Giorni che restano/1: Remo, devo dirti una cosa

Sono giorni senza sogni, questi. E allora torno indietro con la mente, a qualche giorno della mia vita.

Avevo sette anni, facevo la seconda elementare. Avevo una mamma, un papà e un fratellino di 10 mesi, Fabrizio.
Ogni tanto vedevo che i miei genitori si vestivano bene, poi prendevano Fabrizio e se ne andavano, lasciandomi con una zia (che non sopportavo).
Dove andassero non lo sapevo. Non chiesi mai, mi pare. Sapevo che sarebbero tornarti nell’arco di un paio d’ore.
Non c’era la televisione, eravamo poveri. Badare a Fabrizio, stargli accanto a me piaceva. Mia madre pensava che io fossi geloso, e io lasciavo che lo pensasse. Pensava che fossi anche un po’ scemo, quando mi diceva “Sei più bello tu”.
Mia madre era una donna insopportabile: mi tirava culi stratosferici, voleva che studiassi, che andassi a servire messa, che fossi ordinato. Ma la cosa che più mi faceva incazzare era che sapesse leggermi dentro. Stai pensando questo, vero, Remo? Ma vaffanculo, pensavo.
Forse però anche io sapevo leggere qualche suo pensiero.
O almeno, una volta successe.
Un mattino, quando venne a svegliarmi, mi disse: Remo, devo dirti una cosa.
Remo, devo dirti una cosa…
Remo, devo dirti una cosa…
In quel preciso istante capii che Fabrizio era morto.
Scoppiai i piangere, disperato.
Sopra la mia testa, sulla parete ci sono un po’ di foto incorniciate. La prima foto che fu fatta a Fabrizio gliela fece un fotografo, che abitava nel nostro stesso palazzo. Morto, con un vestitino bianco.
Mi dissero che era morto per un soffio al cuore. IO non sapevo che fosse malato.
(Seppi solo anni dopo che Fabrizio aveva la sindrome di down. Probabilmente perché mia madre durante la gravidanze fece gli orecchioni. La parotite, insomma. Quando si vestivano bene, i miei lo portavano da qualche specialista.)
Remo, devo dirti una cosa…

Andai lo stesso a scuola, quel mattino. Mi ci portò mio zio Quinto, fratello della mamma. Prima, però, mi comprò un buondì Motta. Quando arrivammo a scuola mi accompagnò in classe e andò a parlare con il maestro. Non ricordo nulla di quel giorno di scuola. Ma ricordo che mentre lo zio e il maestro parlavano, io, invece di andare al mio banco, andai nell’angolo dove c’era il cestino, scartai il buondì Motta, e non avrei dovuto, il maestro non mi aveva dato il permesso, avrei dovuto aspettare l’intervallo, e mi misi a mangiarlo. C’erano anche le mie lacrime in quel buondì.

Vaccinazione, vessazione, libertà personale e sicurezza pubblica

((( aitanblog )))

La stupidità deriva dall’avere una risposta per ogni cosa. La saggezza deriva dall’avere, per ogni cosa, una domanda.”

Milan Kundera non l’ho mai letto, ma questa citazione l’ho trovata là, nella rete sterminata, ed ho pensato che ci stava bene qua, tra i dubbi che mi dilaniano in questo periodo in cui vedo troppa ostentazione di instabili certezze.

Stamattina, per esempio, mi chiedevo se sono solo io a rabbrividire all’idea di un obbligo vaccinale che, leggo, può portare fino al licenziamento degli insubordinati.

Personalmente, ho scelto di vaccinarmi, ma non mi sentirei mai di imporre ad altri la mia scelta, tanto più in mezzo a tanta confusione e a tanti passi falsi della medicina, della scienza e dei governi.
Per non parlare degli interessi delle mega-industrie del settore farmaceutico.

Sarà pure che a me spaventano tutte le emergenze e le possibili conseguenze degli Stati d’Eccezione: dall’istituzionalizzazione delle soluzioni…

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Babbo, perché non mi hai dato uno schiaffo?

