Sto andando al giornale, sono quasi le tredici (il martedì mattina e la domenica – ma non sempre – sono le mie pauese lavorative). Ho mangiato un pezzo di focaccia, bevuto due caffè.
La giornata è grigia-ma-non-troppo, non fa nemmeno freddo, è piacevole camminare. E io, per andare in redazione, faccio una strada alternativa: quella dove solitamente non incontro gente.
Non tanta, ma un po’ di fretta ce l’ho, e ho “cose” per la testa, e poca voglia di parlare.
E invece incontro C.
Siamo cresciuti insieme io e C.
Litigavamo sempre, spesso ci prendevamo a botte.
Crescendo, io e C., ci siamo frequentati, ma abbiamo tenuto sempre le distanze.
Diciamo che c’è dell’affetto tra me e lui, ma le incompatibilità son di più.
Andavo più d’accordo con suo fratello P., io.
Io e P. ci scambiavamo i libri di Salgari e le prime confidenze sui primi, timidi amori.
Era il mio grande amico, P., e nemmeno lui andava d’accordo con suo fratello C.
E mi spiace che P., da anni, viva lontano. So poco di lui, non usa internet, quel che so lo so da C., da suo fratello.
Comunque, sono in strada e vedo C.
Parliamo un po’ del più e del meno.
Poi la mazzata.
C. mi dice.
P. ha avuto… non è più lui, vegeta da alcuni mesi, non si riprenderà dicono i medici.
Io dico solo «cazzo» e mentre penso a P., ai pomeriggi interminabili passati a parlare e sognare anche, sento come in lontananza la voce di C., che è passato ad altro argomento.
Guardo l’ora: è tardi davvero.
Ciao C.
Ciao.
(Cazzo, penso. E non mi piace dire o pensare cazzo, ma tant’è)