sciascia, giornalismo e libertà

La carenza che ritrovo nei giornali locali è questa: poca
attenzione all’amministrazione della giustizia e tanta attenzione a episodi di sottocultura. Ci si deve augurare che questi giornali siano sempre più attenti ai fatti locali e facciano “opposizione”: i giornali nazionali, i grandi giornali e anche quelli medi, sono diventati ingovernabili per la presenza e la compromissione partitica. I giornali locali dovrebbero fare opposizione seria sui fatti quotidiani, sulle cose da fare, prendendo così il ruolo di opposizione vera che in molte amministrazioni viene mancando. Opposizione quindi non per principio, per il gusto di farla: ma opposizione sulle cose concrete

E’ lungo come un romanzo breve questo articolo su Leonardo Sciascia,  giornalista e scrittore o scrittore e giornalista, non importa.
E’ comunque “cosa, a mio avviso. attuale.
Parlano anche, Sciascia e l’articolo, di libertà di stampa in Italia.
Meglio: di non libertà.
(L’estratto che vi ho proposto è una sua dichiarazione).

due recensioni

Due recensioni, oggi, Una scritta da me: in assolutà sincerità e ammirazione per la bravura (ché io ho pudore a usare il termine “talento”, non sapendo di preciso – io naturalmente – cosa esso sia) di Luigi Bernardi (che poi ho conosciuto e l’uomo e lo scrittore, in lui, coincidono), e l’altra , sul mio libretto Tamarri, scritta mesi fa da Maria Antonietta Pinna su Via delle belle donne.

Senza luce, di Luigi Bernardi*

Un paese qualsiasi in una serata qualsiasi. All’improvviso succedono due cose. Qualcuno spara e la luce va via. Se va via la luce non c’è internet, non c’è la tv, al bar non si può più giocare a carte o a biliardo. E insieme alle torce si accende, o si riaccende, qualcos’altro, magari covato da una vita. Qualcosa che rodeva e che aveva bisogno dei buio, che protegge o fa paura, dipende, per esplodere. Ma succede anche che certe cose proseguano, come se nulla fosse. Bernardi, che per scrivere Senza Luce è partito da un fatto vero (la polizia che chiede all’Enel di interrompere l’erogazione di luce perché c’è un pazzo che spara) narra e, chiaro, da scrittore, amplifica, semplifica, esaspera se serve. Il medico del paese ha una tresca con una donna sposata? Niente di strano. Corna e tresche del mondo: una storia infinita. La variante è: il dottore in questione suggerisce alla moglie del cornuto di far fuori il marito con piatti ad alto contenuto zuccherino…

Senza Luce di Luigi Bernardi non è né un giallo né un noir: è qualcosa di più. È un grande romanzo. Non spiega, racconta. E raccontando, invita al gioco: immaginare che. Un grande romanzo, dicevamo. Che si può leggere a due velocità. In fretta, come chiedono i noir che hanno ritmo. Lentamente, come si gusta un classico. Ogni pagina è un piccolo gioiello di scrittura. Bernardi ha un dono: non si scrive addosso. Non usa metafore o frasi con effetti speciali così da dire al lettore, Guarda come son bravo. Con una scrittura musicale, Bernardi racconta facendosi da parte. E le parole diventano stati d’animo, colori, immagini, diventano la pioggia che cade, il sedere e il seno di Loretta, la padrona del bar, diventano paura e nostalgia.

(questa recensione è apparsa sul Corriere Nazionale).
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Tamarri, remo bassini

Recensione
scritta da Maria Antonietta Pinna

piccola editoria (incipit)

La culla l’aveva costruita Nitto, piegando i vinchi con quelle sue mani nodose e torte simili a rami spogli. Dalle dita artritiche i vimini parevano colare e allungarsi come appartenendo alla stessa pianta, sugando lo stesso nettare: il sangue di Nitto, se nelle vene gli scorreva sangue, o bava arborea ché era uguale.
Un’altra Julia, Cinzia Pierangelini, Historica
(116 pagine, euro 7,90)

