smoke on the water
E se adesso mi chiede di salire, che gli dico? Gli dico di no, no e poi no.
Non ho dei peli, sulle gambe, ho delle lame shogun. Se mi passa una mano sulle cosce può chiedere l’invalidità perenne.
E poi mi sono messa le mutande della sloggi, quelle con l’elasticone per farci le fionde. Pure stinte.
Diomadonna, fa che non me lo chieda, fa che non me lo chieda.
– Ti va di salire? Beviamo una cosa, guardiamo un pezzo del live che ti dicevo, quello dei Deep Purple nel ’72…
Crocifiggetemi.
NAU.
È che a dir di no non sono capace. E poi, se dico di no, pensa di non piacermi. Ma se dico di sì, pensa che sono una facile. Se poi sto zitta ancora un attimo, pensa che sono scema.
No, ti prego, gli occhi da cocker no. Neanche quelli del gatto di Shreck, no. Non salgo, ti ho detto che non salgo. Se tu sapessi cosa si nasconde sotto questi pantaloni leggeri di lino, mai mi avresti proposto di salire, mai.
Cerco nella borsa tabacco e cartine.
Rollando una sigaretta come si deve posso ancora prendere tempo, posso ancora inventarmi qualcosa.
– Bella macchina.
Agli uomini piace parlare di auto, vero? Allora raccontami di ‘sto catorcio che quando passa lo sentirebbe pure la zia Elvira, che è così sorda che persino all’Amplifon hanno gettato la spugna. Dimmi tutto delle lampadine al led che hai montato sul terzo stop, quelle che non si bruciano mai, ma che se le compri su e-bay ti durano tre giorni al massimo. E illuminami anche sui distanziali, vai amico, non fermarti: abbiamo tutta la notte!
Buffo eh? Fino a due minuti fa mi sembravi un bel mix tra Richard Gere in “Ufficiale gentiluomo” e George Clooney nei panni del dottor Ross e ora, sarà la luce gialla del lampione e l’entusiasmo con cui parli di marmitte, vai a sapere, mi ricordi Corrado, il figlio dell’elettricista in via Filzi.
Devo prenderlo per stanchezza. E mai, mai varcare quel portone.
Ma adesso che fa? Perché mi tocca le dita? Questo s’è arrapato a parlar di pistoni e cromature. Cool down, baby, cool down. Qui bisogna trovare qualcosa per smosciargli il sentimento. SUBITO.
– Ti ho raccontato di quando sono stata male in macchina della mia amica Claudia?
– Mmm… no, direi di no.
– Questa la devi sentire, fa spisciare! Aspetta, sediamoci qui sullo scalino che ti racconto.
– Ma non puoi raccontarmela su, la storia?
– No, dai, stiamo ancora un po’ fuori, è una bella serata…
– Ok.
Sono brava a raccontare storie, ne racconto di lunghissime senza perdere il filo. Chi mi ascolta non capisce dove voglio andare a parare ma mi segue come ipnotizzato.
Inizio a raccontargli di quella volta che con Claudia siamo andate a Rimini in discoteca con la Ritmo carta da zucchero di suo padre. Parto dagli Ittiti, anzi, dal brodo primordiale: gli dico che nonna Gladis e nonno Nunzio avevano una casa lì, proprio dietro a Viale Regina Elena, vicino al parco. I miei nonni erano gelatai e nel ’52 avevano aperto un chiosco sul lungomare. Facevano i sorbetti, anzi, ad essere precisi, facevano solo il sorbetto al limone, il migliore della riviera. I limoni li facevano arrivare da Cetara, vicino a Salerno. Nonno era di Ravello e aveva conosciuto nonna a Rimini, in una balera…
Sono passati quindici minuti, io e Claudia ci siamo appena conosciute alla materna, è l’inizio della nostra grande amicizia e il sosia di Corrado ha appena deglutito uno sbadiglio.
Sono a cavallo: forse il vello è salvo.
– Ma ‘sta Claudia qui, è bona?
– Scusa, in che senso?
– Per il mio amico. Il Gianni. Usciamo in quattro la prossima volta.
Oddio, no. Questo è uno di quelli. La confraternita dell’appuntamento doppio, quello che uno rimorchia e per l’altro porta l’amica. È un prendi due paghi uno, in cui quello omaggio andrebbe rottamato senza incentivo, solo con un calcio in culo ben assestato.
Il ragazzo qui ha delle pretese: il mio vello e anche quello di Claudia!
È riuscito a zittirmi per ben quarantasette, cinquanta secondi.
Mi riprendo, abbasso lo sguardo e con una voce piena di pathos dico:
– Sai, il nome Claudia deriva dal latino claudus, che significa claudicante, zoppo. A Claudia manca una gamba, o meglio, ne ha una finta, che si sfila quando va a dormire…
Corrado apre gli occhi come dovesse farcirli. Forse l’ho sparata troppo grossa, penso.
E invece no.
– Dici davvero? È la donna del Gianni! È la sua!
– Scusa, in che senso?
Dimmi che non è quello che penso.
Dimmi
che non è
quello.
Lo è.
– Ma sì, il Gianni! Il mio amico! Al Gianni manca un braccio, l’ha perso alla pressa, in fabbrica. Claudia è la donna che fa per lui!
Mi sibila un orecchio, suppongo sia il mio nervo acustico che si è impiccato con la tromba di Eustachio dopo aver udito una tale bestialità.
Mi domando per quali oscuri sentieri brancoli la mente di questo frenastenico.
A’mbecille! Meno più meno dà sempre meno! Non è che se li mettiamo insieme, a quei due gli ricrescono gli arti!
Ma diobono.
Non si può, non si può.
Mi rollo un’altra sigaretta, se ho fortuna mi parte un embolo e bona lì, son salva.
Lo diceva sempre nonna Gladis che non si rimorchia nei bar, che le ragazze serie vanno a messa e poi via a casa, gli occhi bassi. Ma soprattutto ha ragione Claudia quando dice che la ceretta devi farla ogni quaranta giorni, estate e inverno, perché l’uomo giusto e pure quello sbagliato sono appena fuori dalla porta e se li incontri devi essere pronta.
E se io fossi stata pronta, a quest’ora starei già a pecora con le mutande – quelle della festa – alle caviglie e non saprei che il Corrado qui è un cretino patentato.
Starei bene per quel po’ e alle tre, via di corsa a casa. Perché è così che si fa: se non lo sai finisci su un gradino, ad amputare gambe alle amiche e a meditare una fuga degna di Mennea.
– Te lo devo dire. Tu mi piaci e tutto, ma io, guarda, non posso. Ho fatto un voto a San Rocco. Sai, niente sesso prima del matrimonio.
Spalanca la bocca e strabuzza gli occhi: un luccio preso all’amo. Questa non se l’è bevuta, questa non se l’è bevuta.
– PAZZESCO! Quante cose abbiamo in comune? Anch’io sono devotissimo a San Rocco. Ma ci puoi credere?
Preferisco di no.