Ha 92 anni, è un pelo sordo, ha le ossa che urlano ma la memoria è buona. E’ incazzato con me, mio padre, oggi. Stasera c’è la messa della mamma, che è morta un anno fa. Io e mia sorella Silvia abbiamo deciso che dopo si va in pizzeria. Non ci vengo, ha detto lui, che aveva in animo di invitarci a casa sua per cena. Sa fare bene la carbonara, il babbo, ma bene tanto, con la pancetta ben cotta e magra, e la cottura della pasta al punto giusto. E’ il suo piatto forte, poi viene il coniglio in pastella.
A volte penso che dovrei scrivere un libro sulla mezzadria, insomma sui suoi primi trent’anni di vita. Mezzadria, che significava fame, non avere soldi per le medicine, che significava paura del padrone, anzo no, terrore, perché ti poteva cacciare. Mezzadria in cascinali isolati, lontani dal paese. Di notte, raccontava la buon’anima di mia madre, a volte sentivi urla che venivano da lontano: gente che stava male, male tanto, ma non c’era nessun 118 da chiamare e non restava che urlare dal male, cazzo.
Ma non so se gli chiederò di raccontarmi del padrone che sapeva far di conto e del mezzadro che si faceva fregare, e del fascismo, che fu una manna per i padroni di allora, razza bastarda.
“Una volta Annibale ammazzò due tordi, poi andò al mercato e li vendette, il padrone però lo venne a sapere e così li cacciò e il giorno dopo, Annibale, la moglie e i quattro figli, che erano tutti piccoli, misero i quattro stracci che avevano su un baroccio e se ne andarono. Annibale cercava di non piangere, era inverno, dove sarebbero andati? La moglie no, lei non piangeva, le donne certe volte son più forti”.