Il funambolo si sentiva addosso gli occhi di Marko, come tutti, nel quartiere. Non importava essere in regola, avere commesso un omicidio o condurre una vita pulita: gli occhi di Marko erano su di te, quando meno te l’aspettavi potevi sentire sulla schiena il punto esatto su cui andavano a posarsi. Marko tolse la sigaretta dalla bocca, sputò il fumo, la rimise in bocca e girò l spalle. Il funambolo si sentì meglio.
Il funambolo, racconto tratto da
La guerra in cucina, Francesco Locane, Eumeswil
(pagine 232, euro 14)

Si chiamava Akan Kappa e poteva dirsi fortunato.
Aveva superato il deserto in camion, le onde del Mediterraneo su una tinozza che imbarcava acqua, le camionette della polizia sulla costa, ed era giunto a Roma in un giorno di sole e dopo due ore era già in una fabbrica a scaricare pacchi e abiti usati. E la notte disteso su un materasso con cinque euro in tasca e la pancia che se la sfioravi con un ago scoppiava come uno di quei palloni appesi al filo.
Prima che la storia finisca, Alessandra Galetta, Eumeswil
(190 pagine, s.i.d.p)

Libri che consiglio, ovvio.

Così è (da queste parti)

L’io narrante di questa storia son’io, io con la minuscola, maschile o femminile unn’importa: io.

E’ piccino qui, ci si conosce, tutti sanno se uno vota comunista, se ha tanti soldi in banca, se avea lo zio coi vizi strani, tipo pecore o cavalle. Quel che si sa è importante: perché è quel che si sa che conta. Quel ch’è vero ma un si sa – uno vota fascita ma un lo dice, ha i debiti ma spende e spande, c’ha l’amante, ma sta a Perugia – unn’importa. Qui sopravvivono, e bene, quelli che un fanno sape’. Quel che si sa è ‘na cicatrice. Brutta. Stampata in faccia. Evviva quelle stampate sul didietro: un si vedono manco spiando dal buco della serratura del bagno (e alla bisogna sparano: puzze).

Scusate ora l’anonimato e il mio linguaggio: umile e maccheronico (si dice così?). E poi. In questa storia ci sono pur’io: potrei essere il prete o il maresciallo o il farmacista o il vicensidaco del paese o tutti e quattro insieme; o magari sono un vecchio analfabeta che sta dettando alla nipote, studentessa universitaria a Firenze.  Chi vien da fuori non creda, se leggerà, di leggere cose tipo jack lo squartatore. Un ci sono morti. Macché.

Ma vado al sodo, ora. Ai tre protagonisti.
Sono: Loretta, la moglie del macellaio. Il macellaio., che di nome fa Alfredo Eppoi Giuseppe, che, diciamolo subito, un’è né normale né anormale. Allora lui ora è sui quaranta, sembran cinquanta e più, ma quaranta sono. Vent’anni fa arrivarono in paese le prime orde di turisti: americani e tedeschi e nordici. Ora successe che americane, tedesche e nordiche, andando in giro pel paese coi loro vestitini avari di stoffa, poppe sballonzolanti e i culi semoventi, belle e abbronzate davano sollievo agli occhi, che s’aguzzavano, dei nostri vecchi seduti, all’ombra di case e taverne. Ma c’è da dì che davano anche scandalo: all’indignata popolazione femminile e pretesca. Po’ c’era lui, Giuseppe che – qui è bene ch’io vada avanti sennò me dimentico – di donne un ne aveva avute mai. Ma mai. E’ piccino, ciccio, ghoffo, strabico e balbetta e parla gnente. Di bono c’ha che si lava, un puzza e si veste con decoro. Pantalonacci di velluto e camicie colorate, Rosso o blu. Ama la tinta unita, Giuseppe.
Lui tanto ben diddio femmineo un l’aea mai visto. Così capitò questo capitò: che na volta, in mezzo a tutti, Giuseppe un ci vide più: e afferrò na turististina più svestita del’altre, era seduta sulla scalinata della chiesa, il panorama che offrivan le su gambe aperte era ridente, d’ampio respiro direi, sicché (lo capiscon tutti sicché?) lui la stese, lei impaurita si lasciò stendere, lui si calò brache e mutande tutt’uno con l’arnese in bella vista, e mentre lei urlava, la gente urlava, mentre il vigile correva, mentre le amiche della ragazza lo pigliavan a calci come un cane, lui, comunque, ebbe il su’ piacere (i calci che prese gli facero, è proprio il caso di dirlo, nemmen na sega).
Gli bastò il contatto con l’aria, che qui è bona, e si vede e, nel caso suo, si sente (o si sentì). Dissero poi che dovettero usare tre cenci per togliere quel lago, schifoso, di colata giuseppinesca.
Poi però si redense. L’anno dopo, in piscina (e i maldicenti tutti a dì: «Guarda Giuseppe, un tiene più») quando vide due francesine tuffarsi in topless si limitò prima ad applaudire e poi («Va a tirarsi un raspone» i soliti maldicenti) e poi, dicevo, stupendo tutti, andò non in bagno, ad “eseguire”, ma a pigliare un gelato fragola e cioccolato.  Che si fosse chetato, però, era solo un’impressione.

