Si avvicina marzo (I giardini di marzo si riempiono di nuovi colori, cantava Battisti) e oggi è sabato, ma tutto è coperto dal tempo del covid.
Stasera, quindi, dopo aver portato a spasso il cane e dopo aver cenato (melanzane impanate e pasta integrale all’arrabbiata) leggerò. O ri-leggerò… Che è un po’ come viaggiare.
Non l’ho mai conosciuta da viva. Lei, per me, esiste solo attraverso gli altri, nell’evidenza delle loro reazioni alla sua morte. Scavando a ritroso e attenendomi ai fatti posso dire che era una ragazza triste e una puttana. Nella migliore delle ipotesi era una fallita, un’etichetta che, del resto, potrei applicare a me stesso.
Dalia nera, James Ellroy
Mese: febbraio 2021
Paese mio che stai sulla collina
Sulla pagina facebook del Comune di Cortona è stata riportata questa fotografia. Ho postato un commento, io. Il copia incolla è sotto la foto.

Dal mio libro, Vicolo del precipizio (Perdisa Pop 2011):
Comunque: dopo i ventiquattro racconti, appena fui proclamato scrittore, per tutta una serie di motivi che nelle pagine a venire spiegherò, presi la decisione, definitiva, di trasferirmi a Torino. E addio Cortona.
Paese mio che stai sulla collina
disteso come un vecchio addormentato
la noia l’abbandono il niente
son la tua malattia
paese mio ti lascio, io vado via.
La cantano in tutta Italia ed è diventata, grazie alla voce di José Feliciano, famosa in tutto il mondo, ma quanti sanno che Franco Migliacci la scrisse pensando a Cortona e a tutti quelli che scappavano via da lei? Solo scappando capii quanto è dura la lontananza dal cie- lo e dalle campane di Cortona, che oggi vive di turismo ma che ha conservato un’anima antica, contadina. Dopo qualche anno di vita torinese – non so dire bene quanti ne siano passati prima d’ammalarmi di nostalgia – cominciarono a mancarmi il bar con gli amici, o la camminata, mangiando le more, dal paese a San Martino (dove d’estate arrivava Teresa, una romana di cui ero innamorato), cominciarono a mancarmi perfino i gatti e i vecchi che rimpiangevano i tempi passati («Quando c’era Mussolini…» o «Quando c’era Berlinguer!») oppure i loro brontolii: «Oggi vanno sui castagni con le motoscale, noialtri si saliva scalzi fino in cima, si facevano quindici, sedici metri, e poi con l’accetta zà, zà, zà, oggi invece voglion tutto comodo», ho sentito dire da uno che avrà avuto un’ottantina d’anni. Mentre raccontava ad altri anziani che annuivano si è interrotto per rispondere con un telefonino di ultima generazione.
PS Vivo a Vercelli ma appena posso e quando posso torno a Cortona, dove ho una piccola casa in via dell’Amorino. E’ da agosto che non le vedo, casa e Cortona. Mi manca la prima notte: aspetto che Cortona dorma e vado sul balcone, a fumare la pipa oppure un mezzo toscano, guardando i tetti.
Oggi sono entrato al Corriere, presto sarò cacciato come un cane
Un (mio) vecchio post del 2008. Su Buzzati e il giornalismo, anche.
Buzzati dichiarava con il candore, però sapiente, che era uno dei suoi fascini maggiori, di credere all’ispirazione: l’ispirazione era “l’idea giusta”, che però poteva nascere anche da un fatto di cronaca, da un aspetto insignificante della vita: un cane che passa per strada, due che litigano (Giuliano Gramigna)
Sto rivedendo Buzzati e Il Corriere, inserto del Corriere della Sera, giugno 1986.
Lo comprai e lo lessi perché stavo muovendo i miei primi passi da giornalista, sapevo niente, allora, di giornalismo.
Parte da lontano, quell’inserto.
1906, il 16 ottobre nasce Dino Buzzati.
Quel giorno Il Corriere annuncia che a Milano sono cominciati i lavori per la nuova stazione (finiranno nel 1931); che forse il Nobel per la letteratura verrà assegnato a Carducci; e, che il generale russo Uchiakoff insegue per tutta Europa, arma alla mano, la moglie fuggita con un capitano: a Madrid gli amanti “partecipano a un redattore la loro inquitedudine”.
