Una stanchezza, violenta e smisurata di esistere

Essere poeta non è la mia ambizione.
E’ la mia memoria di stare solo.

La solitudine di Pessoa, nei suoi aforismi (quelli chelti da Tabucchi ne “Il poeta è un fingitore”), è la solitudine di altri, penso a Fenoglio, penso alla Wolf, e mi viene in mente una fotografia di Morselli, oppure ripenso ai manoscritti di Achille Giovanni Cagna, quando si sentiva uno scrittore incompreso. Son mille gli esempi, “I mali oscuri”.

Una solitudine voluta, cercata, sentite (leggete) qua, Pessoa:
Ho sempre rifiutato di essere compreso. Essere compreso significa prostituirsi.

E ancora:
Guardo da lontano la vita,
senza mai interrogarla.

Disincanto, fuga dal ballo in maschera della vita?
(La solutidine del poeta, però, può essere la solitudine di tanti: quando Pessoa scrive
Sei solo. Nessuno lo sa. Taci e fingi
non eccede, forse, in una sorta di autocommiserazione?, che tocca tante altre persone che non si sfogano, poi, con un pezzo di carta).

Forse il poeta, il fingitore, è solo colui che sa trovare le parole giuste
Una stanchezza, violenta e smisurata
di esistere…

Ma che nella propria arte trova consolazione:
Essere la stessa cosa in tutti i modi possibili, allo stesso tempo.

La vita e la morte, sempre, a braccetto: c’è quasi un’ansia di morte, nella vita del poeta (forse poco poetico, qui):
Se ti vuoi ammazzare, perché non ti vuoi ammazzare?

L’impennata consolatoria, però, un lampo che illumina:
Solo l’arte è utile. Fedi, eserciti, imperi, atteggiamenti: tutto passa. Solo l’arte resta, per questo l’arte si vede: perché dura.

La solitudine del poeta, dell’artista, o di chi di poesia e di arte si nutre, quindi, è una solitudine meno “dolorosa”?
Siediti al sole. Abdica
e sii re di te stesso.

Un re comunque sempre solo.
La celebrità è un plebeismo. Perciò deve ferire un’anima delicata…

Dice via, Pessoa, dal chiasso. Già.

magari partecipo a un concorso letterario

Non ho mai partecipato a un concorso letterario. Prima o poi magari partecipo, ho pensato (ieri).

Davanti a casa mia c’è la Caritas. C’è sempre gente e, quel che è peggio, ce n’è sempre di più. Mi guardano, li guardo. Vedono che esco da una casa elegante, magari, vedendo il mio abbigliamento, ho un giaccone vecchio di dieci anni ma ancora bello, cuffia o berretto a visiera, occhiali da sole in realtà da vista anche se piove, zaino, clark ai piedi (in realtà son false clark: da 30 euro al paio), magari pensano che non sono proprio in sintonia con la casa.
A volte non mi guardano: gente che si vergogna, gente che piange.
Ma spesso sì. E a volte mi chiedono: un euro, una sigaretta. Mai detto di no. Che poi: mi sento abbastanza stronzo quando do un euro e le sigarette, potrei dare qualcosa di più.
Certo, ci sono gli sfottenti strafottenti che ti fan girare le balle, ma ieri mattina, per esempio, ho visto una zingarella con bambino, mi ha chiesto una moneta, le ho dato 50 centesimi, mi ha detto, che dio la benedica signora, ho frugato bene in tasca e ho trovato un’altra moneta, da 20, mi ha sorriso, ho camminato e mi son chiesto se non era il caso di tornare indietro e darle dieci euro almeno, ché c’è stato un periodo della mia vita che anche io non dico che ero conciato così, perché i soldi per il caffè e le sigarette li ho sempre avuti, e anche per una pizza, ma ricordo un giorno in cui mi ruppi un dente e strisciai la macchina, era una domenica, perse anche la Fiorentina e pioveva, e non sapevo come avrei fatto, per l’indomani: dentista o carrozziere?

