Un pianoforte da 18 tasti

Questo blog ha conosciuto giorni migliori. Magari un post al giorno, a volte tanti commenti (specie se si parla di editoria e di invio di manoscritti), tanti visitatori. Seicento, poi quattrocento, poi duecentocinquanta.
Questo blog da 21 mesi circa langue: dal giorno in cui nacque Federico Libero, detto Cico.
Langue perché Federico Libero scandisce la mia giornata, e quindi ho ben poco da raccontare. Quando facciamo colazione, lui pretende di inzuppare il suo biscotte nel mio tè. Poi io vado davanti al pc, per controllare la posta elettronica. Devo essere velocissimo, perché arriva lui, vuole essere preso in braccio, vuole vedere su yuotube o “puto”, che sarebbe poi il cartoon di Pluto, o “catta”, cioé Volta la carta di de André, che lui chiama amichevolemente Dende.
Poi corro, perché son sempre in ritardo, in redazione.
La sera, dopo cena e dopo la passeggiata col cane, Federico Libero o fa un piccolo concerto assordando i vicini – con la mano sinistra picchia i tasti di un piccolo pianoforte con la destra o un tamburo o l’armonica a bocca – o mi chiede di ascoltare musica. Giuro: ci son canzoni come La vecchia fattoria o Bella ciao di cui ho quasi la nausea e che non reggo più.
Quando se ne va a letto, verso le 11, mi restano le mie solite quattro ore, a volte cinque di pausa notturna. Di silenzi interrotti da un treno in lontananza, o dalle urla – che sembrano urla umane – di gatti in calore. Leggo, scrivo (di questi tempi sto scrivendo: racconti noir), rispondo alla posta elettronica, faccio un salto su facebbok e un salto qui, su questo vecchio blog.
Oddio: leggo, scrivo si fa per dire. A volte cazzeggio, perché son troppo stanco e comunque al silenzio della notte, sonno o non sonno, non voglio rinunciare.
A Federico Libero una volta ho detto: Da quando ci sei tu non leggo più e non scrivo più… per la verità ho detto anche una parolaccia, e lui si illumina quando sente una parolaccia, la ripete subito (occa-uttana), e Francesca mi ha tirato il culo (poi quando all’asilo verrà ripreso dalle maestre ti dirà grazie).
Ma va bene così.
Da quando c’è lui m’incazzo di meno.
Quando nacque, per esempio, con la Newton Compton fu rottura: saltò la pubblicazione (che loro avevano annunciato e sbandierato addirittura nel catalogo del quarantennale) di Bastardo posto.
Va bene Perdisa, dissi a Federico Libero, mentre armeggiavamo con un carillon.

Scrivere comporta saper convivere col maldipancia. Si rischia la depressione, si rischia. Io più di tanti, dal momento che son soggetto a periodi bui, dal momento che poi convivo quotidianamente con i casini che comporta l’essere direttore di un giornale (lamentele, scontri, lettere anonime, querele, a volte minacce).

Comunque: sta per uscire Vicolo del precipizio.
Saranno, come sempre, più maldipancia che altro. Fanculo.
Maldipancia attutiti, però, da un piccolo pianoforte con diciotto tasti.

Vicolo del precipizio, il 9 novembre

Il nove novembre esce Vicolo del precipizio, il mio sesto romanzo.
E’ la prima volta che pubblico un libro con una casa editrice che mi aveva già pubblicato un libro (per Perdisa Pop, un anno fa usciva Bastardo posto).
E’ la prima volta che ho scritto dei ringraziamenti.

Eccoli.

Alcuni ringraziamenti, e per motivi diversi (lettura, consulenze, consigli,
approvazioni, critiche), vanno a Chiara Granocchia, a Laura Bosio, a Luigi Bernardi, a Marco Marcellini e alle quattro “mie lettrici di sempre”, Zena Roncada, Stefania Mola, Mariapia Massa, Francesca Rivano.
Il ringraziamento più grande va a mia madre Nella e mio padre Franco,
mezzadri che hanno fatto solo la terza elementare, e che mi hanno cresciuto tra storie, canzoni e olio buono, di Cortona. Ringrazio poi Antonio Paolacci, direttore editoriale di Perdisa Pop ed editor, per la pazienza e il buon lavoro.
Questo libro è dedicato a Cortona, a mia figlia Sonia, e al mio portafor-
tuna, il piccolo Federico Libero: ho iniziato a scrivere Vicolo del Precipizio quando lui era nella pancia di Francesca; durante l’ultima revisione – Cortona a fine giugno 2011 – c’era lui che mi sgambettava attorno.

La copertina è questa (accanto a quella di Bastardo posto).

L’incipit del libro eccolo qua.

La tazza è quella del latte, dei biscotti e della voce spazien-

tita della mamma: «Sbrigati, Tiziano, sei sempre l’ultimo,

guarda che chiudon la scuola».

