Vedere un uomo che muore, vicino a te. Era l’estate del 1983…

Il tempo. La vita è una lotta contro il tempo, spesso. Si tratta di scegliere. Perché si può anche decidere di restare sotto l’ombra di un albero e attendere che le cose accadano. Forse è meglio.
Ho un vissuto particolare, io, con il tempo.
Estate 1983, faccio l’operaio, ma sono anche iscritto a lettere, primo anno. Ho sostenuto due esami: 28 in letteratura e 30 in psicologia, e sto preparando il terzo, storia romana. Penso: a settembre do il quarto, sei per quattro ventiquattro, tra sei anni, quando io di anni ne avrò 32, mi laureo.
Peccato che a luglio, dopo una gita in Valsesia con amici torinesi, mi becco una bronchite. Brutta. La febbre non scendeva. Mi ricoverano, niente. Mi ricoverano in una struttura specializzata, niente, sto sempre peggio. Era legionella, sembra. Una notte rischiai di restarci, ma questo lo seppi solo quando mi dimisero (io di quella notte ho un po’ di ricordi: la bombola a ossigeno, un vai e vieni di medici – una dottoressa in particolare – e infermieri, mio padre con le lacrime agli occhi che mi fa bere del tè zuccherato…). Superata quella notte, piano piano mi rimisi in sesto.
Quando stavo meglio successe anche questo.
Nella mia stanza arrivò un uomo di 64 anni. Alto, magro, un bel paio di baffi. Era teso in volto, però, preoccupato. Occupò il letto vicino a me e cominciò a stare male. A un certo punto perse i sensi. Bombola ad ossigeno anche per lui (pensai: la sfangherà come l’ho sfangata io), poi, a un tratto, vedo che fa una smorfia di dolore: era morto.
Era la prima volta che vedevo qualcuno morire. Ero stato a funerali vari, mi era morto un fratellino, certo che lo sapevo: dobbiamo morire tutti, ma vedere che la vita si allontana da una persona è diverso, siamo come dei giocattoli che si rompono, dissi a me stesso.
Fu una brutta notte. Tra me e il letto dell’uomo morto misero un separé. Arrivarono la madre e la figlia che, dopo un po’, cominciarono a litigare.
La figlia disse alla madre: Lo hai costretto a lavorare, lui voleva andare in pensione ma tu niente, così questo povero uomo non è riuscito a godere un po’ di vita in santa pace.
Ma cosa dici? Replicò la madre. Dopo un po’, però, smisero e si abbracciarono.
La smorfia di quell’uomo, la sua morte, mi cambiarono.
Tornai a casa e dissi: mi licenzio dalla fabbrica, ho qualche soldo da parte, un paio di anni posso tirare avanti, e intanto studio…
Mi presero tutti per matto.
E in effetti: avevo 26 anni, la mia ex moglie faceva qualche supplenza, e soprattutto avevo una figlia di 3 anni.
E comunque. Una volta licenziato, avevo il tempo che non avevo avuto il primo anno quando, per studiare, sfruttavo ogni brandello di tempo: avevo studiato in fabbrica durante la mezz’ora della pausa pranzo, avevo studiato in treno oppure sull’autobus, avevo studiato alla stazione, la domenica, i pranzi di natale o delle altre feste comandate li avevo saltati sempre e solo per studiare, e poi, soprattutto, avevo studiato di notte, imparando a dormire quattro ore.
Invece successe che, una volta licenziato, per sei mesi persi tempo a girellare per Torino, facendo il minimo indispensabile.
Poi no, poi ritrovai la diritta via. Pensando solo a studiare e fare lavori vari, perché i pochi soldi che avevo in banca sarebbero finiti.


Col tempo bisogna saperci giocare, insomma. Ha le sue regole, ti frega. Non è mai troppo. Sei tu che a volte non sai giocare. E lui vince. Passa e vince. Passa, soprattutto.
E comunque. A parte alcuni mesi di cazzeggio, ho una convinzione: non avessi visto quell’uomo morire non mi sarei laureato, non avrei fatto il giornalista, non avrei scritto libri.
Avrei vissuto un’altra vita (sicuramente irrequieta), che non so immaginare.