Se vinco metti mille euro per un premio letterario mi sento un po’ meno stronzo, ecco, perché li do via, anche se non sono sanfrancesco Nè un frate, sono, certo, che poi certi frati li ho visti io chiudere la porta a chi chiedeva un piatto di minestra, cazzo.
Però mi sa che non vinco niente, anche perché son mica convinto che mi ricordo, io, quando ci sono i premi letterari.
Mi farò il nodo da qualche parte, insomma.

Che poi lo so è un discorso delle balle, dai un euro a qualcuno e ce ne sono altri migliaia conciati peggio, e qualcuno è un gran sfigato, qualcuno no, magari ha mai fatto una cippa in vita sua, ma questi giorni no, vedo gente nuova, gente mai vista prima, non solo le zingarelle.

E comunque: domani porto il cane dal veterinario. Spesse volte, quella gente lì, davanti alla Caritas, lo vede il mio cane, e lo accarezza,e lui si lascia accarezzare.

Poi arrivò l’ultimo sogno

Una birra Moretti, va bene sì, anche se avrei preferito una Trappe, pensò.
Poi il vecchio lentissimo pc, ne avrebbe preferito e voluto un altro, ma, pensò – pensava molto quella sera – è già un miracolo che ogni sera si accenda.
Mentre il vecchio pc gorgogliava prima guardò l’ora, cazzo non sono nemmeno le dieci, poi la finestra: oltre c’era una sera tiepida, illuminata da un lampione.
Oltre, c’erano solo i rumori della tangenziale e finestre illuminate, ma troppo lontane.
Addentò il panino mozzarella pomodoro, la sua cena; ma aveva lo stomaca chiuso, sicché andò di birra, e mentre scolava la lattina in un unico sorso assetato pensava che quella era l’ultima birra, ché in tasca aveva rimasto 20 centesimi e in frigorifero c’era solo della stupida acqua e in casa aveva una stupidissima bottiglia di Amaretto di Saronno comprata la sera prima, in un povero discount. L’aveva vista tra gli scaffali e l’aveva afferrata: sorridendo al ricordo dei giorni spensierati della sua infanzia quando, col fratello più piccolo, Marco, andava a rubarne un po’, di nascosto. A casa, poi, si sarebbe dato del coglione: non era meglio se ti compravi quattro uova e tre scatole di carne Simmenthal-mente-buona, questi cazzi di ricordi infantili, aveva sbottato.
La sera prima.
Poi questa sera.
Adesso è mattino.
L’ha bevuta tutta tutta la bottiglia di Amaretto, insieme a quel che aveva trovato nel cassetto in bagno: aspirine, tavor, aulin, tachipirine scadute, simplex, antibiotici e antidoloranti, anche un collirio al cortisone, anche una medicinale, questo non scaduto, che aveva dato al suo cane, prima che morisse.

Tutte quelle pastiglie di diverso colore e dimensioni galleggiavano e si stavano sciogliendo dentro di lui, insieme all’Amaretto.
Aveva pensato molto, mentre ingoiava e beveva, beveva e ingoiava: ma non aveva trovato un solo motivo per smettere di bere e ingoiare.
Spero che bastino, era stato l’ultimo pensiero.
(Il penultimo era stato: tra tutte queste cazzo di pastiglie non ci sono quelle che prendo da una vita.)
(Il terzultimo pensiero era stato per Lillo, il suo cane. Arrivo era stata l’ultima parole che, qualche ragno e una mosca disattenti, sentirono, o forse no.)
Poi era inizato il sogno, quello più lungo.
Sul pc c’erano solo due messaggi di posta elettronica non letti.
Aveva fatto in tempo a vederli, lui.
Ma non vale la pene leggerli, aveva pensato, pensando poi ad altro.

Quando Gianni e Cristina entrarono nel mini appartamento, la porta della cucina, videro, si chiudeva a fatica, c’era, sotto, qualcosa che faceva attrito.
Con un fermaglio per capelli acquistato in Messico, Cristina, a fatica, riuscì a liberarla, quella benedetta porta, quanto schifo c’era sotto. Avvolta dalla schifo, una moneta da venti centesimi.
Raccontami una storia, disse Cristina lavandola.