Sta sorseggiando il suo caffè forte e amaro, è in piedi, è

sul terrazzino. Quando avrà finito di bere, porterà la tazza in

cucina, la laverà e la asciugherà con cura, quindi si metterà a

scrivere, fino all’alba, fino allo sfinimento. La tazza è sorretta

con la sinistra; la destra è sotto, per precauzione, metti che

caschi. Non è un gesto di sempre: è di stasera. Stasera, per la

prima volta ha pensato che questa vecchia tazza bianca con

il manico nero lo ha seguito, sempre. Dovrebbe essere nata

prima di lui, dalle mani di un cocciaio.

Fa caldo a Torino. Sono le dieci e venti, ogni tanto arriva

qualche brezza di vento. Si è appena lavato la testa. Un rito:

se non ha i capelli lavati non riesce a scrivere, né per altri né

tanto meno per sé. Stasera e stanotte scriverà di nuovo per

sé, dopo anni. Ha tutto quel che gli serve, qui sul terrazzi-

no. Il computer portatile, due sigari Toscani accuratamente

tagliati in quattro mezzi, la compagnia discreta e silenziosa

di Giada, la gatta che gli si sta strofinando tra le gambe, la

fotografia che suo padre il mese scorso ha scattato di nascosto

alla mamma che spalancava la finestra della camera da letto,

al risveglio.

L’ha fotografata di spalle, babbo Felice. Oltre la vesta-

glia nera della mamma e i suoi capelli bianchi, s’intravedono

alcuni rami dell’ulivo che salgono dal campo, sotto casa, e

poderi lontani, verso la pianura della Valdichiana.

Il suo vecchio, quella foto gliel’ha regalata quando Tizia-

no è tornato al paese per la solita visita veloce, due giorni e

due notti, con partenza al risveglio. Gliel’ha allungata prima

dei saluti, incorniciata, senza dir nulla. Trattenendo le lacri-

me a stento, ché la Stefania non è più la Stefania.

Con la tazza del caffè ormai vuota e il cielo di Torino

illuminato dalla luna piena, sta risentendo la voce del suo

vecchio, ora. Gli sta raccontando di quel giorno di maggio,

un lunedì, quando nella basilica di Santa Margherita sposò la

Stefania. Alla cerimonia c’erano anche i genitori di Tito con

Tito che, avrà avuto quattordici anni, ne combinò una delle

sue. Proprio quando il prete, solennemente, diceva: «Felice,

vuoi prendere questa donna come tua legittima sposa?» lui

tirò fuori dalla tasca un’armonica a bocca – ma il suo stru-

mento diventerà la fisarmonica – per un omaggio musicale

non richiesto. Lo bloccarono appena iniziò a suonare.

«E pensare che sembra ieri», ha aggiunto suo padre. Una

delle sue ricorrenti frasi fatte, dette ciondolando la testa. Sta-

volta però Felice, guardando severo il figlio, ha voluto sotto-

linearlo con altre parole, quel pensiero.

E ha detto, ma senza muovere il capo, fermo come una

guardia del corpo all’alzabandiera: «A un certo punto della

vita, voltandoti indietro, vedi che restano solo i ricordi».

La terra (Vladimir Visotskij)

CANTO DELLA TERRA

[1969]

Chi ha detto: «Tutto è arso totalmente,
Non ritornerà più il tempo della semina»?
Chi ha detto che la Terra è morta?
No, si è nascosta per un po’…
Non possiamo impadronirci della fertilità della Terra,
Non possiamo appropriarcene, come non si può svuotare il mare.
Chi ha creduto che la Terra bruciasse?
No, s’è annerita di dolore…
Come crepe giacevano le trincee
E le buche s’aprivano come ferite.
I nervi della Terra messi a nudo
Conoscono il profondo dolore.
Sopporterà tutto, aspetterà.
Tra gli storpi non mettere la Terra!
Chi ha detto che la Terra non canta,
Che ha perduto la parola per sempre?!
No, echeggia di gemiti soffocati,
Da tutte le sue ferite, da tutte le sue fessure.
La terra è l’anima?
Non calpestarla con gli stivali!
Chi ha creduto che la Terra bruciasse?
No, si è nascosta per un po’…

Vladimir Visotskij
25 gennaio 1938
25 luglio 1980

… quando morì le sue canzoni, che non erano state mai incise o registrate, erano conosciute in tutta la Russia.La gente andava ai suoi concerti e lo registrava, poi duplicava. Al suo funerale ci fu una colonna di nove chilometri

