articolo diciotto

Mio padre guadagnava 80 mila lire al mese, respirando i veleni del “solforico”, alla Montecatini.
Prendeva qualche lira in più grazie al “malsano”: ti pagavano di più se lavoravi nei reparti più tossici.
Mia madre guadagnava 150 lire l’ora, facendo le pulizie.
Il boiler lo accendevamo solo la domenica così da avere l’acqua calda per fare il bagno. Gli altri giorni ci si lavava con l’acqua fredda (abitudine che mi è rimasta).
Non succedeva quasi mai che ci fossero due stanze illuminate, bisognava risparmiare.
La televisione la guardavamo una volta a settimana, a volte due: al bar. Il telefono era una cosa da ricchi.
Però avevamo la radio. Gracchiava, ma si sentiva bene (meglio di oggi).
A volte mangiavo una fetta di carne: solo io; mio padre e mia madre si accontentavano di un piatto di fagioli, o di polenta. E se quella carne non la finivo, o mi lamentavo perché c’erano dei pezzi grassi, erano baruffe.
Risparmiavamo su tutto, anche sulla carta igienica.
Ogni tanto aiutavo mia madre a tagliare dei giornale, ne venivano fuori dei ritagli un po’ più grandi di una cartolina. Mettevamo quei rettangoli di carta in una tasca cucita da mia madre, sul termosifone, accanto alla tazza. Così nell’attesa si leggevano pezzi di giornale vecchio. Tutto fa.
Era la paura che faceva risparmiare i miei vecchi, che allora non avevano quarant’anni: la paura di diventare ancora più poveri.
Appena potevano mettevano 1000 lire nel libretto al portatore, intestato a tutti e tre.
Facevamo una vita appena appena dignitosa: la domenica mi davano 150 lire per andare al cinema. Il giornalino di Tex (120 lire ogni quindici giorni) lo potevo prendere se non prendevo brutti voti (e ne prendevo, ne prendevo).
Viveno nella paura, dicevo, i miei vecchi, che allora avevano dai 35 ai 40 anni.
La paura che mio padre potesse perdere il posto di lavoro.
Era comunista, ma non lo diceva.
Non faceva mai un giorno di malattia, eppure si piegava in due per il mal di stomaco, e stava per settimane a mangiare riso in bianco, curandosi con delle pastiglie che si chiamavano Roter (le scioglieva in acqua, avevano un bel colore, di nascosto un paio di volte le ho assaggiate: sapevano di terra e di marcio e, soprattutto, all’ulcera gli facevano il solletico).
Mi racconta ancora oggi il mio vecchio la sua paura di allora.

Quando avevi finito di lavorare andavi a timbrare, poi prendevi la bicicletta e via a casa. Qualcuno però quando andava a timbrare non trovava la cartolina: voleva dire che ti aveva licenziato, che dovevi passare dall’ufficio. Una volta un ragazzo, un padre di famiglia, quando vide che la sua cartolina non c’era si gettò per terra, a piangere. Diceva: Come faccio ora a mantenere mia moglie e i miei tre figli? Una guardia, uno di quelli pagati per controllarci e fare la spia, disse: Mandi la tua donna a battere, no? E rise. Fortuna che quello non sentiva, perché batteva i pugni per terra da farsi male, poveraccio

una pagina di Bastardo posto

Una pagina tratta da Bastardo posto (Perdisa Pop, 2010)

In ogni caso Paolo Limara non sa – del resto nessuno po-

trebbe sospettarlo – che all’interno del vecchio negozio, pro-

prio alle spalle del manichino, dietro il bancone, seduta su un

contenitore per acque minerali, c’è, ora che sono le quattro e

dieci minuti, ma è lì da più di un’ora, la signora Viola Rodesi

di anni quarantotto, ex commerciante.

Fino a quattro anni fa il negozio, che non è grande (due

locali con due vetrine e un retro che dà direttamente sulla

cantina), e quel manichino erano i suoi. Tuddia l’ha rovina-

ta, e lei si è lasciata rovinare, Tuddia le ha sottratto quel che

era suo.

Gli occhi castano scuro di Viola Rodesi prima hanno

incrociato quelli verdi di Paolo Limara. Non bene, certo.

Non avrebbe potuto indovinarne il colore, perché non c’è

luce. Una vita fa, è vero, si erano guardati negli occhi, lei

e quell’uomo. Erano giovani, molto giovani. Era quando il

vecchio Limara andava dal suo amico Rodesi a comprare

vestiti per tutta la famiglia.

“Eri timido allora, devi essere timido anche adesso”, ha

pensato Viola Rodesi, rivedendolo.

Di lui, Viola sa quel che sanno in tanti, che è un giornali-

sta, importante, de “La Civetta”.

Ha una sensazione, lei, quando lo vede, la sensazione di

avere davanti, oltre la vetrina e la serranda, lo sguardo di chi

si sente perso; lei, quel tipo di sguardo, lo incontra ogni mat-

tina, da quattro anni e qualche mese, specchiandosi.

A differenza di Paolo Limara però, lei quello sguardo lo

maschera con un collaudato sorriso.

La sua esistenza, ormai, è fatta solo di crepe, proprio come

quelle del suo vecchio negozio, a cui nessuno bada, ormai.