Vengo ora ai tre. Parto da Loretta. E’ piccina, ha quarant’anni ma ne mette trenta, ha du’ occhi vogliosi ma la voce del paese diceva che, inspiegabilmente, l’era fedele al marito, Alfredo, cinquantré ben portati ma cinquantatré sono. Alfredo e Loretta un ch’hanno figli. Ma hanno una macelleria che è il fiore all’occhiello del posto. Ci fai la coda ma la carne è bona, come si dice da noi (non mi scoprirete certo se dico è bona, ché lo si dice tutti in tutti i paesi del granducato di Lorena). La carne è bona perché son bestie dell’allevamento di Alfredo, che in campagna le alleva e le macella, le macella e le alleva, mentre Loretta, senza aiutanti – un po’ tiratelli di soldi lo sono – serve. Le voglion bene tutti: omini (ma sì, lascio, qua diciamo tutti così) e donne: ché è una dabbene, lei.
Ora succede, è successo questo. A Loretta un le piaceva di lavà il pavimento. Sicché (sicché: termine lorenico) di concerto (fine eh: di concerto: concertan tutti in Italia. E inciuciano) col suo marito un sei sette mesi fa decise di piglia’ Giuseppe, che campa co’ la mamma ma un s’è mai capito come fanno a campà, a fa’ pulito. Alle otto, all’apertura, Giuseppe, dentro, ha belle finito. Così Loretta e Alfredo lo chiamano, «oh Giuseppeeeee», e tutti e tre van poi al bar Signoroni, lì di fronte. Vanno, si seggono, piglian cappuccini e bomboloni, e parlano. Macché parlano: Loretta parla e gli altri due, che volete uno è un po’ coglione l’altro capisce solo di vacche a maiali, ascoltano. E Loretta a Giuseppe ha cominciato a di’ ‘na cosa che – pensate male di me ma io ne son convinto – a lui gli ha eccitato l’arnese. Come fece la turistina. Lei ha cominciato a digli: «Io voglio bene a teee, a teee», col su marito che ridacchiava. Io voglio bene a teee un giorno e va bene, due e va bene, tre, cinque, dieci, sessanta, ma al centoduesimo, complice un’influenza di Alfredo che quel mattino restò a letto, Giuseppe, fece questo fece. Apri la serranda, e invece d’uscire per caffè e bombolone al Signoroni, quando Loretta arrivò, «Giuuseppe, si va?», l’afferrò, richiuse, cavalcò Loretta.
Ora, che sia successo di preciso un si sa, si sa certo che la Loretta strillò, e certo che strillò, ma i maldicenti dicon prima dal piacere e poi dalla paura (del marito), e poi si sa, da indiscrezioni maresciallesche, che ci fu penetrazione e che, insomma, Giuseppe, ora in attesa di processo, unn’è più vergine. A quaranta e passa se l’è presa a soddisfazione. Ma un si vede più in giro. Loro manco (traduzione: nemmeno). Manco a messa. Tutti e tre scomparsi. Il maniaco, la zoccola, il becco. Un se ne salva uno. Lui, Giuseppe, si dice, avrebbe traforato altre donne, zitte di vergogna e forse di piacere. Lei Loretta, si dice, di sicuro c’ha la coscienza sporca, perché una donna maritata non va senza mutande, anche questa indiscrezione è maresciallesca (con conferma pretesca. quindi), Alfredo, invece, poraccio, si dice che oltreché becco c’avrebbe pure una brutta malattia (ma io un ci credo: son corni e basta). Vanno in negozio, ora, Loretta e Alfredo, ma a testa bassa, e gli affari van male. Van bene al non lontano macello Rivaldini, anche se si dice che sia lui l’estensore (è giusto?, poi controllo sul vocabolario: estensore) di certe letteracce anonime contro Loretta, contro il maresciallo, contro il prete che avrebbe violato il segreto del sacramento. Anche questa lettera è anonima, signori compaesani (e turisti). Ci son dentro pur’io. Mi son citato. Scervellatevi. Che magari ho parlato male di me, per depistare (depistare: bello è?). O magari son Giuseppe, o l’amante del prete, chissà. Chiamatemi Pirandello, e se un sapete chi l’era informatevi. Vostro Pirandello.