Scrisse libri, commedie, posie, articoli Dino Buzzati. Scrisse anche lettere, per trent’anni, ad un amico, Arturo Brambilla e scrisse anche un diario.
Nel 1928 fu assunto al Corriere.
Annotò: Oggi sono entrato al Corriere, presto sarò cacciato come un cane.
Invece divenne un bravo redattore. Uno scandalo in un ospedale di Milano lo titolò “Nove coinvolti in pubbliche lenzuola”.
(Un titolo inconsueto, per l’epoca).
Nel 1958, all’età quindi di 52 anni e con trent’anni di carriera al Corsera, Buzzati con il libro “Sessanta racconti” vinse lo Strega.
Non si cresce mai: era rimasto quello nche annotava su diario “mi cacceranno”. Infatti, quando a Villa Giulia, presenti altri scrittori, critici, attrici, politici, invitano Buzzati a ritirare lo Strega Buzzati non c’è. C’è ma si nasconde, troppo timido per affrontare una premiazione così.
Aveva pochi amici, che non amasse gli intellettuali lo si capisce dal suo diario.
!955, è a Parigi, dove conosce Camus. Scrive: “Una faccia, grazie a Dio, non da intellettuale; se mai da sportivo, chiara, popolaresca… una facca da garagista”.
Amava i cani, era ipocondriaco, aveva una 500. Prima di morire (era il 1972, aveva 66 anni) alla giovanissima moglie Almerina (si erano sposati che lui aveva 60 anni e lei 25) disse: Non fare la vedova, risposati subito, odio il cordoglio.
Ma mi piace chiudere su Buzzati con una testimonianza di Montanelli.
Non l’ho mai sentito rimpiangere le ore, le giornate, gli anni spesi sul banco della redazione per ricostruire delittucci o delittoni. Seguitò a farlo anche dopo essere diventato un autore di fama internazionale.
(E mi viene da pensare al mestiere del giornalista. Buzzati accettava ogni incarico, di seguire ogni fatterello. Pensate che i giornalisti e gli aspiranti giornalisti siano come lui, per caso? Uno ogni cento, forse).
Buona giornata
Senza radici
L‘amico e giornalista Giorgio Levi nel suo blog (nell’articolo in cui parla del mio ultimo libro, Forse non morirò di giovedì) ha scritto che sono toscano, ma che il ho il carattere del vercellese.
Rispetto sempre le percezioni altrui.
Allora, ho scritto un altro libro, che spera esca a fine 2021, si intitola La suora, e il protagonista si chiama Romolo Strozzi, venditore abusivo di formaggi, giornalista pubblicista e investigatore per caso.
Romolo Strozzi è pugliese, porta dentro di sé, quindi, i colori e i profumi della Puglia (terra che amo). Ma a un certo punto della sua vita si innamora della Valsesia, delle cime innevate e dei bochi che vede dalla sua finestra quando si addormenta e quando si sveglia. E sa, Romolo Strozzi, di non essere più pugliese ma sa anche di non essere valsesiano.
Non ha radici.
Da piccolo mi sentivo molto toscano a Vercelli quando la gente mi parlava in un dialetto che non capivo. Ma quando tornavo a Cortona sapevo di non essere un cortonese. Avevo mantenuto, sì, la dizione toscana, ma la parlata l’avevo persa.
Senza radici, insomma.
Non è bello non avere radici. E’ come non avere casa. Tu cammini di sera e vedi una finestra illuminata. Sai che c’è vita, lì. Ma non per te.
Domeniche: d’oggi e di trent’anni fa
La mia domenica, oggi. Sveglia ore 10. Tè e tre, quattro biscotti, controllo posta elettronica, mail. Ore 11, a spasso con Cico e il nostro cane, Blu. Pausa cannolo siciliano per lui e caffè schiumato per me. Rientro a casa, si ripassano i romani e le prime guerra: sanniti e Pirro eccetera. Pasto veloce: un’arancia, un tarallo, un pezzo di fontina. Caffè. Programma delle prossime ore. Allo stadio, per la partita Pro Vercelli-Olbia. (Il calcio ai tempi del Covid: la vita continua, ma le mascherine e gli stadi deserti mettono tristezza.) Allo stadio scrivo cronaca e pagelle per Infovercelli24. Poi a casa: pezzo di commento sempre sulla Pro Vercelli per il settimanale Notizia Oggi. Poi: altro ripasso con Cico (mi tocca anche geografia, oggi) quindi cena d’asporto (stasera Sushi). Il finale con un po’ di facebook, di mail, una puntata della serie Glacé su Netflix e, prima di andare a dormire, le ultime pagine di Le otto montagne di Paolo Cognetti. Più varie ed eventuali.