Incipit, che sono anche consigli di lettura

La giornata era stata torrida e soffocante, senza un alito di vento, e la cappa di calore aveva formato della foschia. Adesso il cielo era limpido e terso, di un colore che sfumava dal rosa al blu. Presto il disco rosso del sole sarebbe sparito da qualche parte dietro l’isola di Ven, e la brezza serale, che già increspava lo specchio d’acqua dell’Oresund, spirava tra le strade di Malmo portando con sé una piacevole frescura.
Omicidio al Savoy, di Maj Sjowall e Per Wahloo, Sellerio
(pagine 330, 14 euro).

Leonetti è in piedi dietro a lui. L’uomo è seduto al tavolo: i palmi appoggiati, la schiena eretta, quasi una posizione da meditante. E’ tranquillo, Leonetti lo capisce dal ritmo regolare del respiro che gli solleva lievemente le spalle. Lo sguardo diretto imbarazza sempre e predispone al mascheramento,  che è l’anticamera della menzogna.
“Perché l’ha fatto?”.
L’altro non svela il minimo sussulto. Del resto la domanda era attesa: non ci sono per questo i poliziotti?

Ucciderò Mefisto, di Valter Binaghi, Perdisa
(120 pagine, 9 euro).

“Maddalena, vieni qui”, dice suor Agata, dopo essersi chinata a raccogliere il foglio appallottolato caduta davanti alla cattedra. Lo apre e resta alcuni istanti a fissarlo. Alza la testa e guarda le bambine, ammutolite. Ha occhi così chiari da sembrare trasparenti e un naso appuntito e lungo per cui è soprannominata Pinocchia.
Nessuno usa questo nomignolo in sua presenza, ma suor Agata lo conosce bene.

Non ti voglio vicino, di Barbara Garlaschelli, Frassinelli
(342 pagine, 17,50 euro).

Bernardi: Col branco non ci sto

Il problema dell’Italia è nella mafiosità dei branchi, che si respira e si subisce a ogni livello.

Luigi Bernardi, su Nazione Indiana.

Allora, la scoperta di Luigi Bernardi per me è cosa recente. Me ne parlò un paio di anni fa Elisabetta Bucciarelli (Non conosci Luigi Bernardi???). No che non lo conoscevo, sono distratto, di conoscenze ne ho poche. Feci comunque una ricerca in rete su di lui, poi gli chiesi l’amicizia su facebook, e su facebook una domenica scherzammo su Zeman e Terim.
Quando uscì il suo libro, Senza Luce, scrissi una recensione che pubblicai su questo blog, sul giornale che dirigo (La Sesia) e sul Corriere nazionale, la cui pagina di cultura è curara da Stefania Nardini.
Fu Stefania a dare a Luigi la mia mail: mi ringraziò per la recensione.
E poi l’ho conosciuto, una sera ad Alessandria, e poi, cosa recente, ci siamo sentiti sempre più spesso.
Ecco, la faccio breve: son contento di averlo conosciuto e di conoscerlo. Come persona, come scrittore, come direttore di Perdisa.

Alessandro Zannoni, la quarta strada

Hai scritto un libro.
E sei convinto che, stavolta, a differenze di altre, hai scritto qualcosa di buono. Magari un editor, magari uno scrittore, magari qualcuno di cui ti fidi ti dice che è un bel libro, ma poco commerciale.
Hai tre strade.
Percorrere quella degli invii del manoscritto agli editori. Tanti invii, il più possibile.
Seconda strada. Uno stampatore a pagamento (magari non la percorri questa strada, ché qualcuno ti spiega che alla fin fine è meglio non pubblicare).
Terza strada. Mettersi l’animo in pace (io l’ho fatto, per cinque, sei anni).
In realtà c’è una quarta strada. Che io stesso non escludo di percorrere. L’autoproduzione.
Quella che segue è un’intervista al mio amico Alessandro Zannoni, scrittore Perdisa, oggi.
Il primo suo libro che ho letto era un bel libro: autoprodotto.