Racconto maccheronico (pubblicato da La Tribuna).

c’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria?

Quando ero piccolo mio padre mi portava al fiume. C’era tante gente, c’erano i bagnini, c’erano le barche che ti portavano da una riva all’altra, c’era, insomma, una città che aveva il suo fiume.
Una manna dal cielo, specie per le famiglie più povere, magari senza auto.
Se qualcuno allora avesse detto, mentre con i salvagenti fatti con le camere d’aria noi ragazzi si faceva il bagno, o mentre i grandi preparavano i panini e le acque viscì, se, dicevo, qualcuno avesse detto che quell’acqua era già avvelenata, un po’ a causa dell’industrializzazione, un po’ a causa dei prodotti altamente nocivi usati e abusati dagli “agricoli”, sarebbe stato considerato un guastafeste.
Andava tutto bene.
A volte non va bene che ci dicano le cose come stanno.
Nuoce gravemente alla salute lo leggiamo nei pacchetti di sigarette. Dovremmo leggerlo anche nelle marmitte delle nostre auto.
Sembra che Geronimo abbia detto (e ne sono passati di decenni): Uomini bianchi, morirete sommersi dai vostri rifiuti.
Detto questo.
Un tempo l’acqua: e ora il fiume è solo un ricordo. La città ha un fiume da sentire e da vedere, ma da temere anche.
Anche l’aria si sa, è già inquinata.
Quanto lo sarà domani?
A chi interessa c’è questa cosa qua (grazie Roby).
http://www.cambiamoaria.org/index.php

Caro Marco Pedone…

non è un racconto, questo

Mi avevi scritto – ma dove?; non trovo la mail – che stavi male, e io non ci ho dato peso, ma non per leggerezza, perché son tanti quelli che non stanno bene, anzi, stanno male, e trovano conforto scrivendo, anche in rete.
Mi avevi mandato il tuo libro, ne ricevo tanti, due o tre a settimana, di gente che mi chiede di essere letta; tu mi avevi scritto (ma non trovo la mail, cazzo), mi fa piacere se accetti la cosa che ho scritto io.

Ogni tanto entro nella “pancia” del blog. Ci sono gli spam, il numero dei visitatori, ci sono le parole chiave che hanno condotto, qui.
La scorsa settimana, insieme a “Manoscritti”, insieme a “puttane e inculate”, insieme a “fare una ricerca su Pirandello” leggo: “Morto Marco Pedone”.
Cerco su google.
Nulla.
Però mi metto a cercare il libro che mi inviasti.
C’è, l’ho trovato.
Con la dedica.

