appunti di giornale (2006)

Ad aprile, saranno nove anni di direzione de La Sesia, giornale di Vercelli fondato nel 1871.
Aprile del 2006. Ero direttore da un anno. Scrissi questo nel vecchio blog (Appunti) che ora non c’è più.

 

Allora, domani, primo maggio, uscita anticipata del giornale.
Pochi minuti fa la riunione di redazione.
Un po’ di politica, un po’ di cronaca nera, i risultati sportivi, e una notizia: la morte di una donna di 40 anni, un’insegnante che dava una mano al padre, commerciante. Uccisa dal cancro, proprio come sua madre, pochi mesi fa.

Questa città, 50 mila abitanti e un comprensorio di altrettanti.
Questo giornale, dove la notizia non è solo qualcosa che diventa un articolo: è anche uno stato d’animo che ci accompagnerà fino a stasera, alle 22, quando chiuderemo il giornale. (Due colleghi quella donna la conoscevano).
Succede spesso, qui: che volete, è un giornale di provincia.
Si scrive di vita e di morte. E poco più.
(Devo lavorare, ora).

La donna che parlava con i morti – 2

Sempre La donna che parlava con i morti, prime pagine. Continua, insomma, il post precedente

Sono tristi le risaie d’inverno, ma resterò sempre qua, tra queste nebbie che avvolgono i miei ricordi. Sono in treno, ora. Ho le cuffie, così nessuno prova ad attaccar bottone e non sento il casino degli studenti. Sto ascoltando La ballata di Sacco e Vanzetti cantata da Joan Baez.
… resterai sempre un po’ anarchica, vero Anna?
Comunque. Finalmente faccio quello che volevo fare anche se, quello che faccio, non è bello come ti fanno credere certi libri o film.
C’è sempre troppa nebbia attorno alla nostra vita. Troppo dolore.
Ho appena risolto un caso e oggi è una giornataccia.
Uno schifo di caso: una giovane madre che, dopo aver scoperto ed essersi data al sesso estremo con il vicino di casa pervertito, ha deciso di gettarsi giù dal sesto piano, vorrei non pensarci ma devo vedere suo padre, il cliente insomma, ho appuntamento alle undici, merda. Devo dirgli la verità – per questo è una giornataccia – altrimenti quello continua a sospettare che sia il genero la causa della morte della figlia, e anche se il genero è un senzapalle che non sa da che parte è girato e che vive per andare allo stadio la domenica, è giusto che la bambina resti a lui.
Mi sto specializzando nelle morti misteriose e nella ricerca di persone scomparse.
La sveglia da anteguerra, ora, mi butta giù dal letto alle sette di mattina. Da due anni. Vado in stazione, prendo un caffè e poi, aspettando il treno che, in un quarto d’ora, venti minuti, mi porterà a lavorare fumo la seconda sigaretta della giornata.
Risaie e ricordi, risaie e ricordi, risaie e ricordi, arrivo, frenata, si scende, caffè al bar della stazione, poi terza sigaretta e via a piedi e in fretta in ufficio.
Ho preferito diventare una pendolare che trasferirmi. Sono troppo attaccata alla mia città. Alla casa che mi ha lasciato mio padre.
La titolare dell’agenzia, mi trovo bene con lei, ha cinquantadue anni ben portati, è specializzata, lei, in corna e spionaggi industriali, mi ha proposto di diventare sua socia; accetterò.
Mi lascia poco tempo libero questo lavoro. E un po’ mi ha cambiata. Sono meno sboccata, ad alcuni clienti dava fastidio; e quando sono distratta non devo gettare per terra i pacchetti di sigarette vuoti e poi cerco di vestirmi in modo decente. Mi arrangio al mercato, comunque, sono mica una figalessa da boutique, io.
A volte, quando mi sento sporca (e vado in crisi) perché lavoro per clienti senza scrupoli, o mi intrometto nella vita degli altri, nei loro tradimenti (in caso di necessità pure io mi occupo di corna) e nelle loro debolezze, rimpiango il lavoro in libreria.
Oggi lo preferirei: perché quando dirò a quel vecchio chi era sua figlia, lo so, mi odierà, mi maledirà; poi mi pagherà; poi, quando me ne sarò andata, bestemmierà, immaginerà la sua bambina che si fa legare a un letto, nuda, che si fa frustare; e poi piangerà, si ricorderà di lei quand’era piccola mentre io passerò il resto della giornata a pensare che sarebbe stato meglio essere in libreria piuttosto che ferire, in modo così atroce, un uomo.
Spero mi creda, spero proprio non mi costringa a mostrargli le foto che mi son fatta dare dal vicino di casa pervertito (l’ho costretto, altrimenti lo denunciavo).
No, no, non devo rimpiangere il mio passato. Vado, racconto, incasso. Ma ricorderò sempre chi ero.
…. due anni fa, giorni che non potrai dimenticare mai, vero Anna?

