nel 1983

Sono a casa in malattia, non succedeva da dieci anni almeno, forse più. Tosse, febbre, che sta passando. La tosse no, fa resistenza, colpa, credo, anche delle troppe sigarette (oggi comunque vado di pipa).
Con tosse e febbre per anni sono andato lo stesso lavorare, comunque.
Con tosse e febbre penso sempre a due cose, io.
A quando ero ragazzo, mi ammalavo mai. Dal momento che perdevo sempre gli ombrelli che piovesse o nevicasse io percorrevo i due chilometri che mi separavano da casa a scuola in bicicletta, andando veloce e basta, arrivando quindi zuppo, ma andava bene così. E tanti pomeriggi giocavo a pallone in oratorio sotto la pioggia, non solo: m’arrabbiavo con quelli che preferivano non giocare.
La seconda cosa a cui penso è un anno, il 1983.
Lavoravo in fabbrica, e mi ero iscritto a lettere, a Torino. Frequentando.
La mia vita era: sveglia alle 6, treno alle 7, lezioni a Torino dalle 9 alle 11, poi treno da Torino a Vercelli, pasto veloce (solitamente una mozzarella o un po’ di verdura e un bicchiere di vino), poi pullman che mi portava in fabbrica, poi fabbrica per otto ore, poi pullman, poi mezz’ora con mia figlia, poi sveglio fino alle 3 di notte (avrei dormicchiato sul treno).
Ecco quell’anno: non beccai nemmeno un raffreddore. Volevo stare bene e stetti bene. Non persi una lezione dei quattro corsi che seguii (Letteratura moderna e contemporanea, Geografia storica, Psicologia dinamica, Storia Romana), non persi un giorno di lavoro in fabbrica.

Non solo. Io dal 1976 al 1980 ho avuto qualche crisi epilettica (malattia ereditaria, nel mio caso). I medici, oltre ai farmaci, mi diedero un’indicazione precisa: dormire almeno sette ore, avere insomma una vita regolata.
Bene, nel 1983 mi abituai a dormire 3-4 ore e fare brevi pennichelle di pochissimi minuti durante la giornata; mi ci abituai senza paura: sentivo che sarei stato bene.

Solitamente sto bene anche quando scrivo o riscrivo un libro. E quando qualcuno mi chiede “dove lo trovi il tempo?” io, anche in questo caso, ripenso al 1983.
Certo, non credo di aver mai visto la televisione quell’anno, e la domenica era un giorno di clausura sui libri, e che fosse primavera me ne accorgevo guardando la finestra, ma tant’è.
E buona giornata

PS Ne scrivo con orgoglio del 1983; so bene che chi si loda s’imbroda ma è un pensiero costante che mi fa bene tenere a mente.

7 pensieri su “nel 1983

  1. Per me è stato esattamente così il 1996… anch’io studente lavoratore, anch’io iscritto in lettere, anch’io tre ore di sonno anotte….ed anch’io non ricordo di aver mai visto la televisione per almeno 12 mesi! La domanda sorge spontanea: che non sia proprio l’assenza del narcotico tubo catodico a liberare le forze vitali?!?
    Comunque, auguri di pronta guarigione!

  2. no, non ho smesso, cara daniela, ma ho un obiettivo: fumare solo la pipa (ed è cosa che fanno anche alcune donne che conosco)
    ciao

  3. Può darsi che chi si lodi s’imbrodi.
    Però il risultato dipende dalla qualità del brodo.
    Un buon brodino di manzo e vegetables ti può far bene, visto che sei un poco infermo :-)
    Auguri, comunque

  4. Nel 1983 avrò avuto circa quindici anni. Ero una liceale felice e mi sentivo molto poco scalfita da tanti problemi o doveri: io ero la figlia di Angelo e Giuseppina, ero quella guardata da tutti come “una fortunata”. Sapevo di esserlo davvero. I miei genitori lavoravano moltissime ore, erano totalmente assorbiti dall’attività di famiglia ma riuscivano anche ad essere presenti con me. Avevo persino la mia vecchia tata presente quotidianamente a casa, facevo i miei compiti ed era come se il mondo per me fosse sempre dovuto rimanere rosa. Ogni tanto qualche piccola crisi di epilessia che non è nel mio caso ereditaria ma che è presente nella mia vita da quando avevo solo 3 anni, da quando ho memoria di me. Questo era il solo neo ma poi neanche tanto: la crisi si presentava una volta ogni tre anni e mi assaliva di notte, non correvo rischi e mi curava uno dei più grandi luminari. Per Paoletta non si badava a spese e certamente babbo Angelo stava peggio di me dentro, così come mamma Giuseppina. La preferita dei nonni, quella che da tutti è sempre stata iper coccolata, quella che trascinava gli amici in grandi risate. Non avevo ancora capito, protetta da tutti, che ad un certo punto nella vita devi essere agile a scendere dal piedistallo e a camminare da solo, su strade accidentate anche. Lo dovetti capire presto e lo capii. Cominciai il mio percorso senza lagnarmi e ancora non ho idea di rallentare, anzi. Probabilmente mi piace molto di più la Paola di oggi, vulcanica ed autonoma, rispetto alla quindicenne super protetta di allora. Una sola cosa è rimasta: l’epilessia e, rispetto ad allora, si è anche imbastardita ma non fa nulla perchè con lei io sono – quando posso – molto più bastarda. Non le ho mai ceduto le mie ore di sonno: ho troppe cose da fare che una sola giornata la riempo come niente. Ho una figlia meravigliosa anche, di quasi diciannove anni. Non rimpiango la mia adolescenza dorata. Una sola cosa, da più di quattro anni, mi manca tanto: la presenza fisica di mio padre. Angelo è rimasto nel cuore di tantissima gente, figurarsi se non è vivo nel cuore della sua Paoletta !
    Quelle chiacchierate insieme, il nostro caffè insieme, la nostra sigaretta insieme, i nostri giochi da scemi per sfottere mamma Giuseppina, i suoi sguardi eloquenti più di mille parole mi mancano. Mi fanno sentire come un’orfana perchè la nostra Pina – da quando lui non c’è più – non è la stessa. Nessuna di noi è più la stessa, neanche io, sebbene sia molto brava nel darla a bere.

  5. Sembra un racconto stereotipato, molto americano, molto tutto, ma invece si capisce – si sa – che è vero. Cose come queste esistono e accadono davvero. Magari uno non ce la fa a tirarle avanti incondizionatamente – perché gli impegni sono tanti e, soprattutto, mutano nel corso del tempo e anche perché, poi, è giusto fare di periodo in periodo gli ‘aggiustamenti’ che si ritengono più opportuni al nostro management esistenziale – senz’altro, anzi, non ce se la fa a tirarli avanti a lungo. Però, come nel tuo caso, è bello poi ricordarli questi periodi. E il loro non è un ricordo soltanto, ma anche uno stimolo a non nascondersi dietro la stanchezza (anche quando essa è reale), al trantràn, alla consuetudine, ma ad andare avanti. Sempre “ancora un po’”.
    E buona convalescenza.

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