Oggi cerco anche su facebook, dove c’è il mondo, insieme a puttanate pazzesche e cazzeggiamenti di gruppo e youtube c’è comunque tutto.
E vedo che alcuni studenti hanno creato un gruppo dedicato al professor Marco Pedone, scrittore, assiduo frequentatore di questo blog.
Vedo la tua faccia in un video.
Sembra quello di un bimbo, non hai un capello bianco, sei sorridente.
Avevi la mia età.
Caro Marco mi spiace non averti letto e a questo punto mi chiedo anche cosa serva un blog: è solo il contenitore delle paturnie di uno scrittore di provincia?

Ora basta, ché si finisce col dire cose vuote e piene di retorica.
Ti ridò la parola, ora (ho scelto a caso ed è stato facile sceglierne alcuni…)

Commento del 10 giugno 2009.

Al giudice che ti giudicherà per diffamazione prova a rispondere con Montale:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Sinceramente in bocca al lupo, Remo

Commento del 21 maggio 2009.

Finire una storia, avere la sensazione (magari sbagliata) di aver comunque scritto qualcosa di bello, diverso e importante ripaga di ogni insuccesso che non dipenda direttamente da noi. Nessun libro potrà mai scivolare totalmente nell’oblio, sarebbe una contraddizione palese con la natura stessa dei libri. E poi i libri non sono meteore ma comete: tornano sempre

Commento del 22 aprile 2009.

molti anni fa, su una rivista che si chiamava “Versicolori”, ho pubblicato alcuni inediti di Antonia Pozzi per gentile concessione di Suor Onorina Dino e grazie alla segnalazione di una giovane studiosa, la dott.ssa Elena Borsa. Ovviamente gli inediti a distanza di anni non sono più tali, le edizioni Garzanti più recenti delle poesie di Antonia Pozzi includono anche quei testi che in prima istanza furono esclusi. Se qualcuno vuole leggerli è possibile farlo al seguente link:

http://www.geocities.com/versicolori1/pozzi.htm

Vagabondando nel sito (ormai un’isola abbandonata) si possono leggere altri testi (per la maggior parte inediti quando furono acquisiti) di altri grandi poeti italiani.

Ciao
Marco

Caro Marco, ti dedico il post, scritto da me, che più ti era piaciuto.
Questo post, «E Luciana?» e non dimenticherò mai che il tuo complimento: grazie Marco, vale più di un premio (forse ti stavo simpatico anche perché sapevi perché io dai premi letterari sto alla larga)
Stanotte ti leggo e poi, poi ti dico.

A tutti: succedono cose strane, vero?,  sui blog.

la scrittura e i (suoi) fantasmi

Per scrivere chiaramente bisogna pensare chiaramente. E questo richiede un grande lavoro.

Una narrazione funziona quando a poco a poco scopri connessioni misteriose, che non sapevi esistessero. O quando certi personaggi secondari crescono e quelli che credevi importanti impallidiscono. Bisogna sapere ubbidire ai demoni che evochiamo (se riusciamo a evocarli).

A volte vedi uno scrittore che ami, ti accorgi che è un ometto insignificante. Ma il fatto è che dentro quell’ometto lì, quando scrive, si aprono le paratìe. E perché questo avvenga, perché dentro di te si aprano le paratìe. E perché questo avvenga, perché dentro di te si aprano le paratìe, devi usare tutti i materiali che davvero ti servono, senza preoccuparsi della loro provenienza.

La cosa più pericolosa è credere di avere talento. E’ pericoloso anche riuscire a scrivere con eccessiva facilità. I grandi libri nascono da un grande sforzo
Non bisogna fermarsi. Scrivere è una lotta simbolica contro la morte. E’ un rischio totale e un fiume lucente. E’ salvare immagini, persone, pezzi di mondo.

All’inizio faccio degli schemi, traccio delle traiettorie. Ma poi non obbedisco a questi schemi. Sarebbe la morte. Gli schemi sono trampolini. Dalla storia e dai personaggi ci si aspetta delle sorprese, è questa la parte più emozionante.

Anche quando scrivo romanzi c’è la presenza della ragione, dell’idea, ma io faccio partecipare altri aspetti, i demoni che tutti abbiamo, i mostri, le passioni, i deliri.

cose dette da Vargas llosa alla Holden di Torino, anni fa