 Alla riapertura della libreria mancava un giorno. A settembre mancavano invece dieci minuti. Esatti. Guardando l’ora, Anna ipotizzò un brindisi di mezzanotte, come si usa a capodanno. Ci ripensò: era un’idea cogliona.
… di una stupida, inutile commessa di libreria, pensasti. Ti sentivi così. Si è sempre quel che ci si sente. Ma dentro dentro, nelle viscere.
Si alzò dallo sdraio, sistemato al confine tra balcone e camera da letto, spense la radio che trasmetteva un concerto jazz, ma non era serata, quella, per chiudere gli occhi e rilassarsi, ripose in una mensola un vecchio giallo di Georges Simenon, da due ore imprigionato tra la sua mano ed il ventre. E con una birra per salutare l’arrivo del nuovo mese, «sono una stupida commessa, ma di fantasia», disse stappandola (da un po’ di tempo parlava da sola), trascinando lo sdraio uscì sul balcone. A lasciarsi avvolgere dalla noia e dal fumo. Una sigaretta dopo l’altra, scacciando zanzare e bevendo birra, con gli occhi distratti sulla strada: sui fari delle macchine; su due gatti che si rincorrevano; su uomini e donne che rincasavano.
Settembre, senza brindisi e senza farsene accorgere, era arrivato; e, con lui, la notte che si confonde al mattino: con altri uomini e donne assonnati che, dopo il primo caffè, uscendo di casa, per poco non s’incrociavano coi tiratardi.
L’ultima cicca di sigaretta finì sulla strada. Era brava, Anna, a far leva tra pollice e indice e lanciare il mozzicone, che diveniva un piccolo razzo luminoso.
Non restava che coricarsi, aspettare l’arrivo del sonno, svogliatamente, con l’abat jour e il vecchio computer accesi, tanto chissenefrega.
Un’altra notte senza guardare se in cielo ci fossero luna e stelle. Un’altra notte a maledirsi e maledire Fabrizio, la sua fuga.
Non poteva sapere, lei, che la maledizione veniva da lontano, da molto lontano.

La donna che parlava con i morti – 1

La donna che parlava con i morti, Newton Compton 2007. E’ fuori catalogo, defunto. Spero che prima o poi qualche editore lo faccia resuscitare. Ecco le prime pagine.

Si parlava poco di lei. Quando se ne parlava i vecchi dicevano, ma solo in certe occasioni, banchetti funebri, domeniche nebbiose trascorse tra amici e parenti a mangiar castagne, dicevano, questi vecchi, che era «come una santa». Santa Nunzia del bosco. O dei castagni.
Aveva poco più di vent’anni quando lasciò il Palazzone per andare a vivere come in clausura nel cascinale in fondo alla valle, costruito in una sola estate dai muratori venuti da lontano con muli e cavalli da tiro, in fretta, e un capomastro che urlava, e gente armata su cavalli e mule, a controllare.
E di lei per anni e anni si disse, ma si seppe poco. Si seppe, ma si disse poco del suo peccato: aveva tradito il marito, tre volte più vecchio di lei, per un giovane, bel fattore che poi fu trovato morto, dissero per disgrazia, in un torrente.
La pena per Nunzia la decisero, con la benedizione del marito disonorato, i suoi due cognati; clausura a vita, controllata a vista da due contadine, carceriere spietate in cambio di un piatto di minestra, vino buono, un letto per dormire e per altri piaceri, chissà.
Il vecchio marito si accollò le spese del podere e, si disse, non volle vederla più. Lui e i suoi due fratelli, più giovani, facevano paura. Erano i più ricchi, i più fascisti, i più temuti della zona. Quando Nunzia restò vedova, nessuno osò commentarne l’assenza al solenne corteo funebre che partì dal Palazzone.
Tutti sapevano che viveva in fondo al bosco. E qualche ragazzaccio, temerario, in tempo di guerra, scendendo la mulattiera che porta al casolare dei castagni, da lontano, per rispetto e per paura, l’aveva spiata. Di notte, al lume di luna. Restando incantato da tanta bellezza.
Quando i tedeschi si ritirarono, e i due cognati se la diedero a gambe ché i partigiani li volevano impiccare, Nunzia riapparve. Era tempo di rastrellamenti, scontri, morti vicino al suo casolare. Tanti morti. E vermi sui morti.
L’eterno riposo dona loro o Signore, pregava Nunzia mentre, insieme ad alcuni uomini, posava dei rami di castagno a forma di croce su quei corpi da bruciare col petrolio. Divenne Nunzia dei castagni.
Appena si sparse la voce che era stata ammazzata, tutti diedero la colpa ai cognati. Si sapeva, certo che si sapeva: di notte, ubriachi, per anni erano andati al podere per umiliarla, insieme ad altri camerati. Bevevano, ridevano e viva il Duce. Poi facevano a testa e croce.
Era una moneta a decidere.
Una moneta, poi dimenticata nell’aia d’estate, o nel fienile d’inverno.
Chi perdeva, doveva accontentarsi di schiaffarlo in culo alle contadine carceriere, chi vinceva, vinceva lei. Nunzia.
Ma non erano stati loro ad ammazzarla.
Erano stati i tedeschi. Erano andati da Nunzia senza sapere che nascondesse partigiani, poi testimoni del fatto. Erano andati da lei perché volevano un maiale. Li aveva lasciati fare, Nunzia, ma quando aveva visto che stavano scegliendo una scrofa che doveva figliare, gridò che potevano prendere gli altri, ma non quella. E la mitragliarono.
Dopo la guerra, uno dei cognati tornò nel podere con la figlia; le disse: «Questo è un posto maledetto». E le raccontò di Nunzia «da non dire a nessuno». La ragazza, che di lì a poco prese i voti, se ne andò in convento col ricordo di quel nome.

