia no, – conclude Veniero. Soggiungendo minaccioso: – Hai qualcosa da ridire, forse?
– Senti – gli dice l’altro, mollando giù il boccale della birra, che è una moretti; nel toccare con un secco ss-tòck! il tavolo con la spessa base, il boccale spedisce un lungo baffo dorato verso l’alto, che nella luce violaceo-petulante del localino modajuol-scorreggione in cui si trovano acquista riflessi cangianti, poco addicevoli a qualunque cosa sia nata per essere ingerita, – io mi sono emeritamente rotto il cazzo di sentir parlare del tuo amico Osvaldo; o me lo fai conoscere, e allora la cosa è diversa, oppure mi metto io a parlare del mio amico Osmino con tutti quanti, per un mese da ora, in ogni momento della veglia, ovunque io trovi un pajo d’orecchie in cui versare le più squallide res gestae relative.
– Aspetta, – gli fa Veniero, alzando una di quelle due mani tozze e grassocce che lo rendono simile a un putto, con la faccia dai tratti tondi, gli occhî a mandorla soffocati nelle palpebre rosacee dalle lunghe ciglia corvine, le gote bombate, la bocca fiorita, la fossetta sul mento, – non tanta fretta. Questa è l’ultima che ti racconto. Ora, Osvaldo è ipertricotico, e ha sempre avuto il cruccio di una certa disidratazione alla peluria delle braccia, dell’interno coscia e dell’epigastrio, essendo abituato a lavarsi con genuino sapone Pears, mattina e sera. Ha rimediato facendosi lo shampoo, anche sul corpo…
– E quando ha cominciato a mettersi i bigodini ai peli delle orecchie?
– … Mai, che io sappia. Ma – dice, e s’illumina, estraendo il telefonino – potrebbe essere un’idea. Anzi, sai che quasi quasi lo chia…
L’amico gli strappa l’apparecchio di mano.
– Veniero, – intìma, – tu non chiamerai Osvaldo. Non stasera, non da qui, non in mia presenza.
– Non avevi detto di volerlo conoscere, qualche secondo fa?
– E adesso ti dico che se lo incontro ammazzo te e lui.
– A proposito, Osvaldo mi ha d…
– Osmino, invece, è solito sostenere…
– Aspetta. Quando O…
– No! egli suole…
I due lasciano le rispettive voci a sopraffarsi a vicenda, rimanendo liberi di alzarsi, guardarsi in cagnesco, rimboccarsi le maniche, l’uno fumando dal naso, l’altro dalle orecchie. Intravedo il cameriere che si protende nella loro direzione, per sentire che piega stanno prendendo le cose, pur non abbandonando il bancone – almeno non finché la situazione non sia degenerata nella maniera più scandalosa.
Ma non è lui ad interrompere questo scambio di vedute.
È Osvaldo, difatti, che poi sarei io, e sono arrivato qua or è mezz’ora, inseguendo una voglia di moretti. Mi ricordo vagamente una pubblicità della stessa, c’era una tizia biondissima, direi con le gambe da cavalla. Che invidia. Invidio le gambe dei cavalli, intendo. Corrono veloci. Mi piace correre veloce, a me. Io del cavallo ho solo il crine. Ed è così che ho visto Veniero, laggiù al bancone, chiacchierare con quel tizio cólla faccia da sociopatico paffuto, con la zazzerina nera, e le maniglie dell’amore che la posizione sullo sgabello mette in mostra così bene. Veniero, quel testadicazzo fissato con le battute – mi ha perseguitato, da quando mi conosce, con ‘sta storia dei peli.
Poi gli s’è scaldato il sangue. Divertente!, mi sono detto, massì.
– Ciao, Veniè.
Eccolo che si volta.
– Non ci posso credere! Ecco, questo è Osvaldo – e m’ìndica all’amico suo. L’amico di Veniero mi guarda fisso per un minuto buono e non dice niente. Allora, chi ammazzi, tu?
– Che mi racconti, Osvaldo?
Che ti racconto?
– Mah, solite storie, e tu?
– E come va cól tuo vello bestiale? – ride.
Ecco che comincia.
– Bene. Anzi: un pochino meglio.
Il tizio continua a fissarmi. Con aria divertita, anzi proprio da presa per il culo.
– Non ti si vede mai in certi giorni, che fine fai, dove ti nascondi?
– Sto a casa, guardo la TV.
– Beh, noi andiamo a fare un giro. Vieni?
– Ok. – Paghiamo e usciamo. Veniero avanti, dietro di lui l’amico – che non so nemmeno come si chiama, ora che ci penso –, e io a chiudere la fila con quelle maniglie dell’amore che m’ondeggiano davanti, ben visibili anche adesso che non è più sullo sgabello.
È notte fonda, c’è una bella luna. Ed ecco che mi prende il solito prurito su tutto il corpo e una specie di bollore in bocca, e quel fastidio ai denti.
Che mi stanno crescendo, così come i peli, d’altro canto.
Dopo altri tre passi decido di azzannare Veniero. Lo faccio rapidamente.
– Oddio – fa in tempo a dire l’altro.
Ma io sono addosso anche a lui, e lo inchiodo a terra con le zampe. Adesso mi fissa, sì, ma cól terrore negli occhi, non più con sarcasmo. Tutto sfolgorante di bel pelo fulvo luccicante sotto il plenilunio, prima di recidergli la carotide gli chiedo:
– Scusa, ma com’è che ti chiami, poi?
Con una vocetta strozzata:
– Osmino,
risponde.