leggere un libro triste

Ho riletto Agota Kristof in Salento, durante le ferie. La trilogia. C’è un perché di questa lettura – a parte il fatto che la Kristof sia morta da poco, a parte il fatto che la sua scrittura mi piace (le frasi così scarne, come alberi spogli. E i verbi che cambiano – presente, passato remoto, poi presente poi ancora passato remoto – perché il tempo non ha tempo).
Il perché scelgo di rileggerla è la vita: che ha volte ti dà una spallata e tu barcolli, poi, brancoli.
Come dice la Kristof certe vite sono più tristi del più triste dei libri.

Allora, mancano due tre giorni alle ferie. Non vedo l’ora, sono stanco, più degli altri anni.
Ho voglia di leggere di notte, di camminare tra sabbia e mare, pensando, fumando la mia pipa (che in Salento è cosa strana, nessuna la fuma, e i bambini ti guardano strano se la fumi).
Ho voglia di andare in posti dove nessuno mi conosce.
E sto pensando a queste cose due tre giorni prima di partire, durante una cena nel basso monferrato con pochi amici.
Distrattamente sento un racconto…perché tra gli amici a cena c’è anche un medico, un chirurgo: si occupa anche di malattie brutte, tanto brutte.

Un bimbo sano e un bimbo malato, due fratelli, insomma. Cresciuti con attenzioni – è giusto che sia così – particolari verso il bimbo malato. Molto malato. Non sarà mai normale, insomma.
Succede però l’imprevedibile.
S’ammala il bimbo sano.
Ha pochi mesi di vita, c’è un maledettissimo cazzo da fare.
Imprecare e piangere.
Il bimbo quasi non si accorge di nulla.
Gli ultimi giorni però il bimbo è uno straccio: e non riesce nemmeno più a parlare. E quando suo padre torna a casa non riesce a dirgli Ciao Papà, e si dispera di questo, e piange. Poi muore. Fine della storia.
Triste più di un libro triste.
Più triste: perché vera.