Cominciamo da te, dicci chi sei.
Sono stato per ventidue anni un antiquario specializzato in dipinti antichi; ora, solo la mattina, lavoro in una darsena tra fiume e mare, e gestisco la manutenzione delle imbarcazioni. Nel tempo restante, se ne ho voglia e la famiglia me lo permette, scrivo.

Elencami le cose che hai scritto e che sono diventate libri.
Alla luce dei fatti – autoprodotto/ripubblicato collana I dispari/RES Edizioni
Nero in dissolvenza – autoprodotto/ripubblicato collana Delitti Inediti/Contatto Edizioni
Lo stretto necessario – autoprodotto
Imperfetto – autoprodotto/ripubblicato collana WalkieTalkie/PerdisaPop
Biondo 901 – collana BabeleSuite/PerdisaPop

Invece di ricorrere all’editoria a pagamento tu in passato hai percorso un’altra strada, che è l’autoproduzione. Come ti venne l’idea?
Il mio primo lavoro era un romanzo scritto per pochi intimi, ambientato nella mia città e nel mio mondo lavorativo – l’antiquariato – e non avevo nessuna pretesa di pubblicazione, ma mio padre lavorava in una tipografia e gli chiesi di stamparmene 50 copie, giusto quelle da regalare agli amici; portò a casa dieci scatoloni, 500 copie, dicendo che tanto la spesa era la stessa. Passato il primo momento di sgomento, mi sono ingegnato e ho messo in vendita il libro nei locali citati nel mio romanzo… e dopo venti giorni li avevo venduti tutti! Lo richiedevano in continuazione, allora ne ho fatto ristampare altri 500, e anche quelli li ho bruciati velocemente…
Voglio sottolineare che il libro lo avevo firmato con uno pseudonimo e che nessuno sapeva che lo avessi scritto io – mi vergognavo parecchio a rivestire, seppur momentaneamente, il ruolo di scrittore – però, sentendo i lusinghieri commenti in giro, mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo e ho scritto un altro romanzo… Solito metodo di stampa e solito risultato di vendita, però stavolta mi sono lasciato convincere – unica volta che l’ho fatto – e ho mandato il manoscritto ad una casa editrice: mi hanno risposto dopo quasi due anni, dicendo che mi aspettavano ad una nuova prova più adeguata alla loro collana. Non ho fatto drammi e ho continuato per la mia strada.
Quindi l’idea di autoprodurmi è nata dai risultati di vendita ottenuti – mi sono autoprodotto 4 romanzi e ho venduto dalle 1000 alle 2000 copie a titolo –, e dalla consapevolezza che inviare manoscritti a case editrici significava rimanere tempi lunghissimi a macerare nell’attesa di una risposta, cosa che francamente non mi sento di affrontare.
Sono un fatalista e uno stupido idealista, e ho lasciato le cose in balia del destino: ho creduto nella qualità del mio lavoro e ho aspettato che qualche editor si imbattesse nei miei lavori e ci vedesse qualcosa. Bè, è successo davvero.

Come consideri quell’esperienza?
A tutti quelli che hanno velleità di pubblicare, invece di mandare manoscritti a destra e sinistra, consiglio vivamente un’esperienza del genere, e pure l’uso di uno pseudonimo – da evitare la pietà dei parenti e degli amici – cosicché possano rendersi conto se davvero le cose scritte hanno un qualche valore. È un banco di prova notevole, e stronca sogni in maniera chirurgica.

Sebbene tu adesso non abbia problemi nella ricerca spasmodica di un editore, metti caso che un giorno tu scriva qualcosa che tutti rifiutano, ripeteresti quell’esperienza?
Uh, certo che la ripeterei, e ora che sono anche pratico dell’uso di Internet, sono certo che mi divertirei pure.