Una domenica di una trentina d’anni fa. Sveglia alle 5, credo, treno per Firenze, arrivo a Firenze alle 11 circa, mangio un panino con la porchetta e bevo una birra e sento un pezzo di messa a Santa Maria Novella, poi prendo un treno locale che mi porta in un centro non distante, dove giocherà la Pro Vercelli (allora C2). Seguo la partita, poi torno indietro con la squadra, tutto il viaggio parlo con l’allenatore Giuliano Zoratti (era o il 1990 o il 91, mi sa), poi, appena arrivato a Vercelli, cena veloce, vado alla Sesia, scrivo i pezzi della Pro Vercelli e alle 22 in punto vado al cinema, all’Italia. (Mi è sempre piaciuto andare al cinema o a teatro da solo.) C’è Orchidea Selvaggia con Mickey Rourke. E’ tutto pieno. Vedo il film in fondo, in piedi, ma va bene così.
Guardo il film, ripensando a Santa Maria Novella e al treno locale che presi da Firenze a quel centro della Toscana che ora non ricordo. Eravamo in tre, solo in tre. Io, con un libro perché dovevo preparare un esame (mi pare l’ultimo a lettere, di sociologia), e un ragazzo e una ragazza. A un certo punto il ragazzo attacca bottone con la ragazza, ridono, scherzano, diventano amici.
E buona domenica a chi passa di qui. (Ho scritto in fretta, scusate; ora mi faccio un caffè, carico la pipa e corro allo stadio).
Per qualche copia in più
È un venerdì sera del 2002, vado per la prima volta al salone del libro, Torino. Vedo una scena triste, che non dimentico. Ci sono degli scrittori che fermano le persone cercando di vendere i loro libri, stampato (suppongo) da qualche editore a pagamento.
Prima immagine triste, ne seguiranno altre.
Sempre al salone, due anni dopo. Mi ferma un editore che conosco. Mi fa vedere alcuni libri e me ne porge uno. Arriva una terza persona, sorridente. Si presenta e mi dice: Sono l’autore. L’editore lo guarda e gli dice: Non l’ha comprato, gliel’ho regalato lui. Il tipo si rabbuia e se ne va. L’editore mi dice: Sono due giorni che fa la sentinella al suo libro, sperava che tu fossi il primo acquirente.
Anni dopo. Al salone incontro una persona che conosco da anni. Ci siamo scritti, ci siamo anche incontrati, ci siamo scambiati mail. Diciamo che c’è dell’affetto. Vado incontro a questa persona che, però, evita di guardarmi. Non è da lei. Oddio, era da un po’ che non ci sentivamo, almeno un anno. Nel frattempo era diventata famosa, questa persona, grazie alla pubblicazione di un libro. Fa male alla vista un po’ di successo? Triste, triste tanto.
Adesso che è uscito il mio nuovo libro però penso soprattutto alla prima immagine. Non mi sento, poi, troppo diverso. Inondo la mia pagina facebook di segnalazioni, foto, estratti del mio ultimo libro.
Titolo di un film già visto: titolo: Per qualche copia in più.
Prima recensione su carta
Da Notizia Oggi Vercelli di lunedì 15 febbraio.
