Libri interrotti: “E la gente lo sa che sai suonare”

Anni fa (e per tanti anni) scrivevo e distruggevo, strappando carta.
E l’abitudine è rimasta anche con il computer.
Elimina.
E l’idea di una storia sfuma: per sempre.
Qualcosa, da un po’ di tempo, però rimane. Libri che non vanno avanti, preferiscono così, loro, i libri interrotti.
Un esempio.

Le mie mani non sono né belle né grandi: ma diventano magiche sui tasti del pianoforte. Sui tasti del pianoforte – è però importante che la mia mente senta solo la musica, e pensi a cose belle oppure tristi, ma non deve, la mia mente, pensare a quello che stanno facendo le mia mani, deve lasciare che corrano, come figli ribelli che si allontanano da casa -, sui tasti del pianoforte, dicevo, le mia mani riescono a incantarti, e se sono bravo, se azzecco la musica giusta, le mie mani riusciranno a farti piangere bella bambina dagli occhi che non ho ancora visto, ma che so bellissimi.
E’ la prima volta che sei qui, in questa trattoria tra queste colline. Ho intravisto solo come sei vestita, sei elegante come un fiore di campo, non come un fiore di serra, ho intravisto solo i tuoi capelli biondi e ricci; ora, che sto suonando, è come se ti vedessi, perché sei alle mie spalle, dove c’è il camino, state mangiando ma tu e i tuoi amici, mi sembrano belle persone anche loro, non fate chiasso, e quindi, se non fate chiasso, vuol dire questo vuol dire: che stato ascoltando me (e non vedete, anche perché c’è un po’ di penombra, che suono con quattro dita, io, indice e medio della mano destra, indice e medio della mano sinistra).
Sto suonando per te, io, ora.
Magari ti rapirò, poi, cantandoti una canzone.
Piccola, sapessi cosa facevano le mia mani due o forse tre ore fa: piangevano. Piangevano davvero.
Che schifo piccola (sto cambiando musica, ora, Lascia ch’io pianga di Hendel è quello che ci vuole): ero sulla tazza del cesso, cercavo di masturbarmi pensando a Ines, però non ci riuscivo, riesco a suonare il pianoforte, senza pensare, ma non riesco a suonare me stesso, così piangevo, e le mia mani, piccole, tozze, quasi da nano, erano bagnate: di lacrime anziché di sperma.
Ines, chissà con chi è e dov’è stasera. Son certo che non è né a casa né dai parenti, ché Ines il sabato esce sempre e torna a casa più tardi che può, una volta andammo fino a Parigi, dormimmo in macchina, prima di dormire lei, sfacciata, si spogliò, mi venne in braccio, le dissi, No dai mettiti almeno la maglietta, mi disse, Luca che paura hai?, feci in tempo a vedere il suo seno, qualcuno stasera ti leccherà i capezzoli Ines?, e delle luci di una torcia, anche: la polizia, era la polizia.
Mi sentii perso, e non mi piacque come finì, non mi piacque: Ines che scherza coi poliziotti, io che sono lì, come uno scemo, che ascolto mentre loro parlano, prima con animosità, poi i toni si fanno amichevoli. Io che non so una parola di Francese, Ines che invece lo parla, bene, e incanta quei poliziotti con le sue parole, i suoi occhi, il suo modo di fare.
C’è casino di là, all’ingresso: Anna sta alzando la voce. Ci risiamo, i soliti ubriachi del sabato. La colpa è di Anna, di quando offrì da bere a tutti, qualche mese fa. Vogliono, pretendono di bere gratis, quei bastardi figli di papà, così risparmiano i soldi per la cocaina. Anna e  Giuseppe non riescono a spaventarli, devo smettere di suonare, così se smetto ti passerò davanti, piccola, e guarderò i tuoi occhi, oh sì che li guarderà e ti sorriderò perché tu sei bella come Ines, la mia prima moglie, però forse non farò in tempo, perché Anna, che vorrebbe diventare la mia seconda moglie, sta urlando ora: c’è bisogno delle mie mani piccole ma forti, devo alzarmi insomma, anche se non ne ho voglia.
Per vent’anni queste mani hanno caricato e scaricato merce.
Eppure in questo locale si fanno delle illusioni su di me, Davvero non ha fatto il conservatorio? Allora ha imparato a suonare con qualche mostro sacro del jazz, e a me piace che la gente s’immagini che io sia un musicista.
Ma devo andare, mi è sembrato di sentire uno schiaffo.
Appena vedranno le mie spalle da scaricatore di porto si cheteranno.
(Come piacevano a Ines le mie spalle quando la prendevo in braccio, e mentre le baciano i seni lei scendeva e saliva dentro la mia anima).