Poi, andando nello specifico. Quanto spendesti per farti stampare tot numero di copie? E quande ne vendesti?
Di “Imperfetto”, ristampato lo scorso anno nella collana WalkieTalkie di PerdisaPop, ne stampai una prima tiratura di 1.000 copie spendendo 1.800 euro – copertina rigida e bandelle, carta da edizioni, rilegato a filo refe… insomma un libro vero – seguito da una ristampa di altre 1.000 al solito prezzo, o forse qualcosa di meno, non ricordo.
Alla fine, se le cose funzionano, trovi anche da guadagnare qualche spicciolo.

I cinesi-napoletani

L’altro giorno parlavo con un ambulante.
Mi ha detto che lui si trova bene, anzi benissimo, con ambulanti africani, russi, albanesi eccetera.
Mi fa: Tutte minchiate quelle della Lega. Vado a comprare le sigarette e loro mi guardano il banchetto, e sono tranquillo, sai?
Poi riflettendo sull’argomento e temendo di non aver detto tutto tutto, aggiunge: Sai con chi non mi trovo bene?
No, dico io.
Coi cinesi, fa lui.
Ah, dico io.
E lui: E sai perché non mi trovo bene con i cinesi?
No, dico io.
Grattatina alla testa, accensione di sigaretta, sguardo perplesso.
Poi fa: Come faccio a spiegarmi.
Pausa.
Poi finalmente: Ah sì ho trovato: sono un po’… napoletani.
Ah.
Mica tutti però, conclude.
(E i cinesi un po’ romagnoli, invece?, mi son chiesto).

questa cosa qua me l’ha fatta venire in mente questo post di Giulio Mozzi.

la ragazza della mia età

L’ho vista che passava di fretta, la ragazza della mia età.
Non m’ha riconosciuto. Colpa anche mia: cuffia e occhiali da sole e barba lunga e sempre più bianca.
Cinquant’anni, elegante, guardava davanti a sè: nulla di buono all’orizzonte.
Avrei voluto dirle, Fermati, avrei volevo dirle, Guarda che oggi è una bella giornata,
avrei voluto dirti…

Ricordi?, era un sabato di tanti anni fa, ed era un giorno uguale uguale a oggi: d’inverno, ma che sa di primavera.
Uscimmo, s’era in cinque.
Fu un bel pomeriggio, tra i viali e le strade di periferia.
Tu e altre due compagne di scuola, ultimo anno delle superiori, a braccetto; dietro a voi e di fianco a voi, io e quel mio amico strano e distratto, che è , quel mio amico, un ricordo grigio, oggi. C’era, sì, era con noi, ma aveva altro per la testa, e non vedeva né voi né il cielo terso: guardando lontano, s’intravvedevano le montagne innevate.
Io quel sabato non lo scorderò mai. Voi tre che camminate; io che parlo con voi; voi che parlate con me; spensierati.
Ecco: spensierati.
Sai, ragazza della mia età, mi riesce sempre meno a essere spensierato.
Stanotte per esempio. Avevo davanti il computer e una pila di libri. E pensavo alle cose che devo o dovrei fare, alla cose che è meglio non fare, perché il tempo – gran bastardo – galoppa, e allora mi son detto: Remo hai due ore davanti, prima del sonno, fai qualcosa che ti va di fare. Ho scansato libri e computer.
E son stato per due ore a guardare, oltre la finestra, la notte. Rilassato, certo, ma spensierato no.
Poi stamattina ho visto te. Avrei voluto dirti, guarda che è sabato, ricordi quel sabato? Eravamo spensierati, costa niente esserlo, ma è un gran casino esserlo. Ricordi? Sforzati a ricordare è importante: guardavamo quelli che spensierati non erano.
Erano insomma quelli che siamo noi, oggi.
Però io credo che almeno provarci dovremmo: che ne dici, ragazza della mia età?, usciamo oggi e andiamo per viali?, la giornata promette primavera.