appunti su Pontiggia: sorprendere

Ho un po’ di sana (credo) e sincera invidia per tutti coloro che frequentarono e conobbero i discorsi sullo scrivere e sulla letteratura di Giuseppe Pontiggia. E sto recuperando appunti, cose che disse soprattutto: ché un manuale non volle mai scriverlo.
Sulla scrittura e sul talento era al tempo stesso preciso ed evasivo.
Non diceva mai che debbono scrivere quelli che hanno talento.
Diceva, però, che per scrivere occorrono, in particolare, due cose: la tecnica e l’originalità.
Allora, la tecnica si impara. Anche solo leggendo gli scrittori ispirati, diceva Pontiggia. E tra gli scrittori lui citava spesso Proust, Svevo (a cui perdonava gli errori di italiano), Roth, Hemingway, Pessoa, Machiavelli, Freud, naturalmente Shakesperare, e poi Manzoni, Dostoevskijj.
Sulla tecnica si possono fare mille e più ragionamenti, e non si finisce mai di imparare.
Ma mi fermo, ora, sulla originalità.
Pontiggia diceva che un buon scrittore non trascrive mai, scrive, e così facendo si sorprende di quanto scrive, e se si sorprende lui sicuramente si soprenderà anche il lettore.
Diceva, Pontiggia, che la scrittura va oltre lo scrittore, come se si trattasse di un processo inconscio: è la mano che scrive, non il cervello.
(Così succede che alcuni autori abbiano scritto cose più grandi di loro. Chiesero a Marquez: Che significato ha il suo libro Cent’anni di solitudine? Non sapeva rispondere, Marquez, quel libro lo avevano scritto le sua mani, infatti).

E’ per questo motivo – sosteneva Pontiggia – che i cattivi autori quando debbono giustificare alcune pagine mal riuscite dicono: Ma è successo così, veramente. Quello che succede nella vita, realmente, spesso non funziona nei libri.
Una ragazza che frequentava i suoi corsi di scrittura un giorno disse a Pontiggia: Non riesco a capire, io nella vita privata so usare le giuste frasi che si dicono nei momenti intimi, ma quando quelle frasi le riporto sulla pagina bianca non danno lo stesso… risultato.
Pontiggia le disse: Usi le sue parole per la vita privata, i romanzi hanno bisogno di altro.

La parola magica è, dunque, sorprendere?
(Per me sì, lo è. Da mesi e mesi non mi sorprendo più scrivendo, e quindi butto via).

Buona giornata

c’è modo e modo

Stesso supermercato, tempo fa.
Un’anziana signora è alla cassa, ha comprato poche cose, alimenti, detersivi. Ora deve pagare. Io sono a un metro di distanza. La commessa mi guarda (poi rifletterò su quello sguardo), poi guarda la signora. Che non ha abbastanza soldi. La commessa, quasi sussurrando, le chiede, ma con grazia, di rinunciare a qualche acquisto. La signora ha la testa bassa, né io né la commessa la guardiamo mentre cerca nel borsello l’improbabile presenza di altre monete per poi arrendersi, e mettere da parte un paio di prodotti. La più imbarazzata sembra la commessa.
Dietro di me qualcuno si lamenta: non è ammissibile che si perda del tempo, così, alla cazzo, dice.
Stesso supermercato, altra scena nel reparto di frutta e verdura, con un’altra donna anziana per protagonista.
Sta per acquistare dei finocchi (mi pare). Si vede da come è vestita che è una donna povera. Comunque. Sceglie, poi fa anche una cosa che non dovrebbe fare: toglie le parti meno belle del finocchio, così da pagare di meno quando andrà alla pesa.
Una commessa la vede. E’ la commessa più carina di tutto il supermercato (e infatti sta parlando e ridendo con un cliente). Ma i suoi occhi neri valgono poco: invece di avvicinarsi alla signora per dirle che il finocchio se lo deve comperare tutto, urla.
Signora, ma cosa fa? E si compiace di questo suo urlare, tanto da concedere il bis, sempra ad alta voce: Se tutti quanti facessero così dove andiamo a finire?
Già: dove?

Nabokov non sopportava Dostoevskij, quindi?

Ho appena letto un post, che è anche un articolo, di Loredana Lipperini sui lettori esigenti che stroncano, usando la rete, autori noti, per esempio Mann, Orwell. E mi è venuto in mente Giuseppe Pontiggia che, durante una trasmissione telefonica, si mise a discutere con un ascoltatore, un insegnante di lettere, sul finale de La Coscienza di Zeno, di Italo Svevo.
Che significava l’esplosione finale?
C’erano nessi con l’incipit?
Con le nevrosi?
Erano domande a cui né l’ascoltatore né Pontiggia sapevano rispondere. Pontiggia fece i complimenti all’ascoltatore, si poteva solo supporre che.
E comunque.
Pontiggia, prima di salutarlo, all’ascoltatore disse: L’insicurezza è pedagogica, lei di sicuro è un buon insegnante.
E gli disse anche, citando Rubbia, che c’è una grande analogia tra letteratura e fisica: più approfondisci e più aumenta il mistero.

Oddio, criticare comunque si deve. C’è chi disse peste e corna di Celine e Dostoevskij. Ma su anobii, sui blog e su facebook c’è un tiro al bersaglio che spesso mi sembra un po’ alla cazzo. Della serie: le sparano gli altri e quindi le sparo pure io.
Torno a Pontiggia: lui argomentava.
Quando diceva che la scrittura di Hemingway è talmente geniale da apparire semplice, ed esaltava il talento di Dostoevskij o Manzoni, proponeva i passaggi, i dialoghi.
Per discuterne, e confrontarsi, poi. Domandarsi.
Perché Nabokov non sopportava Dostoevskij?
Già perché?