Dalla pancia del blog/6: invidie e sogni di una volta

Questa cosa qui la scrissi nel 2008. A un certo punto c’è scritto: Sto per pubblicare. Il riferimento era a Bastardo posto che, infatti, doveva uscire per la Newton Compton. Il giorno in cui il libro doveva andare in stampa mi scrissero: Purtroppo ci sono solo 900 copie prenotate, riproveremo più in là. Non riprovarono, mi rivolsi a Luigi Bernardi e Bastardo Posto uscì con Perdisa. Per la verità si dichiarò disposta a pubblicarlo anche un’altra casa editrice. Una bella casa editrice. Feci l’errore della mia vita, a dir loro No grazie. libri

 

 

 

 

 

 

 

 

No, giuro che non li invidio quelli che vendono più libri di me; spero di raggiungerli, magari di superarli, ma non li invidio. Ho un po’ di invia per quelli che possono mangiare e bere tanto da scoppiare “tanto non ingrasso”, dicono. Giuro che non invidio quelli che son ricchi e hanno soldi. Ho un po’ di invidia per chi vive in un posto di mare. Giuro che non invidio quelli che son più giovani di me; non avrebbero conosciuto le ragazze della mia età; non avrebbero i miei ricordi. Ho un po’ di invidia per chi ha più tempo di me; io, avessi più tempo, lo utilizzerei per leggere, passeggiare in riva al fiume (mancando, dove vivo io, il mare), rimettermi a studiare l’inglese, non parlandolo e non leggendolo ho dimenticato quasi tutto. (Per scrivere mi sta bene il poco tempo che ho,di notte: ho sempre scritto in fretta, o di notte, oppure dovunque). Non ho nessuna invidia per chi vive serenamente; non posso invidiare, in questo, caso, ché i casini, io, me li vado a cercare e certe volte dubito che vivrei benesenza. Ma ora mi fermo, sto diventando noioso. Quel che invece mi premeva dire, fin dalla prima riga che ho scritto, è questo: ho una profonda invidia per chi riesce a vivere senza far piangere altri, senza far danni, senza ricevere sguardi pieni d’odio, a volte, quando cammina per strada. So che qualcuno prova dell’invidia nei miei confronti. Dirigo un prestigioso giornale, dal 1871 a oggi non è uscito solo alcuni mesi, nel 44. Ho pubblicato e sto per pubblicar libri. Provo un po’ di invidia per quel ragazzo che studiava, di notte, lavorando in un albergo. Non conosceva Pessoa allora, ma aveva in sè tutti i sogni del mondo.

Dalla pancia del blog/5: perdere tempo

Questa, pure lei tratta dalla pancia del blog, è del 19 aprile 2013, è recente quindi. Pioveva quel giorno.

Dal mio vecchio blog:
La morte è un brutto pensiero. O forse no. Pensandoci, almeno qualche volta, ci si accorge che il tempo, grosso modo, può essere diviso in due categorie: quello perso, e quello no.

Chiaro,
si capisce sempre troppo tardi cos’è il tempo perso.
Metti che uno passi il suo tempo nel tentativo di diventare famoso.
Sapesse, quest’uno, che ce l’ha contato, il tempo, smetterebbe subito, direbbe: Sto perdendo tempo, meglio che vada da, meglio che vada a.
(E se ripenso al mio passato, non so dire se ho perso giorni, non lo so ancora dire; quando si rincorre qualcosa, inevitabilmente, si rischia di perdere qualcos’altro, magari di più importante. E poi vengono i successi, magari, e i sensi di colpa. Stop).
Ma forse, dico forse perché vedo doppio dalla stanchezza e quindi magari penso male, il tempo che più sprecato non si può è quello che dedichiamo a vomitar veleno sugli altri.
Martin Luther King (mi pare fosse lui) diceva (spero) che il sentimeto peggiore è l’odio: perché tu regali le tue energie a colui, appunto, che odi.