Ricordo un bicchiere di latte tiepido che mi guardava, al Bar Marchesi. Era con gli amici nella stanzetta piccola, dove c’era il joke-box.
Perché non mi hai dato uno schiaffo?, pensavo.
Perché di schiaffi, il babbo, a differenza della mamma (che me le suonava col battipanni) non me aveva dati mai.

Oggi ha 93 anni, il babbo. Ce l’ha col mondo e anche con me, spesso. E parla, parla. Quando vado a trovarlo mi bombarda di parole e io non vedo l’ora di uscire.
Si è fatto noioso, si lamenta troppo.
Ma è lo stesso babbo di quella sera.

Avevo 18 anni e qualche mese, ero fresco di patente, Eravamo in cinque: il babbo e la mamma, io, mio sorella Silvia, che di anni ne aveva nove, e Moreno, che era appena arrivato.
Il babbo era in cassa integrazione a zero ore. Si tirava avanti con dignità. La mamma faceva la donna di servizio, il babbo aveva un orto e faceva mille lavoretti.
Ha mai letto un libro mio padre. Terza elementare, legge i giornale guarda la tele. Ma ha mani particolari. È un contadino, quindi dategli qualcosa di verde e lui farà miracoli. Già, i miracoli. Sembra che le sue mani siano scollegate dal cervello. Sa nulla lui di elettricità, però le sue mani hanno dimestichezza con i fili e impianti elettrici, con i motori delle auto, con le tapparelle. Le sue mani, dicevo, non sanno dare schiaffi. Nemmeno carezze, per la verità.

Avevo 18 anni, e il babbo era andato a Cortona con il treno. I suoi fratelli avevano ammazzato il maiale, lo avevano chiamato e lui era andato.
E mi aveva affidato la sua Fiat 127 gialla. Stai attento, però, mi aveva detto.

Ma io non ero stato attento. Mentre il babbo era in treno e stava tornando con qualche salsiccia e qualche sanguinaccio, appena fuori città, con un amico a bordo avevo fatto lo scemo. Con il fondostrada bagnato dalla pioggia, mi ero messo a fare lo spericolato, avevo così perso il controllo dell’auto che era finita in un fosso. Tettuccio schiacciato, danni non da poco.
Ed eravamo in cinque, e lui era in cassa integrazione a zero ore. E io e mia sorella andavamo a scuola.
L’auto schiacciata viene parcheggiata sottocasa dal carro attrezzi. Il babbo non è ancora arrivato. Vai ad aspettarlo, devi dirglielo prima che veda la macchina, altrimenti si spaventa, dice mia madre. Aspetto, ma non lo vedo arrivare. Salgo in casa, penso: il treno sarà in ritardo. No, era già arrivato.
Mi guarda, lo guardo. Non so che dire. Parla lui.
Dice: «Ti sei fatto niente?»
«No, ma la macchina…»
«La macchina fregala, dai mangia.»
C’erano le salsicce cucinate al tegame, col vino bianco. Non riuscii a mangiarle.

Uscii, poi, Bar Marchesi, con gli amici, che mi chiedevano come avevo fatto. Guardavo il mio bicchiere di latte tiepido, io.
Perché non mi hai dato uno schiaffo?, pensavo.

Non è tempo di scrivere, oggi

Ipotesi A

Dei suicidi i giornali non parlavano più. Ma ce n’erano ogni giorno, sempre più. Lo sapevamo parlando da balcone a balcone, lo sapevamo sussurrandolo in strada. Facendo attenzione che non ci sentissero. Sulla grande rete no, ci controllavano, ormai da tempo. Sette anni. Sette anni di disperazione. Di vita nelle catacombe. Avevamo perso tutto: la dignità, il futuro, i sogni. E non potevamo dirlo.

Ipotesi B

Quando tutti finì, finì presto, due anni e qualche mese, ci rimase un’unica certezza: che poteva ricominciare tutto, di nuovo, e che sarebbe stato peggio. C’era un’altra certezza, non so dire se più brutta dell’altra: non ci fidavamo più di nessuno. Nemmeno degli amici più cari. Vivevamo in un mondo che – per difenderci dal male, dicevano – diffondeva bugie.

