Quando ero ragazzo c’erano quelli che parlavano da soli per strada, magari sbraitando.
Ne rammento uno, sempre incazzato, in bicicletta, urlava agli automobilisti, a volte senza un perché. Mi dissero che da piccolo aveva visto fucilare i suoi genitori (presumibilemte fascisti) dai partigiani. Il bello è che lo incontravo spesso nella libreria di una signora comunistissima.
Mi accorsi che le cose stavano cambiando quando nel 2006, presi l’areo per andare a presentare Lo scommettitore a Roma. Ci saranno stati sei, sette ragazzi venti trentenni che sembravano fatti con lo stampino: eleganti, ben pettinati, gel a go go, occhiali di marca, ventiquattrore. Pure loro parlavano da soli, a voce alta, come i matti della mia infanzia: solo che loro lo facevano al microfono del telefonino.
Parlando di affari, donne, cene. Alcuni a voce molto alta.
Ieril’altro. Vedo a una decina di metri da me uno che conosco e che non mi sta particolarmente simpatico. Uno di quelli che ti spiegano il mondo. E la luna. Una volta mi ha anche offerto l’aperitivo: lui parlava, io ascoltavo pensando ad altro.
Comunque. Lo vedo, e lui mi fa un cenno di saluto.
Poi dice: Fai un salto da me?
(Io penso che anche sua moglie non è il massimo…).
Rispondo: Ho fretta, sto andando al giornale (vero era).
E lui: Sto parlando al telefono, ciao.
Ciao, dico.
Ciao, mi dice (ma anche l’altro o l’altra al telefonino avranno sentito dire Ciao: che casino).