(Sai, io oggi racconto storie. Vere o inventate. Ne avrei una, da raccontarti. Vera. Ricordi quel sabato?, s’era in cinque. Voi tre spensierate. Io – stranamente – pure. Chè mi avevate contagiato. Poi c’era un amico mio. La sua storia, ecco, è bella come un libro triste: senza mai un giorno, un pomeriggio spensierato da ricordare).

come farsi leggere dagli editori

Pensate di aver scritto un buon libro e vorreste proporlo all’editoria, affinché venga almeno letto?
Qualcuno vi dirà: rinuncia, le case editrici pubblicano solo i raccomandati.
La case editrici pubblicano i raccomandati?
Rispondo dopo.
Torno a chi ha un manoscritto da proporre.
Ha due avversari:
– le case editrici, se invii un manoscritto pensano “che palle” un altro che si crede Joyce o Camilleri.
– un esercito di aspiranti scrittori che intasano le case editrici con proposte editoriali che possono essere valide, ma che a volte sono boiate stratosferiche.
perché se è vero che io ho letto dei manoscritti che sono stati bocciati e che io non capisco perché siano stati bocciati, è altrettanto vero che tante gente scrive pensando di essere un “artista” e invece ha delle lacune da scuola dell’obbligo. Gente, soprattutto, che non legge.
Allora Sandrone Dazieri nel suo blog dà queste indicazioni agli aspiranti scrittori.
Ecco il suo decalogo.
Penso che sia il decalogo per chi aspira a pubblicare per Mondadori o case editrici grandi e grandissime.
Perché ci son tante varianti, ogni casa editrice, insomma, fa storia a sé.
Chi non legge il manoscritto, chi legge solo la sinossi, chi legge, chi accetta anche il formato elettronico, chi dice di non spedire quando c’è la fiera di Francoforte.
Ma soprattutto nel decalogo manca una verità: volete essere letti con un minimo di attenzione? Bene, potete spedire e sperare, ma se volete avere qualche possibilità in più dovete essere segnalati da qualcuno.
A me non è successo.
Spedii a Mursia, spedii a Fernandel, che mi pubblicarono. La NewtonCompton, invece, fu lei a contattarmi: abbiamo letto che stai scrivendo un libro, ci interesserebbe pubblicarlo, ci puoi mandare una sinossie un capitolo?
(Questa è la storia della pubblicazione de La donna che parlava con i morti).
Sta di fatto che in questi anni oltre a scrivere e lavorare, ovvio, io abbia letto anche dei manoscritti. E li abbia segnalati a qualche editore che io conosco.
Se a un manoscritto si dà un’occhiata, quando va bene, a un manoscritto “segnalato” se ne danno due.
E’ cosa questa che non si dice perché poi capita quello che già capita alle case editrici: l’intasamento di proposte.
Scrittori ed editor sono perseguitati dalle richieste di persone che vorrebbero un giudizio e, magari, anche essere segnalati.
Spesso succede che i più rompicoglioni e i più testardi riescano a farsi prendere in considerazione.
Ergo: la timidezza, o il restare nel proprio cantuccio non paga.
Prendiamo però il caso Saviano.
Un aspirante scrittore che viene letto e poi pubblicato (lasciamo perdere che sia diventato un caso) da Mondadori.
Come ha fatto Saviano a essere preso in considerazione de Mondadori? Sparo, ora, una supposizione: grazie a Nazione Indiana.
Ma non perché era ed è uno degli autori di Nazione Indiana: semplicemente perché scriveva cose di un certo interesse e le scriveva bene.
Ripeto, questa è una mia supposizione.
Come ha fatto De Carlo a essere pubblicato? Narra la leggenda o forse è verità che sia andato a casa di Calvino con il manoscritto di quello che è diventato il suo primo libro.
E poi. Non dimenticherò mai un’intervista letta in rete. Domanda a uno scrittore: come sei arrivato alla pubblicazione? Risposta: Non ci crederai, ma è semplicemente successo che mia madre un giorno ha incontrato il tal editore, che è un suo conoscente, e gli ha dato il mio manoscritto.
C’è quindi anche la strada… della mamma, insomma.
Quindi.
Va bene spedire il proprio manoscritto e accendere un cero se si è credenti, va meglio se si spedisce con annessa segnalazione.
Le case editrici son come vigili pigri.
Gestiscono male quindi gli ingorghi dei manoscritti.
Per passare ci vuole una sirena, un lasciapassare, qualcosa.
Ma magari mi sbaglio.

