L’altra medicina: Gerson. Nacci e (poco) altro

Quando iniziai a fare il giornalista mi mandarono alla lega tumori. Cosa facevano, il loro impegno nella prevenzione, eccetera. Era il 1987 oppure il 1988, non ricordo bene.
Ricordo quello che mi dissero.
Mi dissero: nel 2005 ci sarà un tumore ogni tre persone ma nel 2005 il cancro sarà stato debellato.
Quando è nato mio figlio (nel 2010) lessi un’altra previsione: tra vent’anni ci sarà un tumore virgola due (1,2) per persona.
Ho cominciato, con cautela, a scoprire prima e studiare poi Hamer, Gerson, l’amigdalina.
Ho letto libri interessantissimi come Diventa medico di te stesso, del dottor Giuseppe Nacci.
E non dico altro, ora.
Dicessi che per guarire da tante malattie è cosa buona e giusta andare in qualche santuario nessuno avrebbe da ridire: così fanno in tanti.
Io dico che forse è meglio approfondire l’argomento.
Propongo due video, ora.
Il primo su Max Gerson, e anche il secondo è su di lui. Ma chi ha fretta, di questo secondo video,  può guardare solo gli ultimi cinque minuti.

Primo video

Secondo video

Con questa faccia da straniero

Quando avevo quattordici anni lui aveva già la barba grigia. Ricordo che dicevo a mia madre: quando sarò grande voglio farmi crescere la barba come lui, e voglio andare in moto come lui (che aveva una Honda).
Ho la barba grigia come lui, non sono andato in là di una motoretta scassata.
Sapevo a memoria le sue canzoni tradotte in italiano. Son cresciuto ascoltando lui e De André.

Addio, faccia da straniero

l’alba di questo giorno non sorgerà più

La bambina è contenta di restare in casa, anche se è un sabato pomeriggio di primavera. E’ nella sua stanzetta nuova nuova della nuova casa. Sotto, c’è il suo cane. Nella sua stanzetta, la gatta con cui è cresciuta.
Dormono insieme lei e la gatta, sempre.
La bambina guarda un vaso di fiori, oltre la finestra. Non si è accorta che suo padre è entrato nella sua stanzetta.
Ciao, sto per uscire, le dice lui.
Lei si volta, si scambiano un sorriso.
La bambina guarda il padre con uno sguardo diverso, e poi gli dice: Sai, ho nostalgia del presente.

Mi è venuto in mente di scrivere questa cosa qua dopo aver letto questo, sul profilo facebook di Laura Mattei:
Pensa, che l’alba di questo giorno non sorgerà più (Dante)

Io, il calcio, Delio Rossi

Da quando sono bambino mi interesso di calcio. E sono un tifoso (che se va alla stadio, però, non va aldilà degli applausi) della Fiorentina.
Quando avevo dodici tredici anni scrissi alla Fiorentina: Mi mandate la foto della squadra? Mi mandarono la foto di allora (con Superchi, Chiarugi, Amaridlo, De Sisti…) e le foto di due giocatori. Ho ancora tutto nel cassetto dei ricordi.
Il calcio di serie A di oggi è un calcio malato.
Niente da spartire per esempio con i giocatori del Grande Toro (mi commuovo sempre quando rivedo il filmato con i funerali dei giocatori del Torino morti a Superga).
I giocatori, oggi, non hanno nessun attaccamento per la maglia. Sono strapagati, non sanno nulla della vita vera. e poco gli interessa. C’è solo qualche eccezione, ogni tanto.
Dal passato al presente, faccio alcuni nomi.Quello del poeta-portiere del Torino, Terraneo. E quello di Gianluca Pessotto, che ha vestito la maglia che calcisticamente odio di più, quella della Juve. Ne faccio un altro: Damiano Tommasi. Un altro ancora:  Agostino Di Bartolomei.
Un grande calciatore, un grande uomo stritolato dalla vita e morto suicida.
(Altri giocatori me li ha suggeriti la mia amica-calcisticamente-nemica Elena, nel commento: Gaetano Scirea, Xavier Zanetti, Alessandro Del Piero. Tra quelli che giocano a me stanno simpatici Gastaldello, Palombo, Borja Valero).
Leggo di un calciatore straniero arrestato per stupro.
Non è il primo caso.
Ogni tanto si legge di qualche calciatore che si droga, che vende le partite, che ammazza qualcuno in auto.
Poi però, se giocano bene diventano idoli, e tutto viene dimenticato.
Sono tifoso della Fiorentina, dicevo.
E l’anno scorso a Firenze arrivò l’allenatore Delio Rossi. Un uomo di cui ho stima.
A mio avviso, diede un gioco nuovo, brillante alla squadra. Che aveva grossi problemi di organico. Era quasi priva di attaccanti, per esempio…
Delio Rossi, però, si porterà dietro (non so ancora per quanti anni) l’immagine del violento. L’anno scorso infatti – è storia trita e ritrita -, mentre si stava giocando Fiorentina-Novara, Delio Rossi sostituì il calciatore Ljajic, che non gradì e, uscendo, gli disse qualcosa. Cosa disse Ljajic a Delio Rossi non si è mai saputo (Te l’ha detto tua moglie di sostituirmi?… è una delle opzioni più gettonate nel web), sta di fatto che Delio Rossi perse le staffe, aggredì il giocatore, e perse anche il posto di tecnico della Fiorentina.
Certo che sì, Delio Rossi ha sbagliato.
L’avesse aggredito Ljajic lontano dalle telecamere avrebbe comunque sbagliato di meno: chi stupra, uccide, va a mignotte o si fa di coca o ammazza qualcuno perché va ai duecento all’ora lo fa comunque lontano dalle telecamere e viene poi perdonato da pubblico e giornalisti.
Mi spiego meglio: Delio Rossi torna ad allenare, e tutti a ricordare l’aggressione a Ljajic. Delio Rossi con la sua Sampdoria affronta la Fiorentina e il tormentane ritorna.
Avete mai visto un giornalista chiedere a un calciatore: e come sta andando il processo per omicidio colposo?
Semmai il contrario: a volte c’è del buonismo nei confronti di chi magari è stato squalificato per il calcio sommesse: “Poveraccio…”.
Io di Delio Rossi e Ljajic ho un altro ricordo. Ljajic che sbaglia un rigore e Delio Rossi che, a fine partita, gli dà una manata amichevole, da padre insomma, sulle spalle.
Io l’ho interpretata così: Delio Rossi, che è sanguigno, certo ha sbagliato, ma si è sentito un po’ come il padre tradito dal figlio.
E così da quest’anno son diventato anche un po’ tifoso della Sampdoria. E se ho preso in simpatia la Sampdoria di Garrone non è solo per Delio Rossi o perché Genova è una città che amo; ho apprezzato questa società di calcio che spesso interviene a favore del Gaslini, ho apprezzato che l’incasso di Sampdoria-Catania sia andato alle vittime dell’incidente al porto, ho apprezzato che i giocatori non la volessero giocare quella partita che, in effetti, doveva essere rinviata.

