barbara

Un’intervista che feci, qualche anno fa, a Barbara Garlaschelli. Fu pubblicata in rete da Cabaret Bisanzio e apparve sul giornale che dirigo, La Sesia.
L’ho appena riletta, avevo scordato quante cose belle e importanti – sulla vita, sulla scrittura, sullo scrivere oggi – disse Barbara.
Ecco qua l’intervista, e buona giornata.

«Prima è l’acqua, poi lo schianto, poi il dolore. Poi è di nuovo acqua».
Era già una scrittrice («Affermata? No, non credo di esserlo nemmeno adesso»), Barbara Garlaschelli il giorno in cui scrisse queste parole. La sua storia, “Sirena”.
Pagina 113: «Avevo lasciato la mia casa reggendomi sulle gambe, ci tornavo spingendomi su una sedia a rotelle».
Ma attenzione: non è la storia di un calvario. Fa male, il libro, si sente sulla pelle il dolore di una quindicenne, leggendo(la). Ma è più palingenesi che altro. E’ un inno alla vita. Di più: una ribellione, affinché vita sia. Ed è soprattutto un libro d’amore. Noi e gli altri, gli altri e noi: un’unica entità, concreta, che significa forza perché genera forza.
Il buio di quei giorni, di una ragazza che, ricoverata, vede che il “suo cielo” è diventato il soffitto degli ospedali e delle sale operatorie, è comunque rischiarato da una presenza, tanto forte quanto discreta, dei suo genitori. Il dolore che diventa forte, affrontandolo insieme, scambiandosi uno sguardo, un abbraccio.
«I miei genitori sono le pagine su cui è stato scritto quel libro, anche se avrebbero volentieri fatto a meno. Sirena è un inno anche a loro».
Scrive noir, è tradotta all’estero, è, checché ne dica lei, autrice affermata, Barbara Garlaschelli. Ma è “Sirena” il suo libro. «Che ha una vita sua» dice lei. In realtà ne ha tre. La prima volta esce nel 2001: lo pubblica un piccolo editore coraggioso, Moby Dick. Tre anni dopo, siamo nel 2004, “Sirena” ricompare, per Salani Editore; 2007 la terza vita: stavolta è Tea.
«Sirena l’ho scritto che ero già una narratrice con una certa solidità alle spalle. Questo mi ha permesso di usare lo strumento della parola nel modo migliore, anche con il supporto del “mestiere”. E’ un libro che ho nella carne perché quella sono proprio io. La scrittura di Sirena, non solo la storia, mi rappresenta alla perfezione».
E comunque “Sirena” non contiene il messaggio della letteratura figlia della sofferenza.
«Charles Bukowski diceva che per scrivere non basta il dolore, ci vuole uno scrittore. Sono in assoluto accordo. Non posso prescindere dalla mia sedia come non potrei prescindere dal fatto di essere alta quasi un metro e ottanta! Nel senso che tutto ciò che fa parte di me (e intendo anche ciò e chi mi circonda) entra in qualche modo nelle mie storie. Ma non sono diventata una scrittrice perché sono andata a finire su una sedia a rotelle. La scrittrice è sempre quello che ho voluto fare. Lo dico sempre: mi è andata bene, avessi voluto fare la ballerina la mia esistenza sarebbe stata un filo più complicata… ».
Definisci la tua vita in una parola.
«Intensa».
In una frase.
«E’ come se fossi nata più volte».
Quando sei rinata l’ultima volta?
«Quando ho incontrato l’uomo della mia vita: Giampaolo. Con lui è iniziata una fase nuova, intensa e stupefacente».
E quando nacque Barbara Garlaschelli scrittrice?
«Una notte. Un editore fulminato dai miei racconti (”O ridere o morire”) decise di pubblicarmi. Insomma, non ho dovuto fare l’iter che, di solito, spetta a uno scrittore: spedire dattiloscritti e attendere. Dopo quella notte sono rinata tutte le volte che ho scritto. E scrivere racconti è la cosa che amo di più».