il mio giornale sulla bilancia

C’è crisi, nella carta stampata.
Nel mio giornale per fortuna no.
Penso d’essere stato un buon timoniere.
Tra qualche giorno ci sarà una cena con giornalisti e collaboratori: se sono stato un buon timoniere (o capitano) lo devo anche a loro, che mi hanno seguito e apprezzato.
Non mi frega di sapere se questi collaboratori son di destra, sinistra e centro. Quando fai giornalismo devi “solo” dire le cose come stanno.
Provarci, con onestà.
Chiaro, non piace al potere. Ma la gente poi ti ripaga.
Ho assunto la direzione nel 2005, era il primo di aprile.
Più volte, sul mio giornale, ho scritto: nel caso il giornale dovesse vendere di meno rispetto agli anni precedenti (2004, 2003, 2002) io il alzo i tacchi, perché significa che non sono un buon timoniere.
Bene, nel 2007 il giornale ha registrato il record di vendite.
(Con una leggera riduzione della forza lavoro, perché ho concesso il part time ha una mia collega mamma, che era a tempo pieno).
L’anno scorso, piena crisi dell’editoria, non abbiamo tenuto i livelli del 2007 ma le vendite vanno meglio rispetto al 2004, 2003, 2002.
Ho scritto anche un’altra cosa, sul giornale: ci fossero interferenze degli editori (il padrone in redazione, insomma) io alzerei i tacchi.
Sulle vendite ho rischiato, però, e tanto.
Allora, si sa che – a prescindere di quello che dichiara la gente –  è la cronaca nera l’argomento trainante: più morti ci sono, meglio se morti ammazzati, meglio se le morti son cruente, e più un giornale vende.
Bene, io ho ridotto, e tanto, l’impatto con la nera, in prima pagina.

Nell’editoria libraria alcuno sostengono che una buona copertina e un buon titolo siano tutto. Che siano questi due elementi, cioè, a determinare o meno il successo di un libro.
Nell’editoria giornalistica, soprattutto locale, si dice in buona sostanza la stessa cosa: che tutto dipende dalla prima pagina e dai titoli di cronaca nera.
In parte è vero.
Una morte cruenta, un delitto efferato, specie se corredato da fotografie, fanno vendere molto di più: sì, ma quel singolo numero.
Se invece uno punta a fidelizzare più lettori deve fare un discorso basato su tutto il giornale: dalla prima all’ultima pagina.
Se un giornale è solo la prima pagina, e tanti giornali locali sono solo la prima pagina, il giornale vivacchia di speranza: che capiti qualcosa.
Badate bene, però, ché quello che scrivo io, ora, può sembrare una sorta di autocelebrazione o autoincensamento.
In parte lo è, di sicuro è anche qualcosa che non dovrei scrivere: perché quando tu, direttore, dici che vuoi fare un giornale con non sia servile e che racconti e che denunci non sei il massimo della vita per un editore.
Un editore pensa: c’è di meglio.
Il meglio, per un editore è: un direttore che faccia credere di raccontare tutto, ma che poi medi, abbia un occhio di riguardo per esempio col mondo politico-istituzionale che poi ripagherà quest’occhio di riguarda con pagine di pubblicità.
Quando Berlusconi s’incazzò con Repubblica e invitò a non fare pubblicità su Repubblica io feci, tra me e me, i complimenti a Berlusconi: diceva, pubblicamente, quel che il Potere politico fa, da anni.
Un sindaco favorisce l’insediamento di un centro commerciale?
Se tu giornale sarai gentile tanto col sindaco quanto col centro commerciale ti arriverà pubblicità, se fai lo stronzo e dici cose che non piacciono o al sindaco o al centro commerciale, certo, te lo dirà nessuno questo, ma – magicamente – tu vedrai che la pubblicità finirà nelle testate che sanno come va il mondo (è questo, direi, il grande difetto di tanta editoria locale: deve essere “gentile” per sopravvivere).
Così va il mondo, così va il mio giornale per ora.
Che certe volte non mi soddisfa, vorrei maggiori approfondimenti, meno foto stupide di inaugurazioni, e più storie: di gente comune.
E si sbaglia, anche.