La figura del giornalista per il grande pubblico oscilla tra «Quarto potere» e la figura del Perozzi di «Amici miei». Una realtà comunque complessa e non facile da restituire. Ci voleva la penna di un giornalista e scrittore come Remo Bassini, che è una delle firme storiche del giornalismo vercellese, per avere un ritratto di questo mondo non banale, con tutte le sfumature che bisogna conoscere. Bassini mette in scena un intero mondo di personaggi, ovviamente con nomi e fatti non riferiti a circostanze reali, però realistici in quanto alle dinamiche e ai “tipi umani” che possono vivere in una redazione. Il protagonista è Antonio Sovesci, il direttore di un quotidiano, di una città di provincia. Il romanzo è «Forse non morirò di giovedì», un giorno “no” per eccellenza di Sovesci. E’ stato appena pubblicato da “Golem Edizioni”, ha 192 pagine, con una postfazione del giornalista Giorgio Levi, e costa 15 euro. Sono ben spesi perché il libro cattura subito e il lettore vi entra con piacere.E cattura perché i personaggi e le loro storie sono costruiti con una grande attenzione per la struttura narrativa e le sue regole, con una notevole profondità psicologica, emozioni, debolezze, pulsioni sessuali comprese. Antonio Sovesci, essendo il tramite con il lettore, è particolarmente reale e nitido, a cominciare dalla sue insicurezze. Lo troviamo infatti in un momento di particolare vulnerabilità emotiva. Intanto però il giornale deve continuare a uscire.
Poi nelle prime pagine si scopre che c’è anche chi “vuole farlo fuori”, cacciarlo dal giornale.
La prima parte del romanzo ruota intorno a un’intervista televisiva. Caterina, che lavora in una Tv, ma si è formata nella redazione del giornale locale, ha combinato l’incontro con il suo ex direttore. I due sono legati da un passato complicato. L’intervista sarà l’occasione anche per ribadire alcuni concetti sul giornalismo, su cosa significa in una piccola realtà, sugli ideali che rimangono, sul ruolo sociale del giornalista. Estratti che vengono disseminati in tutto il volume. Tra le considerazioni anche passaggi su un aspetto cruciale del mestiere, la libertà dei giornalisti e della stampa in genere. “Questa domanda me la pongo ogni giorno” risponde il direttore.
In questo romanzo la libertà di stampa è la vera protagonista. Proprio intorno a questo valore la vita nella redazione si fa dura, ci sono colleghi a cui forse non dispiacerebbe fargli le scarpe e l’editore entra a gamba tesa per una notizia che non doveva proprio uscire in prima pagina. Ma la decisione di “farlo fuori” era presa da molto tempo prima, è quanto gli fa sapere l’amico maresciallo dei carabinieri che è venuto a sapere di un complotto ai suoi danni. Da metà romanzo in poi si assiste ad un crescendo da poliziesco, ma non sono eventi esterni a incalzare, si tratta più che altro dinamiche interiori. Conviene fermarsi qui per non spoilerare il finale. Il romanzo, in definitiva, può anche essere letto come un “manuale”, non solo per i giovani che vorrebbero intraprendere la professione, o i colleghi in genere, ma anche per il pubblico. Insegna infatti a cogliere, da certi segnali, quando un giornale vive per i suoi lettori oppure quando li tradisce a favore di altre logiche.
Gian Piero Prassi

Ciro Paglia, il giornalista che sfidò Cutolo
Nei miei nove anni di direzione del bisettimanale La Sesia, testata storica di Vercelli, ho avuto l’onore di ospitare – rigorosamente in prima pagina – una firma illustre dell’informazione italiana: Ciro Paglia, il giornalista che sfidò Cutolo.
Fu sua moglie, la giornalista e scrittrice Stefania Nardini, che me lo presentò, un’estate di alcuni anni fa, a Bettona, dove io e mia moglie Francesca fummo loro ospiti, più volte.
(Indimenticabili i risvegli: hanno il profumo del buon caffé e del tabacco della pipa di Ciro che raccontava)
Nell’ultimo libro che ho scritto (Forse non morirò di giovedì) nei ringraziamenti ho scritto: Dedico questo libro a tutti i giornalisti liberi e a due persone in particolare, che non ci sono più: Francesco Brizzolara, che è stato il mio direttore e che mi ha insegnato a fare il direttore, e Ciro Paglia, che non ha bisogno di presentazioni e che è il più bravo giornalista che ho incontrato sul mio cammino.
Un abbraccio a Stefania (se posso dire che Ciro è stato mio maestro ed amico lo devo a te) e a suo figlio Francesco (hai avuto un grande, grande padre).
