L’uomo che parlava con la nebbia

È l’inverno del 1983, stazione di Vercelli le 7 e quasi 30. Tra un quarto d’ora arriva il treno per Torino (Porta Susa).
Con mille lire prendo un caffè, un pacchetto di MS, poi, con il resto, metto due canzoni del jukeboxe: Vacanze Romane (Matia Bazar) e Ariò (Teresa De Sio).
Salgo sul treno, guardo l’agenda. Ogni giorno scrivo le lezioni che seguo a Lettere, Palazzo nuovo (Torino). Geografia economica (professoressa Sereno) e Storia Romana (professoressa Cracco Ruggini) dal lunedì al mercoledì), Letteratura Italiana (professor Jacomuzzi) e Psicologia dinamica (Borgogno) dal giovedì al sabato.
Tutte le mattine.
Il pomeriggio ho un altro impegno: la fabbrica dalle 14 alle 22.
Di notte, fino alle 3, ne ho un altro: studiare.
Imparo – nel senso che mi abituo – così a dormire 4 ore a notte.
Dicevo, la piccola agenda. Quelle tascabili. Ogni tanto qualche frase banale.
“Arrivato con un quarto d’ora di ritardo a lezione…”.
Qualche pensiero banale: “Più studio e più imparo a pensare in modo profondo”.
L’agenda è piccola, non ci stanno le storie che si incontrano sul treno.
Spesso incrocio un impiegato che non si siede mai, ma sta in piedi e guarda la nebbia, oltre il finestrino del treno in corsa.
Ogni tanto (non sempre) ripete una frase. Sempre la stessa.
Parla con la nebbia, lui.
«Non vedo l’ora di andare in pensione, vado in Sicilia e sto al mare tutto il giorno, magari pesco qualcosa. Mi basteranno 10mila lire al giorno per vivere, cazzo se mi basteranno.»

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