Sempre La donna che parlava con i morti, prime pagine. Continua, insomma, il post precedente
Sono tristi le risaie d’inverno, ma resterò sempre qua, tra queste nebbie che avvolgono i miei ricordi. Sono in treno, ora. Ho le cuffie, così nessuno prova ad attaccar bottone e non sento il casino degli studenti. Sto ascoltando La ballata di Sacco e Vanzetti cantata da Joan Baez.
… resterai sempre un po’ anarchica, vero Anna?
Comunque. Finalmente faccio quello che volevo fare anche se, quello che faccio, non è bello come ti fanno credere certi libri o film.
C’è sempre troppa nebbia attorno alla nostra vita. Troppo dolore.
Ho appena risolto un caso e oggi è una giornataccia.
Uno schifo di caso: una giovane madre che, dopo aver scoperto ed essersi data al sesso estremo con il vicino di casa pervertito, ha deciso di gettarsi giù dal sesto piano, vorrei non pensarci ma devo vedere suo padre, il cliente insomma, ho appuntamento alle undici, merda. Devo dirgli la verità – per questo è una giornataccia – altrimenti quello continua a sospettare che sia il genero la causa della morte della figlia, e anche se il genero è un senzapalle che non sa da che parte è girato e che vive per andare allo stadio la domenica, è giusto che la bambina resti a lui.
Mi sto specializzando nelle morti misteriose e nella ricerca di persone scomparse.
La sveglia da anteguerra, ora, mi butta giù dal letto alle sette di mattina. Da due anni. Vado in stazione, prendo un caffè e poi, aspettando il treno che, in un quarto d’ora, venti minuti, mi porterà a lavorare fumo la seconda sigaretta della giornata.
Risaie e ricordi, risaie e ricordi, risaie e ricordi, arrivo, frenata, si scende, caffè al bar della stazione, poi terza sigaretta e via a piedi e in fretta in ufficio.
Ho preferito diventare una pendolare che trasferirmi. Sono troppo attaccata alla mia città. Alla casa che mi ha lasciato mio padre.
La titolare dell’agenzia, mi trovo bene con lei, ha cinquantadue anni ben portati, è specializzata, lei, in corna e spionaggi industriali, mi ha proposto di diventare sua socia; accetterò.
Mi lascia poco tempo libero questo lavoro. E un po’ mi ha cambiata. Sono meno sboccata, ad alcuni clienti dava fastidio; e quando sono distratta non devo gettare per terra i pacchetti di sigarette vuoti e poi cerco di vestirmi in modo decente. Mi arrangio al mercato, comunque, sono mica una figalessa da boutique, io.
A volte, quando mi sento sporca (e vado in crisi) perché lavoro per clienti senza scrupoli, o mi intrometto nella vita degli altri, nei loro tradimenti (in caso di necessità pure io mi occupo di corna) e nelle loro debolezze, rimpiango il lavoro in libreria.
Oggi lo preferirei: perché quando dirò a quel vecchio chi era sua figlia, lo so, mi odierà, mi maledirà; poi mi pagherà; poi, quando me ne sarò andata, bestemmierà, immaginerà la sua bambina che si fa legare a un letto, nuda, che si fa frustare; e poi piangerà, si ricorderà di lei quand’era piccola mentre io passerò il resto della giornata a pensare che sarebbe stato meglio essere in libreria piuttosto che ferire, in modo così atroce, un uomo.
Spero mi creda, spero proprio non mi costringa a mostrargli le foto che mi son fatta dare dal vicino di casa pervertito (l’ho costretto, altrimenti lo denunciavo).
No, no, non devo rimpiangere il mio passato. Vado, racconto, incasso. Ma ricorderò sempre chi ero.
…. due anni fa, giorni che non potrai dimenticare mai, vero Anna?
Alla riapertura della libreria mancava un giorno. A settembre mancavano invece dieci minuti. Esatti. Guardando l’ora, Anna ipotizzò un brindisi di mezzanotte, come si usa a capodanno. Ci ripensò: era un’idea cogliona.
… di una stupida, inutile commessa di libreria, pensasti. Ti sentivi così. Si è sempre quel che ci si sente. Ma dentro dentro, nelle viscere.
Si alzò dallo sdraio, sistemato al confine tra balcone e camera da letto, spense la radio che trasmetteva un concerto jazz, ma non era serata, quella, per chiudere gli occhi e rilassarsi, ripose in una mensola un vecchio giallo di Georges Simenon, da due ore imprigionato tra la sua mano ed il ventre. E con una birra per salutare l’arrivo del nuovo mese, «sono una stupida commessa, ma di fantasia», disse stappandola (da un po’ di tempo parlava da sola), trascinando lo sdraio uscì sul balcone. A lasciarsi avvolgere dalla noia e dal fumo. Una sigaretta dopo l’altra, scacciando zanzare e bevendo birra, con gli occhi distratti sulla strada: sui fari delle macchine; su due gatti che si rincorrevano; su uomini e donne che rincasavano.
Settembre, senza brindisi e senza farsene accorgere, era arrivato; e, con lui, la notte che si confonde al mattino: con altri uomini e donne assonnati che, dopo il primo caffè, uscendo di casa, per poco non s’incrociavano coi tiratardi.
L’ultima cicca di sigaretta finì sulla strada. Era brava, Anna, a far leva tra pollice e indice e lanciare il mozzicone, che diveniva un piccolo razzo luminoso.
Non restava che coricarsi, aspettare l’arrivo del sonno, svogliatamente, con l’abat jour e il vecchio computer accesi, tanto chissenefrega.
Un’altra notte senza guardare se in cielo ci fossero luna e stelle. Un’altra notte a maledirsi e maledire Fabrizio, la sua fuga.
Non poteva sapere, lei, che la maledizione veniva da lontano, da molto lontano.