Un articolo che gli rende omaggio:
https://www.fanpage.it/napoli/ciro-paglia-il-giornalista-che-sfido-raffaele-cutolo-con-un-pezzo-in-prima-pagina/
Forse non morirò di giovedì (estratti)

“Forse non morirò di giovedì”, Golem edizioni, il mio ultimo libro.
Alcuni estratti (dalle prime pagine)
“Signorina, è un bel mestiere il nostro. È bello anche perché ci permette di incontrare persone e storie. Ma c’è una storia, quasi mai raccontata: è la storia del giornale stesso e di chi lo fa.”
È superstizioso Sovesci. Se vede un gatto nero cambia strada, e se potesse abolirebbe dalla sua vita il giovedì: gli capita di tutto quand’è giovedì.
Dario Salici, aveva sentito un racconto. Ore prima, all’incirca verso le sette, alcune persone avevano visto per strada un noto penalista, l’avvocato Toccani, che pedalava in pieno centro storico tenendo la moglie seminuda – scarpe da ginnastica bianche, mutandine e reggiseno neri e null’altro – al guinzaglio come un cane, costringendola quindi a corrergli dietro.
Dario Salici, una volta tornato in redazione, aveva fatto qualche telefonata, ma l’unica risposta che aveva ottenuto era che tutti ne parlavano, tutti lo sapevano, ma nessuno aveva visto e nessuno sapeva chi avesse visto.
In realtà, Sovesci sta cercando di capire se la sua nuova dirimpettaia è in casa. È una donna sui quaranta, carina, vive da sei, sette mesi in quell’appartamento che in passato ospitava una cop- pia di anziani. Di lei Sovesci sa solo che verso le ventidue, quando lui sta ancora lavorando e sogna un piatto caldo, va a dormire dopo aver letto o guardato la televisione. In un paio di occasioni hanno scambiato qualche parola, da finestra a finestra.
«Lei, dunque, è il direttore?» «Sì, sono il direttore. E lei, che lavoro fa?» «Sono maestra elementare.» Roba da poco e di pochi minuti. Vorrebbe tanto, lui, conoscere il nome di questa sua benedetta vicina che, una sera di tre mesi fa, lo ha stregato.
Dopo la chiusura del giornale, ormai solo in redazione, aveva spento la luce e aperto la finestra per bere in santa pace, stravaccato in poltrona, una tisana con zenzero, limone e miele ormai fredda, che gli aveva preparato la segretaria Laura, ore prima. Quando aveva finito, dalla finestra, l’aveva vista, seduta ma pie- gata in avanti, con le mani in faccia e un fazzoletto per asciugarsi le lacrime.
Si era sentito in imbarazzo, fuori posto, come se la stesse spiando. Perché Sovesci è cresciuto in un certo modo, portato come esempio dalla sua maestra quand’era bambino, e adesso, che è grande, non è cambiato: è un uomo perbene, rispettoso delle regole. Per lavoro un giornalista può spiare, a volte serve, ma nella vita no, non ha mai spiato nessuno, lui, nemmeno Simona; e se quella sera avesse visto nuda la sua vicina, c’è da giurarci, avrebbe chiuso la finestra e se ne sarebbe andato. Invece, nel vederla piangere come una bimba disperata, si era incantato; e poi, ore dopo, non era riuscito a prendere sonno ripensando a lei e sentendosi doppiamente in colpa perché certo, non l’aveva vista nuda, ma era stata un po’ la stessa cosa perché il pensiero di quel corpicino piegato sulla sedia, come in posizione fetale, lo aveva eccitato.