Ipotesi C

…. Voglia di non pensare. Non è tempo di scrivere, oggi

Nebbia da Covid

Forse sarebbe il caso (dico forse perché non ho certezze) di approfondire l’approccio svedese. Mi spiego, nessuna apologia (e finiamola con quanto è brava la Svezia oppure, Anche in Svezia va tutto male). Un paio di mesi fa ho sentito un’intervista a un virologo italiano che lavora, appunto, In Svezia. Si chiama Rosario Leopardi. Ha detto che il Covid resterà tra noi. Ce lo ritroveremo negli anni che verranno in forma più tenue oppure in forma più aggressiva. Chiaro che se la filosofia fosse questa, invece di puntare sui lockdown si dovrebbe lavorare di più su come contenere il virus e al tempo stesso conviverci. Credo che sarebbe importante imparare da tutti: tutti gli errori e tutte le cose che invece vanno bene. La Cina, per esempio. Mi risulta che ci sia un protocollo di cure immedìate, e che i vaccini siano di diversa impostazione. Ma ho detto un po’ a caso. La sintesi dovrebbe essere: imparare a livello globale.
Pensate, ipotizzate un programma televisivo in mondovisione, dove si confrontano gli scienziati dei diversi paesi. Con esperienze a confronto, dati alla mano. Ma è un sogno. Eppure.

E invece ci si scontra, e basta. Sui social soprattutto. La Cina è, la Svezia è, il tal vaccino è. Tante certezze in mezzo alla nebbia. Più c’è nebbia e più si urlano certezze: invece è paura.

Undici minuti: omaggio a Franzoj e Salgari, anche

Un giorno, dovesse tornare la voglia di scrivere ancora, vorrei cimentarmi in un romanzo storico dedicato ad Augusto Franzoj. Questa cosa qui la scrissi credo nel 2001, o forse nel 2002. Di sicuro la scrissi in 11 minuti. (Questo post – non è un racconto è un post – è contenuto, con altri post, nella raccolta Tamarri, Historica)

Manca un’ora. Più dodici minuti.
L’ultima ora sarà tutta per mio figlio, questi dodici minuti, invece, per te caro Emilio.
Ma dimmi, sei ancora vivo?
Io sì, per un’ora, undici minuti e una manciata di secondi. Poi due rette, uguali e contrarie, si scontreranno: per la grande scintilla.

Non sono schiavo di nessuno, io, nemmeno della libertà.
Gliel’ho detto, sai?, ai socialisti che mi vorrebbero arruolare. Il rosso mi piace, accidenti, ma le loro facce no.
L’Augusto è più libero del vento.
E’ libero come un berbero, l’Augusto.
Ed è più libero di te, caro amico dai piccoli occhi furbi, che sanno immaginare tutto.
Quante cose mi hai rubato. Poi ci salutavamo, dopo cinque, sei, sette bicchieri di vino.

Rubavi le mie storie, e andavi a imprigionarti per scriverle, e sognare la gloria che invece, questi bastardi, hanno regalato a D’Annunzio, facendoti morire di rabbia e povertà.
Povero amico mio, schiavo di soldi e della fama.
Io no, tu lo sai.

Ricordi Rimbaud? Mi scrisse tempo fa, ma a te, di quel giovane, sconosciuto poeta, non importava nulla.
Tu volevi le mie storie d’Africa, i miei mille duelli, le mie donne, che mi hai sempre invidiato.
Ne ho una sola, ora, proprio come te. E un figlio, che non mi somiglia e a cui non so parlare.
Povero amico, che per respirare il profumo che emanano le femmine vogliose hai dovuto, di notte, dare vita alla favorita del Mahdi, alla regina dei Caraibi, alla Perla di Labuan. Marianna, la tua preferita. Il tuo grande amore segreto.
Che io non ho avuto: ho collezionato spedizioni in terra d’Africa, io, duelli, io, e mogli di altri: le più calde erano quelle degli ufficiali torinesi.

