Mio padre guadagnava 80 mila lire al mese, respirando i veleni del “solforico”, alla Montecatini.
Prendeva qualche lira in più grazie al “malsano”: ti pagavano di più se lavoravi nei reparti più tossici.
Mia madre guadagnava 150 lire l’ora, facendo le pulizie.
Il boiler lo accendevamo solo la domenica così da avere l’acqua calda per fare il bagno. Gli altri giorni ci si lavava con l’acqua fredda (abitudine che mi è rimasta).
Non succedeva quasi mai che ci fossero due stanze illuminate, bisognava risparmiare.
La televisione la guardavamo una volta a settimana, a volte due: al bar. Il telefono era una cosa da ricchi.
Però avevamo la radio. Gracchiava, ma si sentiva bene (meglio di oggi).
A volte mangiavo una fetta di carne: solo io; mio padre e mia madre si accontentavano di un piatto di fagioli, o di polenta. E se quella carne non la finivo, o mi lamentavo perché c’erano dei pezzi grassi, erano baruffe.
Risparmiavamo su tutto, anche sulla carta igienica.
Ogni tanto aiutavo mia madre a tagliare dei giornale, ne venivano fuori dei ritagli un po’ più grandi di una cartolina. Mettevamo quei rettangoli di carta in una tasca cucita da mia madre, sul termosifone, accanto alla tazza. Così nell’attesa si leggevano pezzi di giornale vecchio. Tutto fa.
Era la paura che faceva risparmiare i miei vecchi, che allora non avevano quarant’anni: la paura di diventare ancora più poveri.
Appena potevano mettevano 1000 lire nel libretto al portatore, intestato a tutti e tre.
Facevamo una vita appena appena dignitosa: la domenica mi davano 150 lire per andare al cinema. Il giornalino di Tex (120 lire ogni quindici giorni) lo potevo prendere se non prendevo brutti voti (e ne prendevo, ne prendevo).
Viveno nella paura, dicevo, i miei vecchi, che allora avevano dai 35 ai 40 anni.
La paura che mio padre potesse perdere il posto di lavoro.
Era comunista, ma non lo diceva.
Non faceva mai un giorno di malattia, eppure si piegava in due per il mal di stomaco, e stava per settimane a mangiare riso in bianco, curandosi con delle pastiglie che si chiamavano Roter (le scioglieva in acqua, avevano un bel colore, di nascosto un paio di volte le ho assaggiate: sapevano di terra e di marcio e, soprattutto, all’ulcera gli facevano il solletico).
Mi racconta ancora oggi il mio vecchio la sua paura di allora.
Quando avevi finito di lavorare andavi a timbrare, poi prendevi la bicicletta e via a casa. Qualcuno però quando andava a timbrare non trovava la cartolina: voleva dire che ti aveva licenziato, che dovevi passare dall’ufficio. Una volta un ragazzo, un padre di famiglia, quando vide che la sua cartolina non c’era si gettò per terra, a piangere. Diceva: Come faccio ora a mantenere mia moglie e i miei tre figli? Una guardia, uno di quelli pagati per controllarci e fare la spia, disse: Mandi la tua donna a battere, no? E rise. Fortuna che quello non sentiva, perché batteva i pugni per terra da farsi male, poveraccio
Bellissimo questo pezzo. Sono del 72 e probabilmente ho vissuto un’infanzia più agiata. Ma ricordo benissimo gli anni in cui non si poteva andare in vacanza (In agosto eravamo i padroni del paese che si svuotava), gli anni in cui i vestiti di rattoppavano… Mia mamma che mi attaccava le etichette di marche famose su maglie fatte in casa… un gioco arrivava una volta all’anno se andava bene.
Anni luce da oggi. Il brutto è che la perdita dei diritti, in una società così abituata ad avere tutto, è accompagnata dall’indifferenza generale. Apatia? Individualismo spinto?
Saluti!
Rileggo e mi commuovo: disponevo di cento lire a settimana, che spesso rientravano nel borsellino di mia mamma come prestito senza ritorno e con la borsa di studio si scaldava la casa, d’inverno.
Un abbraccio, Remo, a te e a tutti i tuoi.
zena
Dovrebbe leggerlo la Fornero ma anche la Camusso & C. perchè loro o non lo hanno vissuto o non lo ricordano.
O peggio: lo hanno rimosso
Buon Natale a te Francesca, e Federico Libero
Elisa
Grazie per questi ricordi che sono dolci e amarissimi insieme. E che il tuo sia un Natale riscaldato dalle braci dell’amore dei tuoi figli e di Francesca.
E’ un testo che dice sull’articolo 18 molto più di tanti editoriali. Grazie.
Attimi da collezionare, questi.
Ripescati da una preistoria infantile, luccicano ancora come smeraldi.
Lei sa restituicerli veri, dirò meglio:verosimili (la qual cosa-per uno scrittore- è anche meglio).
Una scrittura scabra, autentica, capace di far risuonare nel lettore emozioni analoghe; riesumando il colore esausto delle cucine poco illuminate, il gelo delle lenzuola, e il piacere di ritrovarle, di lì a poco, riscaldate dalle poche braci di cui la nonna aveva provveduto a dotare il prete.
un saluto e un arrivederci a dopo il 26, che la vita ti sia propizia sempre!!
chicca
sai, io queste cose le ricordo tutte.
solo, che i quadrati di giornale li stropicciavamo, per renderli più morbidi.
e spesso toccava a me, farlo.
ma non sapevo leggere, ancora. e così mi divertivo di meno, a farlo.
invece, i quadrati che servivano a rattoppare le suole delle scarpe di mio padre, quelli no.
quelli dovevano essere più spessi e duri, sennò.
la mia paghetta era di 100 lire.
ecco, ecco perché mi viene da piangere. e non capisco. l’oggi.
ma forse, solo perché non ho più il babbo che mi racconta.
ciao remo, e sempre grazie.
Sai, tra poco dovrai riscrivere questo racconto nel Presente Indicativo, perche’ a momenti ritorneremo tutti a fare quello che i personaggi qui facevano anni fa. Quanto deve fare uno per non toccare il fondo? Triste allora e ancora piu’ triste adesso.