Alcune pagine di Bastardo posto (Perdisa Pop, 2010)
Tutti i mesi tremila dollari versati nella banca della sua città, Auburn. Jenny controlla on line, ma che i soldi siano stati versati glielo conferma sua madre, via telefono, dagli Stati Uniti. Quelli, se e quando riuscirà a tornare a casa, ci sono. Poi altri mille euro ogni mese, ma non ne ha ancora visto uno. Tuddia le ha detto che la pagherà, può fidarsi, deve fidarsi, e poi Jenny, badante informatica, non ha bisogno di niente: le portano tutto, dalla biancheria intima alle sigarette. Roba di marca, certo.
Ha solo sette euro e qualche centesimo, lei, ora, racimolati di nascosto e con paura nei giorni brutti da incubo, in Puglia.
Quell’uomo, che la paga così bene, e che bada a non farle mancare niente, le fa paura. I primi tempi no, i primi tempi Jenny si sentiva riconoscente. L’aveva tolta dalla strada, le aveva offerto un lavoro. Meglio pulire la merda a un vecchio in stato comatoso che prostituirsi e prendere botte e, negli scampoli di tempo, perché lei era stata così scema da dire che era un’esperta, effettuare operazioni on line per una banda di delinquenti di varie nazionalità, che trafficavano in droga e donne da una masseria nel Salento.
La ragazza americana, ma di origine italiana, era una hacker.
«Ma adesso è una bella zoccola di lusso, la guardi, la guardi signor Tuddia». La prima volta che l’aveva visto, a lei era stato chiesto, ordinato, di fare la cameriera. Quella sera d’agosto non l’avrebbero portata nell’appartamento di Gallipoli dove, solitamente, riceveva depravati che doveva accontentare, altrimenti erano calci e pugni.
Le avevano detto che lei, con quel signore, doveva dimostrasi gentile, pronta a tutto. Cercò di studiarlo, guardandolo di sottecchi. Era un tavolo da sei. Un albanese, due americani poi tre italiani, due li conosceva bene Jenny, il terzo, Filippo Tuddia, era una novità. Gli americani erano nuovi della banda, Jenny aveva solo intuito che prima avevano lavorato nei paesi arabi. Droga, sicuramente droga. Lei sapeva, e gli italo–albanesi sapevano che lei sapeva, dal momento che a volte le chiedevano di tradurre mail, fare l’interprete.
Non quella sera; quella sera c’era Tuddia che traduceva dall’americano all’italiano e viceversa, mentre cenavano.
Quando il capobanda albanese, rivolgendosi a Tuddia, l’aveva indicata definendola una hacker, Jenny si era accorta che quell’uomo alto ed elegante che prima non l’aveva degnata di uno sguardo, cominciava a squadrarla con attenzione. Fissandola con uno sguardo freddo, lontano.
“Da depravato”, pensò Jenny. Dopo aver servito i caffè, ipotizzò che quella sera avrebbe dovuto prostituirsi con l’unico che sorseggiava senza far rumore, Tuddia insomma. Finito di bere il caffè, il capo albanese, alzandosi imitato dagli altri, le disse che il signor Filippo Tuddia aveva qualcosa da dirle.
Appena furono soli, e lui le fece cenno di sedersi, Jenny fece finta di non capire l’invito. Con un movimento brusco, Tuddia, indicandole una sedia, le disse: «Dimmi di te. Raccontami la tua storia, voglio portarti via, farti lavorare».
Si sedette, Jenny, stupita.
«Sono esperta di informatica, l’ho studiata all’università della mia città, Auburn, lei signor Tuddia è pratico della contea di New York?…».
Il mattino successivo, all’alba, salendo nell’auto di Tuddia – si accomodò dietro con lui perché Tuddia aveva un autista –, Jenny si sentiva strana. Certo, quell’uomo le aveva proposto di fare la badante a suo padre, sette giorni su sette per sei mesi, poi lui, parola di Filippo Tuddia, l’avrebbe pagata e le avrebbe regalato il biglietto aereo per tornare a casa, ma quell’uomo era anche amico delle bestie che avevano costretto lei e altre disgraziate come lei a prostituirsi.
Non poteva, non riusciva a credere che la sua vita stesse cambiando così, grazie a un incontro. Ma quando lei, salita in macchina, disse, implorando, che avrebbe voluto tanto telefonare a sua madre che non sentiva da mesi, e quando vide che quell’uomo le porgeva il telefono, lei, dopo aver chiamato sua madre – «Sto bene mamma, ti voglio bene, non piangere mamma, poi ti spiegherò» –, si sentì riconoscente e pronta a soddisfare qualsiasi richiesta anche stravagante di quell’uomo. Cercò perfino, dentro la macchina, di ringraziarlo e, con lacrime di gratitudine, di abbracciarlo, perché la masseria e Gallipoli si stavano allontanando per sempre, ma dovette fermarsi Jenny, perché Tuddia, con fermezza e con garbo, le ordinò di stare seduta al suo posto.
Fu un viaggio di diverse ore e di silenzi. Un paio di fermate, per la benzina e per andare in bagno. Prima di arrivare Tuddia le spiegò meglio: avrebbe dovuto lavorare per lui ventiquattro ore su ventiquattro, come badante e come informatica. Non aveva scelta, Jenny. Ma era contenta: niente più botte, niente più prostituzione. Pensò che sua madre avrebbe preferito così.