Caro amico, mancano, ormai, tre minuti. Tre. Come gli atlanti che ho disegnato, come le spedizioni che mi hanno seccato il cuore, come le mie pistole.
Ne userò solo due, per la grande scintilla.
Ho pensato solo a te, oggi.
Perché tu, come me, sei una grande vittima: di questo secolo. Che sia maledetto il Novecento e che, quando arriverà il Duemila, porti via questa follia chiamata progresso.
Evviva Mompracem, evviva Sambigliong, il tuo eroe più silenzioso.
Caro Emilio, il tuo tempo è scaduto.
Anche il mio.
Devo dire a mio figlio qualcosa, che non so trovare.Un giorno mi dicesti: Ma nelle carte che hai disegnato la tua firma non c’è, nessuno si ricorderà di te.
Avevi ragione, è bello essere ricordati. Mi pento di non avere lasciato segni.
E’ per questo che scriverò a mio figlio.

Mancano 58 minuti.
Poi arriveranno due rette, uguali, potenti e contrarie. E la scintilla. Così tutti, tutti, si ricorderanno dell’Augusto.

Augusto Franzoj (San Germano Vercellese 1848; San Mauro Torinese, 1911), scapigliato, esploratore (Africa e Amazzonia), mazziniano, collezionista di donne e duelli.
In Africa, durante una spedizione verso i laghi equatoriali, conobbe Rimbaud. In Italia, durante un convegno, Salgari. Morì suicida, premendo contemporaneamente il grilletto di due pistole puntate alle tempie. Piaceva a Carducci. Non si sa se Carducci piacesse a Franzoj.

I colori, per scrivere

Vercelli, il fiume Sesia, Due sture, il Monferrato, Torino. Poi Orta e la Valsesia.
Borgio Verezzi, Varigotti, Boccadasse, Genova, Vernazza.
Bologna. Sermide. Follonica e Scarlino. Cortona. Firenze, Roma. Il Salento.

I miei luoghi.

Prendiamo Due Sture, frazione di Morano Po, poco lontano da casa mia. Un centro semidisabitato. Con vecchie case e case in vendita. C’è un’osteria, lì.
In quell’osteria sono transitati i personaggi de Lo scommettitore (primo capitolo) e de La donna di picche (nel finale).

I miei libri hanno bisogno dei miei occhi che ricordino i colori. Nel giallo Vegan, le città di Dio, c’è Narbonne, cittadina francese in cui ho trascorso le ferie. E ci sono spesso, nei miei libri, le nebbie del Piemonte, il mare della Liguria e il verde dei dintorni di Cortona.

Ora no, non c’è nulla. Non vedo colori. Nemmeno la nebbia, che ha un colore forte, unico.

Ultimo libro scritto: La suora. Scritto nell’ultimo lockdown. Il protagonista ha la testa rivolta verso Orta e il suoi lago, per motivi sentimentali, e vero la Valsesia. Durante il coprofuoco notturno rimpiange le vette innevate dei monti, il verde dei pini. Degli aceri.

Ma, ripeto, ora non ci sono colori.

Fuga in Sicilia

In questi giorni grigi di semilockdown mi è successo, chissà perché, di ripensare a lui.
Sarà stato il 1984, forse il 1985.
Lo incontravo sul treno che portava da Vercelli a Torino, dove frequentavo Lettere. Lui, probabilmente, era salito prima, forse a Novara. Avrà avuto cinquant’anni. Espressione imbronciata, non parlava con nessuno e non guardava nessuno. Ma ogni tanto, guardando fuori dal finestrino, parlava. A voce alta. Voleva farsi sentire.
Non vedo l’ora di andare in pensione e poi… e poi addio banca. Me ne vado in Sicilia, compro una barca, vado a pescare tutto il giorno. Mi basteranno 10mila lire al giorno, per vivere. Diecimilalire…

Gliel’avrò sentito dire tre, quattro volte. (Di giorno studiavo e di notte lavoravo, allora, facevo il portiere di notte. Non ricordo, ma mi sembra che la mia busta paga si aggirasse sulle 400mila lire).

Penso che quell’uomo in Sicilia ci sia andato. Forse è ancora lì.