Scriveva poesie, racconti.
Le e li regalava agli amici, alle persone che le piacevano.
E le piaceva tanto sentire che le sue parole, quando venivano lette, ad alta voce o in silenzio, arrivavano al cuore.
Regalava parole, lei, le sue parole.
E aveva un diario segreto: di lacrime e amori.
Un giorno – pensava – vorrei regalare anche queste pagine.
Aveva – poi – un dubbio: sulle lettere che scriveva agli amici; lettere che, ma era un segreto solo suo, prima di affrancare e spedire, fotocopiava così da conservarne un’altra copia; potrò, si chiedeva, regalarle un giorno ad altri?
Pensava: le tengo, così le regalerò quando sarò vecchia.
E viveva felice, di scrivere e farsi leggere e regalare le sue parole.
Che importa un libro? che importa guadagnare?
A lei bastava questo: regalava parole, e si nutriva, poi, di un complimento di una lacrima, di un grazie.
Scriveva per gli altri.
Per il loro sorriso.
Sì, lo sapeva, quel ragazzo era innamorato di lei, da anni.
E lei, a lui, non aveva mai donato una parola (né carezze, mai).
Pianse tutta notte quando seppe che lui era morto, così giovane, così infelice.
Scrisse la lettera più bella, quella che nessuno mai avrebbe letto, una sola copia stavolta, scrisse piangendo: ché da lei e da loro, da quella carta e da quelle parole, si sarebbe dovuta separare, per sempre.
Quando stavano per chiudere la bara sorprese tutti: con un gesto veloce della mano infilò la lettera più bella nella tasca di lui.
Nel buio più buio, forse.
Dove le parole si possono toccare.
(un episodio visto nell’agosto del 2005.
nella bara c’era il mio giovane, infelice fratello Moreno.
lei, piangendo, gli regalò parole)