C’è un incipit o una frase di un tuo libro a cui sei particolarmente affezionata?
« Sì, ce ne sono due: l’incipit di “Sirena” e quello di “Alice nell’ombra”: Uno di noi due non uscirà vivo da qui”».
Tanti scrittori, oggi, con un mercato che vede pochi superare il tetto delle mille copie e pochissimi quello delle tremila. Son troppi gli scrittori, secondo te?
«No, non è che sono troppi gli scrittori, sono troppi i non scrittori. E sono pochi i lettori. E c’è una politica editoriale che sfugge alla mia capacità di comprensione, che è concentrata solo sull’andare sul sicuro per poter far quadrare i conti (intesi come bilanci)».
L’ultima volta che ci siamo sentiti mi hai parlato di un progetto teatrale.
«Sì. E’ un lavoro tratto dal libro “FramMenti”, un’esperienza che come scrittrice mi ha segnata: per scriverlo ho frequentata per due anni un centro psico-sociale a Milano. Ho incontrato persone incredibili e ascoltato storie altrettanto incredibili. La follia è un tema tabù, qualcosa che spaventa e che tiene lontani. Invece quando ti capita – come è capitato a me – di entrare in contatto con persone malate nella mente in modo più o meno grave quello che capisci è che la follia siamo noi. Non è una cosa che non ci riguarda. E’ lì. Ed è anche dentro di noi. Forse per questo fa così paura. E ho imparato cos’è la solitudine vera, non quella romantica, ma quella di carne e sangue. E il dolore, anche se quello, un po’, lo conoscevo già».
Letteratura a imitazione del vero o letteratura “fiction”?
«La letteratura dovrebbe ispirarsi a tutto, soprattutto alla capacità immaginifica di uno scrittore».
Curiosità: se qualche aspirante scrittore ti implorasse di leggere un suo manoscritto?
«Di solito dico che no, non posso, prima di tutto perché lo faccio anche di mestiere, il che mi basta e mi avanza. In secondo luogo direi gentilmente di no perché è un lavoro che se lo fai seriamente (e io se faccio una cosa, di solito la faccio così) ti porta via tempo, concentrazione ed energie».
Fatti dei nemici, e dimmi i nomi dei migliori scrittori italiani, oggi.
«Ah, guarda io l’ho dichiarato pubblicamente anche sul mio blog: Diego De Silva , Giorgio Todde e Nicoletta Vallorani».
Case editrici, discorso impossibile da affrontare con poche battute.E non facile. Ma da un punto di vista affettivo alcune, – piccole – come Todaro e Moby Dick, mi pare che ti abbiano lasciato qualcosa di particolare.
«Sì, e anche la Dario Flaccovio che fa un lavoro bello e serio e segue moltissimo i suoi autori. Perché il problema con le case editrici è che c’è una sorta di vuoto che si crea dopo la pubblicazione del libro, tra loro e l’autore. E’ vero che ogni autore vorrebbe essere al centro dell’attenzione del proprio editore che, oggettivamente, non lo può fare. Ma è anche vero che se decido di pubblicarti poi ti devo sostenere al meglio. Questo, spesso, non capita».
Altra curiosità. Non temi, scrivendo un romanzo, d’essere condizionata dal già letto o dal già visto?
«No. Temo “solo” di scrivere male. Se si dovesse temere il “già scritto” e non solo nella letteratura di genere, tutti gli scrittori potrebbero cambiare mestiere. Borges sosteneva che i temi della letteratura sono sempre gli stessi».
Si può essere scrittori senza frequentare combriccole e salotti?
«Assolutamente sì. Mai fatto parte di nessuna combriccola né salotti. Sono presidente di un’associazione di scrittori ma non è che la cosa serva per far pubblicare. Piuttosto: amo i confronti con i lettori, per esempio nelle presentazioni, oppure i contatti, che vengono per esempio dal mio blog».