Il problema vero mica è la morte. E’ scegliere.
Buona giornata.
E speriamo smetta di piovere.

dalla pancia del blog/4: il pc sempre dietro

Dalla “pancia” del blog. Bozza del 19 giugno 2008.

Ce l’ho sempre appresso il computer. Vado via un giorno?, e lui mi segue.
Abbiamo deciso così, ché altrimenti sentiamo la lontananza, sentiamo.
Il pc dove scrivo, leggo mail, siti vari, blog, google.

Da tg.com.
Un cittadino francese residente negli Usa e accusato dell’omicidio della moglie e della figlia ha usato Google per cercare il modo migliore per togliere la vita alle due parenti. Durante le indagini sul duplice omicidio si è infatti scoperto che l’uomo, soltanto sei giorni prima del ritrovamento dei cadaveri, aveva cercato sul popolare motore di ricerca “come uccidere con un coltello”. Lo ha detto un perito informatico durante il processo all’uomo. (tgcom.it)

dalla pancia del blog/3: defunti (di Visotskij)

Anche questo, dormiva nella pancia del blog

 

Vi regalo un pezzo di una poesia di Visotskij

I defunti, gli ex-umani, hanno stabile fermezza
Mica fatti come noi sono proprio un’altra razza
Poi in quanto a sangue freddo non si fanno compatire
Non li vedi mai scomporsi, mai avranno da ridire
Sanno star nel loro ambiente, quieti quieti fino in fondo
Non si sente anima viva, proprio cose d’altro mondo
Perché, senza entrare nel merito è soltanto questione di spirito

Là nel regno delle ombre non si sente una parola
e di notte una signora ci può andare anche da sola
Che non corre nessun rischio, né pericoli di sorta
qui nessuno la importuna o le fa la mano morta

Dalla pancia del blog/2: gettoni

Tra le bozze del blog. Scritto anni fa… Ho 147 articoli non pubblicati.

 

fine anni ottanta. facevo lavori saltuari, frequentavo lettere, collaboravo con il giornale che ora dirigo.
un giorno fui ospite in casa del caporedattore.
era primavera, andammo sul balcone a fumare.
sotto casa di quell’uomo c’era e c’è un viale alberato e, tra gli alberi, c’era ma ora non c’è più, una cabina telefonica.
mentre fumiamo e parliamo vedo, ma senza farci troppo caso, un uomo che entra ed esce dalla cabina telefonica.
il caporedattore si mise a ridere e mi disse, Hai visto?
Visto cosa?, domandai.
Il tipo che entrato nella cabina telefonica, ma come non lo conosci?
No.
E non sai che…
Non so, dissi.
Non sapevo che il tipo era un insegnante che aveva l’abitudine, tutti i giorni, di fare il giro della cabine telefoniche della città, alla caccia di gettoni o dimenticati o che, per generosità della telecom, l’apparecchio sputava fuori.
giorni dopo vado in università. lezione il mattino, lezione il pomeriggio.
quando torno a vercelli è quasi sera,  c’è poca gente in stazione. passo nell’atrio e mentre passo, e vedo il telefono a gettoni, mi viene in mente il tipo che andava a raccattar gettoni o avanzati o sputati.
guardo in giro: c’è nessuno.
faccio come lui.
bene, da non credere.
ricordo ancora il rumore: il rumore d venti, e dico venti, gettoni che l’apparecchio telefonico sputò fuori appena schiacciato il pulsante della restituzione dei gettoni.
venti gettoni.
festeggiai.
(fu in quegli anni che presi l’abitudine di raccogliere monete per terra e metterle da parte; ma la prima prima moneta portafortuna che raccolsi è tutta un’altra storia).

Continua a leggere “Dalla pancia del blog/2: gettoni”

dalla pancia del blog/1: parole che stridono

Questo, con altri cento e più, è un post non pubblicato. Era nella pancia del blog, l’ho tirato fuori, ora. L’avevo scritto il primo luglio del 2008

Nella piazza del borgo medievale che dà sul mare ho cercato l’angolo più lontano, così da non sentire voci, rumori, risate.
E stamane, camminando, ho fatto di tutto per passare inosservato.
Certe volte il desiderio più grande è quello di sentire il rumore del vento o quello dell’acqua di un fiume o di un torrente che scorre e che corre.
Ché le parole è come se stridessero.