… il tempo è come un treno
a volte vuoto e triste
a volte troppo pieno…
(scrivere versi idioti
con rime deficenti
vuol dire essere vuoti
vuol dire essere spenti)

Iu treno, in quegli anni, leggevo spesso poesie; a volte scrivevo filastrocche. Di questa non rammento l’inizio.

Scrivere sulla sabbia… Prime pagine del nuovo romanzo, forse

Ho scritto quasi 10mila e 260 battute di un romanzo che non so se porterò a termine, non so nemmeno se queste prima pagine verranno stravolte, tagliate, ampliate. Non ho scritto per scrivere un libro, ho scritto per tornare a scrivere.
Ho scritto un po’, ma poco, nel le pause che ho avuto nel pomeriggio. La parte che c’è sotto, insomma. Poi sono andato avanti (senza bere caffè e fumando una sola sigaretta) da mezzanotte alle due e mezzo. Ora (sono le 2,45) e forse domattina rileggo, correggo, e quando correggo ripenso a Fenoglio (La mia miglior pagina esce spensierata dopo decine e decine di penosi rifacimenti) e non penso a un manoscritto che diventerà un libro da proporre a un editore.
Scrivere un libro (vedi il post di ieri) è un po’ come scrivere sulla sabbia…
Poi. Ho scritto due libri (Lo scommettitore, edito da Fernandel e Bastardo posto, da Perdisa Pop) senza l’uso delle virgolette.
Marina disse: Sei un vecchio bastardo.
Marina disse: «Sei un vecchio bastardo».
Giorgio Pozzi (Fernandel) e Luigi Bernardi (Perdisa) convennero con me: è la stessa cosa. E nessuno, poi, mi scrisse o disse che senza virgolette non si capiva. Stessa cosa sto facendo, ora, scrivendo questa cosa qui.

Anche se è un bel giorno di primavera, e oggi lo è, percorrere questa strada che porta alla piazza senza nome mi fa male, a volte ho fitte al basso ventre, a volte provo una forte nausea. Però ho solo loro per cercarti, amico mio: la strada che porta agli orti e alla tangenziale e lo slargo che avresti voluto che fosse intitolato a un prete di questo pezzo di città, il peggiore. Tu, ateo e sboccato, a quel prete avevi voluto bene, e come segno di protesta avevi cambiato nome e insegna del bar, che era ed è, anche adesso, con le vetrine talmente impolverate da non vedere nulla dentro, “Il bar della piazza senza nome”. Se sei fuggito non credo che tornerai, se invece sei morto ho sempre paura che qualcuno scriva un biglietto o metta una tua foto davanti al bar, oppure che lasci un fiore di campo, magari un papavero, se è qualcuno che ti conosce bene.
Nelle belle giornate di primavera come queste, dicevi sempre che ti dava energia guardare prima il rosso dei papaveri sugli argini delle risaie e poi le cime innevate delle Alpi, in lontananza, quando alla buon’ora, prima di alzare la serranda e di bere il tuo primo caffè, facevi un giro in bicicletta appena fuori città (ma non ho mai capito dove). Comunque no, non sei morto, più di una volta avevi detto che saresti fuggito senza lasciare traccia né biglietti, e tu non sei uno che dice tanto per dire. Però quando vengo qui la paura che tu sia morto mi fa stare male, e la paura e il battiicuore aumentano ogni passo che faccio, sempre più, sempre più, mentre mi avvicino al bar, pensa che a volte, amico mio, soprattutto i primi tempi dopo la tua fuga, a volte non ce l’ho fatta e son tornato sui miei passi, sconfitto, pensando: è morto, è morto. No: sei vivo, lo so.


Al momento questo è l’incipit. Da rivedere, correggere, eventualmente da eliminare.