“Signorina, è un bel mestiere il nostro, è bello perché ci permette di incontrare persone e storie. Ma c’è una storia, quasi mai raccontata: è la storia del giornale stesso, e di chi lo fa”.
Si sono accomodati nelle poltroncine blu. Rileggono gli appunti, sorseggiano il caffè della macchinetta, parlottano, qualcuno sbadiglia. Aspettano o un cenno o una parola del direttore Antonio Sovesci che è seduto davanti a loro. In questo momento, sta cambiando la cartuccia di una penna stilografica verde, di una marca che non esiste più. Gliela regalò sua madre quando ha iniziato a lavorare al giornale, una vita fa; dice che è il suo portafortuna.
(Forse non morirò di giovedì, inedito)
L’uomo si alza a fatica dalla poltrona, le gambe malferme sembra- no cedere, invece, trascinando i piedi, muove qualche passo verso la finestra, scosta la tendina, guarda le poche case ancora illuminate, controlla l’orologio. Ha fissato il niente per ore, senza accorgersi che era sopraggiunta la no e. Finalmente. Perché la no e porta il silenzio e il silenzio può portare le voci. Torna a sedersi sulla poltrona color cremisi. Nella stanza semibuia arriva un po’ di luce oca dai lampioni. C’è afa stano e a Torino, eppure la finestra è chiusa. L’uomo – dalle movenze sembra un vecchio, e invece ha poco più di cinquant’anni – sta sudando, ma sembra non curarsi del caldo. Ha i calzoni grigi un po’ spiegazzati, una camicia bianca con le maniche lunghe tutta abbottonata, fin sotto il pomo d’Adamo; i polsini no, almeno quelli sono slacciati. Sta bevendo whisky a garganella, neanche fosse gazzosa, e sta fumando incessantemente; di tanto in tanto tossisce.
(La Notte del Santo, Time Crime Fanucci, 2017)
La pioggia e il vento che fanno sbattere le finestre l’hanno svegliata. Sono le tre passate da quattro minuti. Luca si sarà addormentato davanti al computer. Deve svegliarlo, avrà la schiena a pezzi. Lo chiama. Niente. Il computer è acceso, ma Luca non c’è. E non è in bagno, non è in cucina, né sul balcone a fumare una sigaretta di nascosto (ogni tanto lo fa, come se lei fosse fessa). Purtroppo non può essere nemmeno fuori con Fosca, pensa Andreina, ma è un pensiero da gettare via altrimenti piange, perché Fosca è stata soppressa; inutile quindi andare in balcone a controllare se c’è il guinzaglio. C’è. Quando va a stendere la biancheria non ha il coraggio di guardarlo. Rimarrà lì, croce sso sul muro. “Il guinzaglio dell’unico cane della mia vita”.
(Vegan. Le città di dio, Tlon 2016)
Torino, luglio. La tazza è quella della sua infanzia, era quella del latte, dei biscotti e di «sbrigati Tiziano, sei sempre l’ultimo, guarda che chiudon la scuola». Sta sorseggiando il suo caffè forte e amaro, è in piedi, quando avrà finito di bere porterà la tazza in cucina, la laverà e la asciugherà con cura, quindi si metterà a rincorrere i ricordi, scrivendo fino all’alba. Anche se non è mancino, la tazza è sorretta con la sinistra; la destra, però, è sotto, per precauzione, metti che caschi. Non è un gesto di sempre: è di stasera. Stasera, per la prima volta ha pensato che quella tazza lo ha seguito, sempre. Fa caldo stanotte, a Torino.
(Da “Vicolo del precipizio”, Perdisa Pop 2011).
Sotto i portici, di notte passate le tre, il manichino nudo e senza sesso del negozio d’abbigliamento non si vergogna, come succede di giorno, se qualcuno, per caso, si ferma e lo guarda. È notte, notte di marzo stanotte, piove forte. In questo momento, Paolo Limara, fissando la vetrina del manichino nudo, ha appena incrociato i suoi occhi; non l’ha fatto apposta, non avrebbe voluto, eppure è successo.
(Da “Bastardo posto”, Perdisa Pop 2010).
Si parlava poco di lei. Quando se ne parlava i vecchi dicevano, ma solo in certe occasioni, banchetti funebri, domeniche nebbiose trascorse tra amici e parenti a mangiar castagne, dicevano, questi vecchi, che era «come una santa». Santa Nunzia del bosco. O dei castagni. Aveva poco più di vent’anni quando lasciò il Palazzone per andare a vivere come in clausura nel cascinale in fondo alla valle, costruito in una sola estate dai muratori venuti da lontano con muli e cavalli da tiro, in fretta, e un capomastro che urlava, e gente armata su cavalli e mule, a controllare. E di lei per anni e anni si disse, ma si seppe poco. Si seppe, ma si disse poco del suo peccato.
(Da “La donna che parlava con i morti”, Newton Compton, 2007).
L’origine di tutto si perdeva lontano. Scommetto che da qui alla scuola riesco a correre senza respirare. Scommetto che se la mamma me le dà col battipanni io non piango. Scommetto che se il maestro mi guarda cattivo io non abbasso gli occhi. Scommetto che se me lo tocco, poi, quando mi piace tanto tanto, riesco a fermarmi. Scommetto che nessuno ci riesce a fare questo. Scommetto che se ho sete resisto senza bere. Scommetto che se ho mal di pancia non lo dico a nessuno. Scommetto che gli altri non sono così bravi.
(Da “Lo scommettitore”, Fernandel, 2006).
Credo di aver premuto talmente tanto i tasti del telecomando da aver rischiato di romperlo. Di sicuro mi sono fatto male alle dita, e alla mano tutta. Da due ore ero davanti alla televisione. Due di notte. Carla mi aveva dato il bacio della buonanotte verso le undici, le bambine un’ora prima.
(Da “Dicono di Clelia”, Mursia, 2006, Milano).
Sa di antico il mio piccolo bar: è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comperare i dolci della pasticceria Delrosso. Qui agli inizi del 900 c’era la bottega di un falegname.
(Da “Il quaderno delle voci rubate”, La Sesia, 2002).