Scrivere (di Deborah Gambetta)
Scrivere è fatica. Scrivere non significa accostare parole e raccontare una storia. Scrivere significa montare e smontare quello che si è scritto, avere il coraggio di tagliare l’inutile, significa anche impiegare interi pomeriggi su una frase, significa perdere il sonno perché quella cosa non torna e se non torna i casi sono due: o non serve o non è stata sviluppata. Scrivere significa andare il più a fondo possibile, non solo dentro il nocciolo della storia ma anche dentro ogni singola scena che si racconta. Scrivere significa leggere e rileggere quello che si è scritto, tornarci su di continuo, aggiustare e poi vedere come questa cosa su cui ci perdiamo sonno si combina col resto. Se quello che stiamo scrivendo non produce sofferenza, se quello che stiamo scrivendo non ci occupa la mente giorno e notte, se quello che stiamo scrivendo non ci obbliga a lavorare sul testo, sulle parole, sulle frasi, sulla struttura, su ogni singolo personaggio, se non ci fa incazzare o gioire quando tutti i fili che sembravano slegati finalmente si riannodano, se non succede tutto questo, quello che stiamo scrivendo, allora, sappiatelo, è una merda. (Deborah Gambetta)
Pubblicato qualche anno fa. Ripubblicato oggi, seconda domenica di febbraio, l’ennesima di covid
I libri di Deborah Gambetta: https://www.amazon.it/s?i=stripbooks&rh=p_27%3ADeborah+Gambetta&ref=dp_byline_sr_book_1
Covid: Tachipirina, riposo e tampone no grazie
Capitolo Covd. Questa intervista che ho fatto al professor Piero Sestili è stata ripresa da altre testate.
La prima domanda e la prima risposta.
Mentre l’Italia discute su Sanremo, su Conte e su Draghi e sul vaccino (sì, ma quale e per chi?), di Covid si continua a morire. La triplice alleanza “Riposo, tachipirina e tampone (spesso aspettando giorni e giorni)” continua a mietere ricoveri e vittime. Eppure c’è chi dice che con i farmaci giusti e con una cura tempestiva si possono evitare intasamenti dei pronti soccorsi e morti, anche. Lo dicono diversi medici di famiglia, da diverso tempo.
A Piero Sestili, docente di farmacologia all’università di Urbino, con pubblicazioni internazionali, una domanda secca: Professore, ma non è folle che ancora non ci siano delle linee guida per il trattamento domiciliare del paziente covid?
«Sembrerebbe folle, ma non è follia. E’ disinteresse? Scarsa competenza? Non so. E’ una cosa che però mi lascia perplesso. Non si tratta di inventarsi chissà cosa. Solo di applicare alcune nozioni di base della farmacologia una volta chiarite le basi patogenetiche di Covid, che sono state comprese meglio da almeno dieci mesi. Mi spiego: Covid, più che una singola malattia, sembra essere una duplice malattia. Una prima legata al virus, meno pericolosa, un’altra più pericolosa che sembra prendere le consegne dal virus per poi innescare una reazione infiammatoria polmonare e sistemica, a volte letale. Sul virus possiamo agire – come stiamo facendo – con la vaccinazione, con gli anticorpi monoclonali e con i farmaci antivirali (questi ultimi in fase di sviluppo). Ma ancora queste misure non hanno raggiunto una diffusione tale da garantire piena efficacia. E allora, per chi si ammala oggi e continuerà ad ammalarsi domani, occorre concentrarsi sulla “seconda malattia”, l’iperinfiammazione, cercando di prevenirla da subito. Lo si può fare a patto che si ammetta ufficialmente il valore degli antinfiammatori non steroidei (per esempio acido acetil salicilico, ibuprofene ecc.) al posto del paracetamolo, l’efficacia spesso risolutiva del cortisone e poche altre indicazioni. E soprattutto è fondamentale che si riconosca l’importanza di agire subito, senza aspettare l’evoluzione dei sintomi. La “vigile attesa” ministeriale mi rimanda al capezzale dei moribondi narrati da Emìle Zola, nell’800…»
IL RESTO DELL’INTERVISTA
Ci stanno distruggendo i ricordi
Mi è venuto in mente un libro letto negli anni 80-90, non ricordo. Il titolo è: Il teatro, dopo. L’autore si chiama Fersen.
Erano i tempi in cui il teatro lamentava il lento espandersi della televisione su tutto. Contrapposta al teatro (vado a memoria) la televisione crea confusione con la sue “sovrapposizioni di immagini”.
Un’immagine dietro l’altra, a ripetizione, cosa resta?
Ieri mi sono messo a guardare una serie di Netflix. Ho una predilezione per le srie francesi. Ma a un certo punto mi sono accorto che, punto primo, l’avevo già vista e, punto secondo, l’avevo dimenticata.
I pochi sceneggiati che vidi quando la televisione era fatta di due canali in bianco e nero più la svizzera, invece, li ricordo tutti.
Ci stanno distruggendo i ricordi.