Sono pochi purtroppo i libri di fabbrica, ambientati tra i rumori e i fumi della fabbrica.
E io vorrei tornare indietro, potessi, perché, sì certo, sette anni di fabbrica il segno la lasciano ma i ricordi no, specie se uno è disattento, come lo ero allora.
Anche allora, a vent’anni, volevo scrivere; ma pigramente, senza badare ai particolari.
Mi rivedo il primo giorno.
Cazzo, son contento. A scuola io, elementari, medie, superiori, sono sempre stato in classi di soli maschi.
Mi ritrovo a lavorare fianco a fianco con gente giovane e con donne, dai venti ai cinquanta.
Però devo fare attenzione, io.
Mentre gli altri hanno la “divisa della fabbrica”, giubbotto blu gli uomini, grembiale azzurro le donne, io indosso i miei jeans e la mia maglietta. Avrò diritto a quel giubbotto anche io solo se supero i dodici giorni di prova: e i dodici giorni di prova non li superano tutti.
Al secondo o terzo giorno vedo un uomo che, saranno le dieci del mattino, pure lui è come me, è senza “divisa” (ma è entrato in fabbrica tre, quattro giorni prima di me), viene avvicinato dal direttore del personale.
Ci sono le macchine, non si sente: il direttore, uno grassotello, era un uomo pacifico, non cattivo, ha la faccia di uno che ti sta facendo le condoglianze. E in effetti gli sta dicendo che non ha superato il periodo di prova.
Io, che sto guardando la scena e mi sto dimenticando di lavorare, sento una gomitata: è di un operaio, anziano (si chiamava e si chiama Beppe. Io arrivavo: Ciao Beppe. Lui niente,non mi sentiva e non mi vedeva. Parlava tanto con le macchine, Beppe, in dialetto vercellese, quanti diu bastard diceva in un giorno, fumando ininterrotamente nazionali senza filtro).
Vuoi farti cacciare anche tu?, mi dice Beppe (in dialetto: Ad voli che i dago an pe’ ntal cul anca a ti?, o qualcosa del genere).
Travaja, fa’ nen al piciu.
Mi passò davanti quell’uomo senza divisa, avrà avuto quarant’anni.
Al mattino avevamo preso il caffè insieme agli altri, scherzando, ora piangeva come un bambino, senza pudore.
Doveva tornare a casa, raccontare a sua moglie che lo avevano scartato.
Ebbi paura anche io in quel momento: di non farcela. Di lasciare un ambiente che mi piaceva.
Mi piaceva l’ambiente della fabbrica, anche le cose negative mi piacevano.
Un mese dopo son contento anche quando devo fare il primo turno, che significa svegliarsi alle 5 di mattina per essere lì a timbrare, almeno un minuto prima delle sei o alle sei in punto (se timbri alle sei e un minuto non ti pagano un quarto d’ora, se timbri per tre volte in ritardo ti arriva la lettera di ammaonizione, se prendi tre ammonizioni sei licenziato).
Faceva un freddo bestia alle 5 e 55 del mattino, davanti alla macchinetta del caffè.
Tenevo le mano vicine alla sigaretta, come se la sigaretta accesa potesse scaldarmi. Un’ora dopo ero tutto sudato.
Io spesso ero più infreddolito degli altri: quando la mia Prinz, pagata 500mila lire, faceva le bizze, e questo succedeva almeno una volta al mese, io mi facevo sette chilometri, anche con la pioggia, in bicicletta.
Una volta oltre alla pioggia c’era un vento forte forte: che mi fece volare via l’ombrello.
Qualche mio collega, passando in macchina, mi vide e poi, per rallegrare l’ambiente, raccontò a tutti del mio ombrello volante. E così, quando arrivai, oltre ad avere anche le mutande marce mi dovetti sorbire le risate sguaiate degli altri, pure di Beppe.
Cinque anni dopo mi sono iscritto a lettere, mattino università, pomeriggio fabbrica: turno fisso, dalle 14 alle 22.
Lavoro in magazzino. Alzo pesi, manovro il muletto, bevo la birra che mi regalano i camionisti tedeschi.
Quando arriva un camion la fabbrica, che col passare degli anni diventa come una grande cella di rumori e di fumi, mi fa vedere, da un grande portone che si spalanca per consentire l’ingresso del camion, i colri di un prato, fuori, e, oltre il prato, di pioppi non lontani.
E dal momento che uno, quando si iscrive a lettere, pensa di aver dimestichezza con i versi, un giorno scrissi, sul retro di una bolla di accompagnamento (ma ora che ci penso, questi brutti versi, non li scrisse uno studentello; li scrisse un operaio).
L’invalicabile portone beffardamente per un attimo s’apre a colori vivaci, di primavera.
Ma se la vita è bella non è vita aspettare da dentro che di fuori tristemente sia già sera.
Quando ero entrato in fabbrica, anni prima, mi piaceva, la sera quando suonava la sirena, pulirmi le mani con la pasta lavamani, sembrava magica. Già, lo era: raschiava la pelle.
Cinque anni dopo sento che fa male e che per quanto io sfreghi un po’ di unto nella pelle resta sempre, pare un marchio.
Ora mi spiace avere dei ricordi vaghi: ché uno che vuole scrivere deve fare attenzione a tutto, mica solo a questo.
Questa è una foto di una manifestazione di metalmeccanici a Vercelli. Deve essere il 1979. Quelli di cui si vedono i volti sono i miei compagni di fabbrica; io son quello girato, sulla destra, mani in tasca e barba lunga, incolta.