ubuntu

Ho scritto questo fondino, sul giornale che dirigo. Non è un fondino solito: i direttori di testate locali scrivono di buche sulle strade e malasanità. E non l’ho certo messo in prima pagina.

Anche Facebook è ricco di informazioni utili (insieme a una marea di cose inutili).
Vedo per esempio che qualcuno rilancia un articolo che a me era sfuggito: tra qualche anno sarà pronta l’auto volante; andrà ai 330 all’ora, potrà fare 850 chilometri, non avrà bisogno di rampe di lancio.
Siamo entrati nel futuro? In tanti film di fantascienza abbiamo visto che che sarà il mondo di domani?
Chissà, è l’unica risposta che si può dare.
Torno a Facebook. A volte si trovano cose di buon gusto.
Per esempio, da una pagina che ha un nome forse strano o forse no (La sanità mentale è un’imperfezione) leggo quanto segue.
Un antropologo propose un gioco ad alcuni bambini di una tribù africana.
Mise un cesto di frutta vicino ad un albero e disse ai bambini che chi sarebbe arrivato prima avrebbe vinto tutta la frutta.
Quando gli fu dato il segnale per partire, tutti i bambini si presero per mano e si misero a correre insieme, dopodiche, una volta preso il cesto, si sedettero e si godettero insieme il premio.
Quando fu chiesto ai bambini perché abbiano voluto correre insieme, visto che uno solo avrebbe potuto prendersi tutta la frutta, risposero “UBUNTU”, come potrebbe uno essere felice se tutti gli altri sono tristi?”
UBUNTU nella cultura africana sub-sahariana vuol dire: “Io sono ciò che sono per merito di ciò che siamo tutti”.
Dopo aver letto e apprezzato ho rilanciato nel mio profilo personale di Facebook.
Una persona ha così commentato: Uguale uguale a come la pensiamo noi qui.
Già, la nostra grande cultura occidentale. Dove si insegna a sgomitare. Se non si sgomita si è dei perdenti. L’importante è fare soldi, primeggiare. Così moriremo contenti. Forse.

Siamo strani di fronte alla morte (ciao Enrico)

Oggi è morto il mio medico. Si chiamava Enrico Aramini, siamo cresciuti insieme.
Abbiamo fatto anche a botte, da piccoli, una volta; lui che era più grosso e più forte, mi prese la testa con un braccio a mo’ di tenaglia e mi abbassò, stringendomi forte e facendomi male; io feci di peggio: mi liberai morsicandogli la pancia.
Poi è diventato il mio medico, ma soprattutto è rimasto l’amico di sempre (che regalò a mia figlia, studentessa di medicina, il manuale di Anatomia).
L’ultima volta che mi ha visto mi ha salutato come faceva spesso, dandomi un bacio in fronte: mi voleva bene, ma voleva bene a tutti i suoi pazienti, anche a quelli disperati, che puzzano o fanno gli spacconi… Anche a quelli che lo prendevano in giro: era superiore, lui, mi diceva, Poveracci…
(I preti nelle loro omelie sparano cazzate e sono insopportabili; oggi il prete, no, l’ha detta giusta: gli eroi sono così, come Enrico).
Siamo strani di  fronte alla morte.
Quando morì mio fratello accarezzai la bara.
Oggi, quando ho visto la bara con dentro Enrico ho guardato per un attimo e basta: mi faceva male guardarla.