Un paio di mesi fa mi scrive una lettrice.
Perché avete scritto quell’articolo in quel modo?
L’articolo raccontava di una signora sposata che aveva avuto un amante bello e giovane ed extracomunitario. E che un giorno questo amante aveva iniziato a ricattarla: o mi dai i soldi o dico tutto a tuo marito. Lei aveva denunciato la cosa in questura, la questura aveva arrestato l’amante ricattatore, la signora vedeva finire la vicenda nel modo migliore: nessuno avrebbe saputo, di lei, nemmeno il marito.
Oddio la questura avrebbe potuto evitare di dire che si trattava di una signora (ora non ricordo bene) se di 43 o 42 anni. E poteva evitare di dire che l’amante-ricattatore era prestante. Ché tanti mariti di signore di 43 (o 42 anni) avran cominciato a farsi domande.
Noi però quel pezzo l’avevamo scritto male: dal momento che la signora sarebbe rimasta anonima il mio giornalista (è molto bravo, molto giovane, molto faccia di culo) si era sbizzarrito un po’ troppo in esercizi, diciamo, di fantasia non erotica, ma quasi.
Avremmo fatto meglio a raccontare in modo secco. E di errori così ne ho da raccontare.
Ma anche di giornate passate a fare bene il nostro mestiere.
Sono del segno della bilancia, quindi soppeso tutto, ogni giorno.

Con i miei editori ho spesso dissapori. Ma riguardano la “logistica” e le cose pratiche del giornale: distribuzione, sistema editoriale, investimenti.
Mai chiesto un centesimo, per me. Per i collaboratori invece sì.
Ciro Paglia, grandissimo giornalista da cui ho solo da imparare, mi dice che io son fortunato.
Io però di notte, a volte, sogno di aprire un giornale: solo mio.
(Anche una casa editrice, ma meno. Oppure sogno di tornare a fare il portiere di notte in un albergo: che è il lavoro più bello che ho fatto, in vita mia).

c’era del marcio in danimarca

«In Italia essere furbi è qualcosa di positivo, in Danimarca è una cosa brutta».

Martin Jorgensen, ex giocatore della Fiorentina appena rientrato in Danimarca ha dichiarato queste cose.
Insomma: “c’è del marcio in Danimarca” va mica più bene.
Dice altre due cose, Martin Jorgensen: «
In Italia avete tutto, ma lo rovinate».
Magari ha ragione: mica conosco la Danimara, io, mai stato.
Poi, sulla furbizia aggiunge:
«Ci vorrebbe più rispetto per le regole».
Poteva dire, Ci vorrebbe più rispetto, e basta.
Io son rimasto stupito dei bagni in Spagna: quelli degli uomini sono puliti, e non sembra vero. Mica c’è scritto che bisogna tirare l’acqua.

Che poi, mica vero che solo gli uomini son sporcaccioni.
Allora, mese di agosto del 2008, sono a Imperia, Marino Magliani presenta me e il mio libro, uscito per la Newton.
Prima di inziare succede che mi scappa.
Vado in bagno, c’è qualcuno che impiega troppo.
Qualcuno mi suggerisce di andare in quello delle donne.
Vabbè, mai fatto, ma visto che si sta facendo tardi, e che c’è pure una troupe della Rai, e ci sono, miracolo, cinquanta persone, vado nel bagno riservato alle donne.
E incrocio una bella, bella ragazza.
Bella tanto. Lei esce dal bagno, io entro.

Ed ccomi dentro: la bella ragazza ha lasciato uno schifo da vomito.
Immaginate, se volete, che io mi fermo.
Ci son rimasto, ma come, pure le belle ragazze?, mi son chiesto mentre – turandomi il naso – facevo pipì davanti alla scritta che diceva di non gettare assorbenti…