Ines che mi dice, Stai con me, vero Luca?
Eravamo piccoli, facevamo le medie. Quanti anni avremo avuto io e Ines? Ricordo alla perfezione, mi pare di risentirla la voce di Ines bambina che pronuncia quella frase, è primavera, siamo sul parco che c’è davanti allo stabile in cui viviamo, in cui siamo cresciuti.
Io sono il figlio di Caino, a volte sono il figlio di Giuda: mio padre fa la guardia, in fabbrica, gli altri ragazzi mi prendono in giro, sono il figlio di uno spione iscritto al sindacato fascista, sono il figlio di uno che fa licenziare i suoi compagni di lavoro. Mio padre, ogni tanto, becca botte. Un paio di volte finisce anche all’ospedale. Non serve. E’ più spia, più cattivo di prima. E mia madre, quella cretina di mia madre, è orgogliosa di lui.
La mamma, invece, fa la portinaia, viviamo al piano terra.
Ines, invece, sta in cima, ottavo e ultimo piano, piano attico, naturalmente, con grande terrazzo ornato da limone nani, rose, edera, biancopsino.

Il padre di Ines è un magistrato, la mamma di Ines, invece, non fa niente: era una modella, fa la signora, ora. Non fa nemmeno la spesa: ci va mia madre, per lei.
Sì, questo è un ricordo nitido (abbastanza nitido): c’è Ines, facevamo le elementari credo, che vuole venire con noi, al supermercato, ed è contenta, anche mia madre lo è, sono il figlio di due servi, io: si inchinano davanti al padre e alla madre di Ines.
Non lo sopportavo, io, quella bambina, ricordi Ines che cercavi di darmi la mano e io non volevo?
A sedici anni io e a quindici anni lei succede che le nostre mani si cerchino, in cantina. Accarezziamo i nostri corpi, io entro dentro di lei.
Siamo cresciuti insieme, insieme proviamo schifo e rabbia verso le nostre famiglie.
Ma quella frase, Stai con me, vero, Luca?, Ines quando la pronunciò, prima di quel pomeriggio di dicembre in cantina o dopo?

Faccio fatica, stasera, a prendere sonno.
Sono già tre volte che Anna mi raggiunge in sala: è tesa, dopo quello che è successo. Ho mollato un pugno a uno di quei ragazzi, sembrava tutto a posto. Invece poi è arrivata una pattuglia di carabinieri, mi hanno portato in caserma, c’è una denuncia, ora, contro di me. Quel cocainomane che ho steso è figlio, ti pareva?, di un magistrato, l’ha sussurrato un carabiniere ad Anna.
Non so se è più preoccupata dalla possibile chiusura del locale o dal fatto che io non la raggiunga: mi vuole accanto, mi vuole, io però faccio finta di leggere e lei non osa interrompermi. Sospetta che io mi senta umiliato. No, mi sentii umiliato quella notte, con Ines e i poliziotti francesi che ridevano. Si prendono mica gioco di me?, avevo pensato.
No Anna, mi frega niente di subire un processo. Vorrei scappare da te, Anna, che sei una gran brava donna, poco donna però. Vorrei scappare, mi basterebbe una notte, con la bambina dai capelli biondi, che non ho fatto in tempo a vedere. Di che colore saranno i suoi occhi, blu, come quelli di Ines, oppure neri?
Ho voglio di uscire di qui, qualche volta l’ho fatto, ma non posso. Poi Anna mi domanda, Sei stufo di me, vero?, e piange. L’ultima volta, vedendo che non rispondevo, mi ha slacciato i pantaloni, e si è abbassata.
Ho fatto male, io, ad aprire gli occhi, dopo qualche secondo: ho visto i suoi capelli, tinti male, ho visto i capelli grigi che diventano rossi ma grigi sono, e mi sono sentito vecchio, eppure a quarantacinque anni non si è vecchi, eppure Ines è più vecchia di Anna, ma io con questa donna muoio, devo scappare da lei.
Voglio un angelo biondo, dagli occhi blu oppure neri, non importa. Voglio morire con un angelo biondo, io, senza pensare a Ines.